Giuseppa Saccaro
Del Buffa
ESPANSIONE
E CONDENSAZIONE NEL COSMO DI
ROBERTO
GROSSATESTA Certamente
per inventare uno dei tanti immaginifici linguaggi umani, impresa tanto
difficile, ma stimolante, motivo importante è stato il bisogno di trovare una
adeguata rappresentazione visiva e concettuale del cosmo. Quando
ci confrontiamo con raffigurazioni cosmologiche di epoche e paesi diversi,
ci sorprende sempre non solo la drammaticità che tali immagini suggeriscono,
una drammaticità insita anzitutto nella domanda che ogni generazione
umana si pone, sul perché e sul come le cose entro cui viviamo siano
così e proprio solo così, ma perché ogni rappresentazione cosmologica
pretende di ostentare una sua plausibile coerenza e persuasività, sia
mitologica, sia religiosa o razionale o perfino scientifica. Ciascuno
di questi quattro punti di vista, mito, religione, ragione filosofica,
scienza, si avvale di un proprio linguaggio e di una speciale elaborazione
e combinazione degli elementi da cui tale linguaggio è costituito.
Qualunque sia la sua natura, per esempio un suono, un segno, un complesso
di segni, un’immagine astratta, una figura rappresentativa, o una figura
simbolica, ogni suo elemento linguistico è portatore di significati
mutevoli, complessi, stratificati attraverso le esperienze nel tempo
millenario umano. Su questa molteplicità di riferimenti che si sono
accumulati entro ed attorno ognuno di questi elementi, intervengono
sempre, consciamente o subconsciamente, il lavoro immaginativo della
fantasia e la riflessione del ragionamento umano. Essi espandono indefinitamente
la forza rappresentativa e comunicativa del linguaggio e soprattutto
costruiscono delle strutture e dei sistemi di rapporti rappresentativi,
fino a formare un tessuto abbastanza stabile, ma anche elastico, flessibile
e mutevole, cioè un linguaggio di segni, parole, immagini, suoni ecc.,
proprio di ogni cultura e di ogni civiltà. L’archeologia di tutti questi
linguaggi affascina, perché induce ad inseguire all’indietro tracce
e frammenti in epoche e luoghi
indefinitamente lontani, sprofondando al di là del ricordo cosciente,
in zone di memorie storiche e preistoriche insondabili.
A un certo punto della loro esistenza, gli uomini stessi si sono meravigliati
di trovarsi a possedere uno strumento essenziale come la parola, con
nomi per ogni cosa, capacità di significare, comunicare e ricevere il
senso dei suoni e dei segni. A molti saggi del passato, profeti o filosofi,
artisti o politici, la risposta più plausibile sembrò trovarsi nella
concezione che solo un dio avesse potuto possedere in sè la parola,
essere egli stesso parola, creare le cose con la parola e elargirla
direttamente agli uomini. Perciò la parola del dio è stata considerata
manifestazione del sacro al genere umano: la parola e il senso che essa
comunica sono rappresentazioni significative della realtà in cui l’uomo,
creatura tra le creature, si trova a vivere.
Questo
mio generico preambolo non intende certo riproporre una teoria teologica
del linguaggio, ma piuttosto riportarci a epoche in cui all’uso sempre
più raffinato e espressivo del linguaggio si è affiancata una riflessione
per così dire di secondo livello, cioè sui caratteri e l’efficacia del
linguaggio stesso, al di là della semplice rappresentazione dei segni:
anzitutto la coscienza che si è andata creando una rete di connessione
tra i segni, quindi rafforzata e evidenziata dalla grammatica e della
sintassi; poi questi tipi di connessione si sono variate e complicate,
con l’affermarsi dell’uso di forme retoriche che danno particolare inflessione
ad un discorso, nonché di forme logiche e argomentative che costituiscono
la base per la critica, la dimostrazione e la verifica di quanto il
linguaggio, attraverso un discorso rettamente o retoricamente articolato,
esprime e comunica.
Di questo lungo percorso ha fatto parte anche il linguaggio scientifico,
assumendo forme assertive, descrittive, deduttive e dimostrative, dapprima
usando nomi e verbi della pratica discorsiva comune, poi introducendo
simboli astratti, arbitrariamente e convenzionalmente fissati come rappresentativi
di classi di concetti (per esempio i numeri, le singole lettere o altri
segni geometrici o figurativi) oppure sostitutivi di classi di connessioni
tra concetti o tra ragionamenti (per esempio i segni delle operazioni
matematiche, fino alla simbologia della moderna logica formale). Questa
simbologia astratta ha comportato una estrema semplificazione dei segni
da usare, ma anche una estrema condensazione della forza rappresentativa
e connettiva del linguaggio, e infine un livello di astrazione che potremmo
definire metasimbolico. Tutto ciò è stato fondamentale per lo sviluppo
della civiltà, soprattutto della scienza e della tecnica.
Tuttavia
l’antico pensiero scientifico basato ancora sul metodo descrittivo dei
fenomeni, pur sfruttando l’unico mezzo allora disponibile, cioè il linguaggio
comune e le parole consolidate nell’uso quotidiano, è stato capace di
precorrere la formulazione di ipotesi che oggi sono riaffiorate come
- per usare un’espressione paradossale - da un subconscio collettivo
scientifico, per riproporre un’intuizione antica nelle vesti, nelle
formule e tramite gli strumenti sofisticati della tecnologia moderna.
Ne esporrò un esempio rifacendomi ad un autorevole umanista dei primi
decenni del XIII° secolo, autore di sofisticate opere teologiche, scientifiche
e letterarie, particolarmente interessato alla riscoperta e alla traduzione
di opere ebraiche e arabe oppure di opere classiche pervenute in versioni
medio-orientali, recuperando larghi strati di opere e di scoperte antiche,
perdute negli anni più bui dell’alto medioevo. La ragione di questa
scelta è che le sue ipotesi cosmologiche, rimaste a lungo nel silenzio
dei manoscritti, oggi possono non solo incuriosirci, ma indicarci come
certi pensieri e idee che a prima
vista in un determinato contesto storico sembrerebbero frutto di immaginazione
balzana, testimoniano il sorgere e permanere nel tempo di miti a metà
tra il fantastico, il razionale, lo scientifico (cfr.figg.1-3),
covando nell’humus profonda della mente umana, tra meraviglia e speranza,
come attendendo il momento più propizio per un nuovo disvelamento conoscitivo.
L’esempio di cui parlerò prelude a svolgimenti moderni della cosmologia
scientifica, e a visioni artistiche dell’azione fisica della luce nella
formazione dei fenomeni cosmici, con sfere, cerchi, balenii di splendori
e di luci, visualmente reinterpretate da artisti del Novecento, come
possiamo vedere, per limitarci a qualche famoso esempio, in alcune pitture
di Frantisek Kupka, e di Robert Delaunay che qui vi mostro. (figg.
4-7)
Tratteremo
dunque di Roberto Grossatesta, vescovo di Lincoln, che può considerarsi
un precursore della nascita della scienza sperimentale nel XIII e XIV
secolo. Tra i suoi brevi trattatelli pervenutici manoscritti vi è un
De luce, rimasto sconosciuto fino a circa cento anni fa e pubblicato
nel 1912 da L. Baur, Die philosophischen
Werke des Robert Grosseteste [1] È solo dopo la
metà del Novecento che incominciò a crescere un certo interesse per
lo studio della teoria della luce nella filosofia della
natura tra Duecento e Trecento, in una duplice connessione: cioè in
rapporto con la mistica della luce nell’ambito della teologia e della
religiosità, cosa importante ma di cui non parleremo oggi, e in rapporto
con gli studi sulla prospettiva e l’ottica, che sono stati determinanti
per la cultura e l’arte tardo medievale e rinascimentale. Il trattato
del nostro autore coinvolge tutti questi punti di vista, ma ha una particolare
caratteristica: cioè imperniato sull’intenzione di spiegare
la produzione e l’evoluzione del cosmo sul fondamento della connessione
tra metafisica e fisica, cioè tra l’idea del divino e le ipotesi scientifiche
relative alle leggi della natura creata. In altre parole, il Grossatesta
intende spiegare come dall’istante in cui è stato pronunciato il divino
“fiat” di cui parla la Bibbia, è iniziato, anzi esploso un processo
produttivo fino alla formazione del cosmo sferico e della differenziazione
al suo interno delle diverse parti del mondo corporeo.
[2]
Il primo
problema che il filosofo affronta è quale relazione possa esserci tra
quella luce inaccessibile e misteriosa, che è Dio (definito “luce inaccessibile
e inaccessibilità della luce”, “immensamente eccedente qualsiasi intelligenza”)
e il mondo delle creature e della materia. Grossatesta crede profondamente
nell’evento della creazione, ma ricorre ad una immagine di origine neoplatonica che avrà una larghissima fortuna anche nella
mistica cabalistica ebraica. [3] Dio, che è pienezza
dell’essere, elargisce da sé un “raggio” divino, supersplendente e tearchico,
di potenza infinita, dal quale tutte le creature ricevono la conoscenza,
perché in lui “preesistettero in modo ineffabile le parole di tutte
le conoscenze”. Tale raggio rappresenta “metaforicamente” (“subfigurative”)
sia il protendersi del divino verso la sua opera, sia il diffondersi
dell’azione divina nel creato. Ma per non restare su un piano soltanto
metaforico e immaginativo, il filosofo passa a ragionare sulle parole
stesse con cui si parla del cosmo: ed è qui che possiamo constatare
come l’analisi critica del linguaggio in uso diventi il fondamento su
cui viene costruita la scienza sperimentale.
Egli inizia dalle definizioni dei termini in base ai quali sarà costruito
il suo discorso, e considera le tre parole che denotano i tre aspetti
fondamentali presenti in tutte le cose: “luce”, “corporeità” e la “prima
forma corporale”. Grossatesta afferma che in effetti esse indicano una
medesima cosa: corporeità non denota altro che la forma primaria e originaria
che riassume e contiene in sé tutte le forme possibili del corporeo:
oggi potremmo dire che la corporeità è la categoria universale del corporeo,
ma anche il suo principio ontologico. Secondo l’autore essa si identifica
con la luce stessa: non la luce inaccessibile di Dio, ma la luce che
ne deriva e ne dipende, e in quanto principio primario, imprime nella
materia le potenzialità della forma, costituendo il corporeo, con cui
è da sempre intimamente connessa. Come grossatesta spiega subito dopo,
la luce ha una proprietà che la teologia riconosce all’attributo divino
più importante, cioè al Bene, e che caratterizza la sua azione su ciò
a cui si unisce: la proprietà di autodiffondersi per se stessa immediatamente
e istantaneamente in tutte le direzioni, e per distanze tanto grandi
quanto è possibile che ce ne siano, a meno che non vi si frapponga un
ostacolo sufficientemente denso, opaco, inerte, cioè una materia passiva
e oscura, tanto da nullificare la sua potenza diffusiva luminosa. In
base a questa sola proprietà, ammettere per ipotesi un punto di luce
comporta logicamente che esso
può riempire in un unico istante una sfera di luce dai limiti indefinibili,
moltiplicando indefinitamente se stesso. Sotto l’aspetto cosmologico
questo significa che il punto di luce è di per sé il principio espansivo
dell’universo anteriormente alla reale esistenza e costituzione di qualsiasi
corpo che possa delimitarne l’azione.
Sorge allora un’altra domanda: cosa può impedire che la sfera cosmica
di luce sia infinita, considerato che per tutto il pensiero antico il
mondo, creazione perfetta di Dio, non è ritenuto illimitato e senza
fine, cioè non è imperfetto e ulteriormente perfettibile?
Per risolvere il problema, Grossatesta riprende il secondo termine del
suo enunciato iniziale e lo spiega più ampiamente. La corporeità è una
sostanza [4] di per sé semplice, e quindi mancante
della dimensionalità corporea. Ma unita alla materia, che di per sé
è anch’essa un principio semplice e indistinto, determina per la sua
propria forza espansiva l’estendersi della materia nelle tre dimensioni
spaziali. Anche la forma, terzo termine posto all’inizio dell’esposizione,
è di per sé un principio semplice, privo di dimensionalità, come la
materia: quindi mentre la luce si diffonde, ed estende o distende la
materia, la quale di per sé non ha tale capacità, la forma può seguire
l’una e l’altra con un’azione diversa, idonea alla sua natura, cioè
si diffonde moltiplicando se stessa e istantaneamente diffondendo ovunque
questa moltiplicazione, contribuendo alla estensione della materia:
la forma infatti non è separabile dalla materia, né la materia può abbandonare
la forma. In tal modo i tre principi stabiliti all’origine cosmologica,
pur essendo esenti dalla tridimensionalità, e restando in sé semplici
e distinti l’uno dall’altro, e ciascuno operando secondo la sua proprietà
naturale o attiva o passiva, però agendo insieme e simultaneamente costituiscono
unitariamente il complesso composto e tridimensionale dell’universo.
Diffusione ed estensione dipendono dunque da una dinamica interna alla
luce, alla corporeità e alla forma, che consiste nella moltiplicazione
di sé per se stessa, infinite volte e dappertutto: questa dinamica ha
una sequenzialità spaziale e temporale, per cui l’origine dell’estensione
corporea è simultanea all’origine del fluire del tempo. Ma poiché all’epoca
del Grossatesta non si era ancora scoperto che la luce viaggia secondo
una propria velocità, l’autore sostiene che tutto il processo finora
descritto è istantaneo, perché la luce, secondo quanto allora si credeva,
è istantanea e si diffonde istantaneamente: perciò sebbene il filosofo
si riferisca a principi metafisici cioè a semplici concetti primari,
egli scopre una complessità evolutiva nell’istante primordiale, in cui
è posto il punto di luce, perché la natura dei tre principi implica
ciò che oggi chiameremmo una energia (o potenza attiva) di infinite
ondate della automoltiplicazione che portano alla costituzione dell’universo:
dal punto di luce si passa immediatamente dalla pretemporalità e prespazialità,
alla completezza dello spazio e all’uniformità del tempo.
Tuttavia come spiegare che da principi semplici e non quantificati si
costiuisca la quantità numericamente misurabile e quindi sottoponibile
alle operazioni numeriche, come è tutta la realtà materiale? Grossatesta
ricorre ad un’argomentazione di Aristotele, il quale sosterrebbe – a
suo parere [5] - che non esiste una continuità tra
il non quantificabile di ciò
che è semplice, che caratterizza i suddetti tre principi, e il concetto
di quantificato, come tutte le cose terrestri che conosciamo. Nelle parole di Aristotele,
“simplex finities replicatum quantum non generat”: ciò che è semplice,
per quanto venga replicato un numero finito di volte, non produce la
quantità. È evidente l’analogia matematica [6] con
il numero 1, che rappresenta l’unità semplice, il quale moltiplicato
per se stesso produce sempre un 1. Secondo l’interpretazione del Grossatesta,
la tesi aristotelica vale solo se si parla di una automoltiplicazione
finita: ma non vale se si ammette che l’automoltiplicazione si ripeta
“infinities”, come appunto può fare la luce, cioè infine volte. [7]
Il semplice è incomparabile con il “quantum finitum”, perché il quanto
finito eccede il semplice, o in altre parole, il suo concetto è più
ampio e ricco del concetto del semplice, quindi lo supera o eccede non
per quantità, ma per qualità, perché l’uno e l’altro rientrano in generi
concettuali diversi ed a livelli diversi della realtà. Ma il dislivello
tra semplice e quanto finito può essere superato, secondo Grossatesta,
potenziando il semplice per automoltiplicazione infinita, in modo che
il prodotto di tale infinità di moltiplicazione sia anch’esso eccedente
rispetto al semplice iniziale. In tal modo l’automoltiplicazione infinita
della luce, che trascina la automoltiplicazione della
forma e della materia, è correlabile alla grandezza quantificata, nonostante
la diversità della loro natura.
Il nostro filosofo dunque ha identificato una dinamica infinita nel
punto di luce che sta all’origine del mondo, ed una correlazione diretta
tra tale dinamica di automoltiplicazione e la produzione di una realtà
corporea quantitativa che è di natura e di livello diverso. Ma Grossatesta
va ancora oltre: per completare e rendere razionale il processo cosmogonico,
introduce il criterio nuovo della proporzionalità tra grandezze. Egli
propone un modello matematico, cioè quantitativo, secondo il
quale l’espandersi dell’estensione corporea in tutte le direzioni avverrebbe
esattamente con la stessa proporzionalità con cui si susseguono le infinite
ondate di infinita automoltiplicazione della luce in ciascuna delle
direzioni radiali della sua propagazione dal centro verso la periferia.
In tal modo egli si trova ad affrontare un problema assolutamente moderno,
cioè il calcolo dei rapporti proporzionali tra gli infiniti numerici,
ciascuno dei quali di una certa specie, e la loro ‘congregazione’, ovvero
riunione sotto un’unica categoria, cioè nell’unico infinito che abbraccia
tutti gli infiniti. Nel suo linguaggio arcaico rispetto alla scienza
moderna, Grossatesta sostiene
che deve esserci un rapporto proporzionale tra “l’aggregazione infinita
sulla base di un numero” [8], cioè la serie infinita
di numeri che fanno capo ad un primo numerale (per esempio la serie
infinita dei numeri formata dalla elevazione di 2, 3, ecc. alla potenza
del 2 del 3 ecc. e così via) e la “congregazione infinita di tutti gli
infiniti basati sia su numeri, sia su grandezze non numeriche” [9],
in altre parole, la riunione complessiva di un’infinità infinitamente
maggiore che abbracci tutte le serie infinite di qualsiasi grandezza.
Per usare termini che saranno sviluppati più tardi dalla teologia medievale
in rapporto agli attributi divini, possiamo tradurre le frasi del Grossatesta
nel senso che vi è un rapporto proporzionale tra l’infinità di ogni
singola serie, determinata dalla sola potenzialità di un numero base
(2, oppure 3 e così via) e quindi un infinito che per sua stessa costituzione
è limitato alla natura della sua serie, e l’infinito che abbraccia tutte
le serie possibili, quindi non è limitato, ma è infinito di infiniti.
Per esempio, dice ancora Grossatesta, l’infinito della serie dei soli
numeri pari è minore dell’infinito risultante dalla serie dei numeri
pari più la serie dei numeri dispari, perché tale serie più complessa
eccede la sola serie dei pari in quanto abbraccia in sé oltre ai pari
anche la serie dei dispari. L’autore ne conclude introducendo una nuova
prospettiva sia matematica che teologica, e capovolgendo il problema
iniziale aristotelico: qualsiasi finito, egli afferma, può essere confrontato
e misurato in proporzione con
l’infinito, cioè vi una possibile comminsurabilità tra finito e infinito.
Quindi la luce moltiplicandosi infinitamente, estende la materia secondo
dimensioni finite, cioè secondo dei “quanta” dimensionali che sono tra
di loro maggiori o minori secondo la proporzione che esiste tra le rispettive
serie di automoltiplicazione. Così avverrà che accanto alla moltiplicazione
infinita di luce che corrisponde ad una dimensione, ve ne sarà un’altra
corrispondente a due o a tre dimensioni, ecc. Di conseguenza si creano
differenze di grandezze, figure, luoghi, movimenti corporei e animati,
ecc. Dalla dinamica del punto si sviluppano tutte le dinamiche dell’universo.
Due sono particolarmente importanti: la rarefazione della materia nella
sua distensione o aumento spaziale, e al contrario la sua condensazione
nel movimento inverso verso la sua origine che causerà il restringimento
e la diminuzione spaziale.
Da questi due movimenti si costituirà dapprima l’espansione massima
ai limiti dell’universo, cioè fino a quella estrema circonferenza cosmica
in cui la materia giungerà talmente rarefatta da non potersi rarefare
ancor di più: perciò il limite cosmico non è un ostacolo corporeo che
fermi la ulteriore rarefazione, ma un limite conseguente alla natura
stessa della materia, che non regge ad altro trascinamento dimensionale.
Allora la luce, che invece per sua natura conserva intatta la propria
energia, ma non può oltrepassare il limite della materia su cui essa
agisce, invertirà il senso della sua automoltiplicazione, riflettendosi
dal limite cosmico verso il centro, e trascinerà di nuovo la materia,
ma causando in essa una sempre più intensa concentrazione in modo da
dar luogo a livelli diversi di materia con differenti gradi di condensazione,
dalla più cristallina e trasparente delle sfere celesti, a quella via
via più corposa e pesante degli elementi e infine della terra e di tutto
ciò che vive in essa.
Si conclude così la prima teoria cosmogonica moderna, come tentativo
di conciliare insieme la narrazione biblica della creazione istantanea
per l’atto di volontà divina, la scienza classica con l’ipotesi delle
sfere celesti e del mondo sublunare, le nuove teorie matematiche e del
calcolo proporzionale, e la scoperta dell’infinito come concetto fecondo
e positivo: cioè inteso non nel senso letterale di non finito, e quindi
non completo e non perfetto, né completabile perché sempre suscettibile
di successive aggiunte, bensì nel senso di potenzialità illimitata,
ma concretamente concepibile e addirittura calcolabile in base ai rapporti
proporzionali.
E’ difficile sfuggire alla tentazione di vedere in questa audace operina
un lontano precorrimento della odierna teoria del big bang e dell’espansione
o condensazione cosmica. Grossatesta ha concepito persino l’idea del
movimento spaziale istantaneo della luce connesso ai quanta della moltiplicazione
della sua energia diffusiva, concezione che, pur basandosi solo su analisi
di nomi e concetti del linguaggio comune senza poter ricorrere ad una
tecnologia sperimentale della fisica e dell’ottica come in epoca moderna,
si è sorprendentemente avvicinato all’odierna problematica della natura
corpuscolare oppure ondulatoria della luce.
ILLUSTRAZIONI
1.Petrus
Bertius (Pieter Bert), Antiqua geographia, 1630, ricostruzione
grafica di come il mondo fosse concepito dal filosofo greco Posidonio,
vissuto dal 135 al 51 a.C.
2.
Tolomeo, Scultura, Chorgestuhl, Ulma
3.
Petrus Plantius, Orbis Terrarum Typus De Integro, Amsterdam 1594
4.
Frantisek Kupka, Attorno a un punto, c. 1914,
5.
Robert Delaunay, Forme circolari, 1913, Museo Folkwang, Essen
6.
Robert Delaunay, Dischi solari, 1912-3, New York MOMA,
Mi
permetto di rinviare a Giuseppa Saccaro Battisti, Il Grossatesta e la luce, in «Medioevo», 2 (1976), 21-75. Per un più
recente contributo sul pensiero dell’autore, cfr. la Prefazione di Francesco Agnoli a Roberto Grossatesta. La filosofia della luce, ESD,
Edizioni Studio Domenicano 2007, e soprattutto Massimiliano Luce, Grossatesta e la matematica dell'infinito. Una lettura
del Commento alla Fisica, in
«Doctor Virtualis», n. 5, 2006, pp. 101-118. Qui sono messi puntualmente
in correlazione passi del De luce con altri del Commento
alla fisica aristotelica (Roberti Grossateste, Commentarius
in VIII libros physicorum Aristotelis, edito a cura di R.C. Dales,
University o Colorado Press, Boulder, 1963), rilevando tra
le due opere una successione e continuità di ricerca.
|