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COSMOGONIE
il grande mistero dell’universo esplorato da
Paolo Barlusconi
progetto culturale interdisciplinare a cura di Michele Caldarelli

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Castello dei Pico - Mirandola (Modena) 17 settembre 2009
ORE 21.00
convegno

Cosmo e Cielo
a cura di Michele Caldarelli

organizzato nell'ambito della rassegna COSMOGONIE
in occasione dell'Anno Internazionale dell'Astronomia (IYA2009) indetto dall'ONU
e del 400° anniversario del primo utilizzo del cannocchiale da parte di Galileo Galilei

 

 

Giuseppa Saccaro Del Buffa

ESPANSIONE E CONDENSAZIONE NEL COSMO DI

ROBERTO GROSSATESTA

Certamente per inventare uno dei tanti immaginifici linguaggi umani, impresa tanto difficile, ma stimolante, motivo importante è stato il bisogno di  trovare una  adeguata rappresentazione visiva e concettuale del cosmo. Quando ci confrontiamo con raffigurazioni cosmologiche di epoche e paesi diversi, ci sorprende sempre non solo la drammaticità che tali immagini suggeriscono, una drammaticità insita anzitutto nella domanda che ogni generazione umana si pone, sul perché e sul come le cose entro cui viviamo siano così e proprio solo così, ma perché ogni rappresentazione cosmologica pretende di ostentare una sua plausibile coerenza e persuasività, sia mitologica, sia religiosa o razionale o perfino scientifica. Ciascuno di questi quattro punti di vista, mito, religione, ragione filosofica, scienza, si avvale di un proprio linguaggio e di una speciale elaborazione e combinazione degli elementi da cui tale linguaggio è costituito.
Qualunque sia la sua natura, per esempio un suono, un segno, un complesso di segni, un’immagine astratta, una figura rappresentativa, o una figura simbolica, ogni suo elemento linguistico è portatore di significati mutevoli, complessi, stratificati attraverso le esperienze nel tempo millenario umano. Su questa molteplicità di riferimenti che si sono accumulati entro ed attorno ognuno di questi elementi, intervengono sempre, consciamente o subconsciamente, il lavoro immaginativo della fantasia e la riflessione del ragionamento umano. Essi espandono indefinitamente la forza rappresentativa e comunicativa del linguaggio e soprattutto costruiscono delle strutture e dei sistemi di rapporti rappresentativi, fino a formare un tessuto abbastanza stabile, ma anche elastico, flessibile e mutevole, cioè un linguaggio di segni, parole, immagini, suoni ecc., proprio di ogni cultura e di ogni civiltà. L’archeologia di tutti questi linguaggi affascina, perché induce ad inseguire all’indietro tracce e frammenti  in epoche e luoghi indefinitamente lontani, sprofondando al di là del ricordo cosciente, in zone di memorie storiche e preistoriche insondabili.
A un certo punto della loro esistenza, gli uomini stessi si sono meravigliati di trovarsi a possedere uno strumento essenziale come la parola, con nomi per ogni cosa, capacità di significare, comunicare e ricevere il senso dei suoni e dei segni. A molti saggi del passato, profeti o filosofi, artisti o politici, la risposta più plausibile sembrò trovarsi nella concezione che solo un dio avesse potuto possedere in sè la parola, essere egli stesso parola, creare le cose con la parola e elargirla direttamente agli uomini. Perciò la parola del dio è stata considerata manifestazione del sacro al genere umano: la parola e il senso che essa comunica sono rappresentazioni significative della realtà in cui l’uomo, creatura tra le creature, si trova a vivere.

Questo mio generico preambolo non intende certo riproporre una teoria teologica del linguaggio, ma piuttosto riportarci a epoche in cui all’uso sempre più raffinato e espressivo del linguaggio si è affiancata una riflessione per così dire di secondo livello, cioè sui caratteri e l’efficacia del linguaggio stesso, al di là della semplice rappresentazione dei segni: anzitutto la coscienza che si è andata creando una rete di connessione tra i segni, quindi rafforzata e evidenziata dalla grammatica e della sintassi; poi questi tipi di connessione si sono variate e complicate, con l’affermarsi dell’uso di forme retoriche che danno particolare inflessione ad un discorso, nonché di forme logiche e argomentative che costituiscono la base per la critica, la dimostrazione e la verifica di quanto il linguaggio, attraverso un discorso rettamente o retoricamente articolato, esprime e comunica.
Di questo lungo percorso ha fatto parte anche il linguaggio scientifico, assumendo forme assertive, descrittive, deduttive e dimostrative, dapprima usando nomi e verbi della pratica discorsiva comune, poi introducendo simboli astratti, arbitrariamente e convenzionalmente fissati come rappresentativi di classi di concetti (per esempio i numeri, le singole lettere o altri segni geometrici o figurativi) oppure sostitutivi di classi di connessioni tra concetti o tra ragionamenti (per esempio i segni delle operazioni matematiche, fino alla simbologia della moderna logica formale). Questa simbologia astratta ha comportato una estrema semplificazione dei segni da usare, ma anche una estrema condensazione della forza rappresentativa e connettiva del linguaggio, e infine un livello di astrazione che potremmo definire metasimbolico. Tutto ciò è stato fondamentale per lo sviluppo della civiltà, soprattutto della scienza e della tecnica.

Tuttavia l’antico pensiero scientifico basato ancora sul metodo descrittivo dei fenomeni, pur sfruttando l’unico mezzo allora disponibile, cioè il linguaggio comune e le parole consolidate nell’uso quotidiano, è stato capace di precorrere la formulazione di ipotesi che oggi sono riaffiorate come - per usare un’espressione paradossale - da un subconscio collettivo scientifico, per riproporre un’intuizione antica nelle vesti, nelle formule e tramite gli strumenti sofisticati della tecnologia moderna. Ne esporrò un esempio rifacendomi ad un autorevole umanista dei primi decenni del XIII° secolo, autore di sofisticate opere teologiche, scientifiche e letterarie, particolarmente interessato alla riscoperta e alla traduzione di opere ebraiche e arabe oppure di opere classiche pervenute in versioni medio-orientali, recuperando larghi strati di opere e di scoperte antiche, perdute negli anni più bui dell’alto medioevo. La ragione di questa scelta è che le sue ipotesi cosmologiche, rimaste a lungo nel silenzio dei manoscritti, oggi possono non solo incuriosirci, ma indicarci come certi pensieri e  idee che a prima vista in un determinato contesto storico sembrerebbero frutto di immaginazione balzana, testimoniano il sorgere e permanere nel tempo di miti a metà tra il fantastico, il razionale, lo scientifico (cfr.figg.1-3), covando nell’humus profonda della mente umana, tra meraviglia e speranza, come attendendo il momento più propizio per un nuovo disvelamento conoscitivo. L’esempio di cui parlerò prelude a svolgimenti moderni della cosmologia scientifica, e a visioni artistiche dell’azione fisica della luce nella formazione dei fenomeni cosmici, con sfere, cerchi, balenii di splendori e di luci, visualmente reinterpretate da artisti del Novecento, come possiamo vedere, per limitarci a qualche famoso esempio, in alcune pitture di Frantisek Kupka, e di Robert Delaunay che qui vi mostro. (figg. 4-7)

Tratteremo dunque di Roberto Grossatesta, vescovo di Lincoln, che può considerarsi un precursore della nascita della scienza sperimentale nel XIII e XIV secolo. Tra i suoi brevi trattatelli pervenutici manoscritti vi è un De luce, rimasto sconosciuto fino a circa cento anni fa e pubblicato nel 1912 da L. Baur, Die philosophischen Werke des Robert Grosseteste [1] È solo dopo la metà del Novecento che incominciò a crescere un certo interesse per  lo studio  della teoria della luce nella filosofia della natura tra Duecento e Trecento, in una duplice connessione: cioè in rapporto con la mistica della luce nell’ambito della teologia e della religiosità, cosa importante ma di cui non parleremo oggi, e in rapporto con gli studi sulla prospettiva e l’ottica, che sono stati determinanti per la cultura e l’arte tardo medievale e rinascimentale. Il trattato del nostro autore coinvolge tutti questi punti di vista, ma ha una particolare caratteristica: cioè imperniato sull’intenzione di spiegare  la produzione e l’evoluzione del cosmo sul fondamento della connessione tra metafisica e fisica, cioè tra l’idea del divino e le ipotesi scientifiche relative alle leggi della natura creata. In altre parole, il Grossatesta intende spiegare come dall’istante in cui è stato pronunciato il divino “fiat” di cui parla la Bibbia, è iniziato, anzi esploso un processo produttivo fino alla formazione del cosmo sferico e della differenziazione al suo interno delle diverse parti del mondo corporeo. [2]

Il primo problema che il filosofo affronta è quale relazione possa esserci tra quella luce inaccessibile e misteriosa, che è Dio (definito “luce inaccessibile e inaccessibilità della luce”, “immensamente eccedente qualsiasi intelligenza”) e il mondo delle creature e della materia. Grossatesta crede profondamente nell’evento della creazione, ma ricorre ad una immagine di origine neoplatonica  che avrà una larghissima fortuna anche nella mistica cabalistica ebraica. [3] Dio, che è pienezza dell’essere, elargisce da sé un “raggio” divino, supersplendente e tearchico, di potenza infinita, dal quale tutte le creature ricevono la conoscenza, perché in lui “preesistettero in modo ineffabile le parole di tutte le conoscenze”. Tale raggio rappresenta “metaforicamente” (“subfigurative”) sia il protendersi del divino verso la sua opera, sia il diffondersi dell’azione divina nel creato. Ma per non restare su un piano soltanto metaforico e immaginativo, il filosofo passa a ragionare sulle parole stesse con cui si parla del cosmo: ed è qui che possiamo constatare come l’analisi critica del linguaggio in uso diventi il fondamento su cui viene costruita la scienza sperimentale.
Egli inizia dalle definizioni dei termini in base ai quali sarà costruito il suo discorso, e considera le tre parole che denotano i tre aspetti fondamentali presenti in tutte le cose: “luce”, “corporeità” e la “prima forma corporale”. Grossatesta afferma che in effetti esse indicano una medesima cosa: corporeità non denota altro che la forma primaria e originaria che riassume e contiene in sé tutte le forme possibili del corporeo: oggi potremmo dire che la corporeità è la categoria universale del corporeo, ma anche il suo principio ontologico. Secondo l’autore essa si identifica con la luce stessa: non la luce inaccessibile di Dio, ma la luce che ne deriva e ne dipende, e in quanto principio primario, imprime nella materia le potenzialità della forma, costituendo il corporeo, con cui è da sempre intimamente connessa. Come grossatesta spiega subito dopo, la luce ha una proprietà che la teologia riconosce all’attributo divino più importante, cioè al Bene, e che caratterizza la sua azione su ciò a cui si unisce: la proprietà di autodiffondersi per se stessa immediatamente e istantaneamente in tutte le direzioni, e per distanze tanto grandi quanto è possibile che ce ne siano, a meno che non vi si frapponga un ostacolo sufficientemente denso, opaco, inerte, cioè una materia passiva e oscura, tanto da nullificare la sua potenza diffusiva luminosa. In base a questa sola proprietà, ammettere per ipotesi un punto di luce comporta logicamente  che esso può riempire in un unico istante una sfera di luce dai limiti indefinibili, moltiplicando indefinitamente se stesso. Sotto l’aspetto cosmologico questo significa che il punto di luce è di per sé il principio espansivo dell’universo anteriormente alla reale esistenza e costituzione di qualsiasi corpo che possa delimitarne l’azione.
Sorge allora un’altra domanda: cosa può impedire che la sfera cosmica di luce sia infinita, considerato che per tutto il pensiero antico il mondo, creazione perfetta di Dio, non è ritenuto illimitato e senza fine, cioè non è imperfetto e ulteriormente perfettibile?
Per risolvere il problema, Grossatesta riprende il secondo termine del suo enunciato iniziale e lo spiega più ampiamente. La corporeità è una sostanza [4] di per sé semplice, e quindi mancante della dimensionalità corporea. Ma unita alla materia, che di per sé è anch’essa un principio semplice e indistinto, determina per la sua propria forza espansiva l’estendersi della materia nelle tre dimensioni spaziali. Anche la forma, terzo termine posto all’inizio dell’esposizione, è di per sé un principio semplice, privo di dimensionalità, come la materia: quindi mentre la luce si diffonde, ed estende o distende la materia, la quale di per sé non ha tale capacità, la forma può seguire l’una e l’altra con un’azione diversa, idonea alla sua natura, cioè si diffonde moltiplicando se stessa e istantaneamente diffondendo ovunque questa moltiplicazione, contribuendo alla estensione della materia: la forma infatti non è separabile dalla materia, né la materia può abbandonare la forma. In tal modo i tre principi stabiliti all’origine cosmologica, pur essendo esenti dalla tridimensionalità, e restando in sé semplici e distinti l’uno dall’altro, e ciascuno operando secondo la sua proprietà naturale o attiva o passiva, però agendo insieme e simultaneamente costituiscono unitariamente il complesso composto e tridimensionale dell’universo.
Diffusione ed estensione dipendono dunque da una dinamica interna alla luce, alla corporeità e alla forma, che consiste nella moltiplicazione di sé per se stessa, infinite volte e dappertutto: questa dinamica ha una sequenzialità spaziale e temporale, per cui l’origine dell’estensione corporea è simultanea all’origine del fluire del tempo. Ma poiché all’epoca del Grossatesta non si era ancora scoperto che la luce viaggia secondo una propria velocità, l’autore sostiene che tutto il processo finora descritto è istantaneo, perché la luce, secondo quanto allora si credeva, è istantanea e si diffonde istantaneamente: perciò sebbene il filosofo si riferisca a principi metafisici cioè a semplici concetti primari, egli scopre una complessità evolutiva nell’istante primordiale, in cui è posto il punto di luce, perché la natura dei tre principi implica ciò che oggi chiameremmo una energia (o potenza attiva) di infinite ondate della automoltiplicazione che portano alla costituzione dell’universo: dal punto di luce si passa immediatamente dalla pretemporalità e prespazialità, alla completezza dello spazio e all’uniformità del tempo.
Tuttavia come spiegare che da principi semplici e non quantificati si costiuisca la quantità numericamente misurabile e quindi sottoponibile alle operazioni numeriche, come è tutta la realtà materiale? Grossatesta ricorre ad un’argomentazione di Aristotele, il quale sosterrebbe – a suo parere [5] - che non esiste una continuità tra il  non quantificabile di ciò che è semplice, che caratterizza i suddetti tre principi, e il concetto di quantificato, come tutte le cose terrestri  che conosciamo. Nelle parole di Aristotele, “simplex finities replicatum quantum non generat”: ciò che è semplice, per quanto venga replicato un numero finito di volte, non produce la quantità. È evidente l’analogia matematica [6] con il numero 1, che rappresenta l’unità semplice, il quale moltiplicato per se stesso produce sempre un 1. Secondo l’interpretazione del Grossatesta, la tesi aristotelica vale solo se si parla di una automoltiplicazione finita: ma non vale se si ammette che l’automoltiplicazione si ripeta “infinities”, come appunto può fare la luce, cioè infine volte. [7] Il semplice è incomparabile con il “quantum finitum”, perché il quanto finito eccede il semplice, o in altre parole, il suo concetto è più ampio e ricco del concetto del semplice, quindi lo supera o eccede non per quantità, ma per qualità, perché l’uno e l’altro rientrano in generi concettuali diversi ed a livelli diversi della realtà. Ma il dislivello tra semplice e quanto finito può essere superato, secondo Grossatesta, potenziando il semplice per automoltiplicazione infinita, in modo che il prodotto di tale infinità di moltiplicazione sia anch’esso eccedente rispetto al semplice iniziale. In tal modo l’automoltiplicazione infinita della luce, che trascina la automoltiplicazione  della forma e della materia, è correlabile alla grandezza quantificata, nonostante la diversità della loro natura.
Il nostro filosofo dunque ha identificato una dinamica infinita nel punto di luce che sta all’origine del mondo, ed una correlazione diretta tra tale dinamica di automoltiplicazione e la produzione di una realtà corporea quantitativa che è di natura e di livello diverso. Ma Grossatesta va ancora oltre: per completare e rendere razionale il processo cosmogonico, introduce il criterio nuovo della proporzionalità tra grandezze. Egli  propone un modello matematico, cioè quantitativo, secondo il quale l’espandersi dell’estensione corporea in tutte le direzioni avverrebbe esattamente con la stessa proporzionalità con cui si susseguono le infinite ondate di infinita automoltiplicazione della luce in ciascuna delle direzioni radiali della sua propagazione dal centro verso la periferia. In tal modo egli si trova ad affrontare un problema assolutamente moderno, cioè il calcolo dei rapporti proporzionali tra gli infiniti numerici, ciascuno dei quali di una certa specie, e la loro ‘congregazione’, ovvero riunione sotto un’unica categoria, cioè nell’unico infinito che abbraccia tutti gli infiniti. Nel suo linguaggio arcaico rispetto alla scienza moderna,  Grossatesta sostiene che deve esserci un rapporto proporzionale tra “l’aggregazione infinita sulla base di un numero” [8], cioè la serie infinita di numeri che fanno capo ad un primo numerale (per esempio la serie infinita dei numeri formata dalla elevazione di 2, 3, ecc. alla potenza del 2 del 3 ecc. e così via) e la “congregazione infinita di tutti gli infiniti basati sia su numeri, sia su grandezze non numeriche” [9], in altre parole, la riunione complessiva di un’infinità infinitamente maggiore che abbracci tutte le serie infinite di qualsiasi grandezza.
Per usare termini che saranno sviluppati più tardi dalla teologia medievale in rapporto agli attributi divini, possiamo tradurre le frasi del Grossatesta nel senso che vi è un rapporto proporzionale tra l’infinità di ogni singola serie, determinata dalla sola potenzialità di un numero base (2, oppure 3 e così via) e quindi un infinito che per sua stessa costituzione è limitato alla natura della sua serie, e l’infinito che abbraccia tutte le serie possibili, quindi non è limitato, ma è infinito di infiniti. Per esempio, dice ancora Grossatesta, l’infinito della serie dei soli numeri pari è minore dell’infinito risultante dalla serie dei numeri pari più la serie dei numeri dispari, perché tale serie più complessa eccede la sola serie dei pari in quanto abbraccia in sé oltre ai pari anche la serie dei dispari. L’autore ne conclude introducendo una nuova prospettiva sia matematica che teologica, e capovolgendo il problema iniziale aristotelico: qualsiasi finito, egli afferma, può essere confrontato e misurato in  proporzione con l’infinito, cioè vi una possibile comminsurabilità tra finito e infinito.
Quindi la luce moltiplicandosi infinitamente, estende la materia secondo dimensioni finite, cioè secondo dei “quanta” dimensionali che sono tra di loro maggiori o minori secondo la proporzione che esiste tra le rispettive serie di automoltiplicazione. Così avverrà che accanto alla moltiplicazione infinita di luce che corrisponde ad una dimensione, ve ne sarà un’altra corrispondente a due o a tre dimensioni, ecc. Di conseguenza si creano differenze di grandezze, figure, luoghi, movimenti corporei e animati, ecc. Dalla dinamica del punto si sviluppano tutte le dinamiche dell’universo. Due sono particolarmente importanti: la rarefazione della materia nella sua distensione o aumento spaziale, e al contrario la sua condensazione nel movimento inverso verso la sua origine che causerà il restringimento e la diminuzione spaziale.
Da questi due movimenti si costituirà dapprima l’espansione massima ai limiti dell’universo, cioè fino a quella estrema circonferenza cosmica in cui la materia giungerà talmente rarefatta da non potersi rarefare ancor di più: perciò il limite cosmico non è un ostacolo corporeo che fermi la ulteriore rarefazione, ma un limite conseguente alla natura stessa della materia, che non regge ad altro trascinamento dimensionale. Allora la luce, che invece per sua natura conserva intatta la propria energia, ma non può oltrepassare il limite della materia su cui essa agisce, invertirà il senso della sua automoltiplicazione, riflettendosi dal limite cosmico verso il centro, e trascinerà di nuovo la materia, ma causando in essa una sempre più intensa concentrazione in modo da dar luogo a livelli diversi di materia con differenti gradi di condensazione, dalla più cristallina e trasparente delle sfere celesti, a quella via via più corposa e pesante degli elementi e infine della terra e di tutto ciò che vive in essa.
Si conclude così la prima teoria cosmogonica moderna, come tentativo di conciliare insieme la narrazione biblica della creazione istantanea per l’atto di volontà divina, la scienza classica con l’ipotesi delle sfere celesti e del mondo sublunare, le nuove teorie matematiche e del calcolo proporzionale, e la scoperta dell’infinito come concetto fecondo e positivo: cioè inteso non nel senso letterale di non finito, e quindi non completo e non perfetto, né completabile perché sempre suscettibile di successive aggiunte, bensì nel senso di potenzialità illimitata, ma concretamente concepibile e addirittura calcolabile in base ai rapporti proporzionali.
E’ difficile sfuggire alla tentazione di vedere in questa audace operina un lontano precorrimento della odierna teoria del big bang e dell’espansione o condensazione cosmica. Grossatesta ha concepito persino l’idea del movimento spaziale istantaneo della luce connesso ai quanta della moltiplicazione della sua energia diffusiva, concezione che, pur basandosi solo su analisi di nomi e concetti del linguaggio comune senza poter ricorrere ad una tecnologia sperimentale della fisica e dell’ottica come in epoca moderna, si è sorprendentemente avvicinato all’odierna problematica della natura corpuscolare oppure ondulatoria della luce.

ILLUSTRAZIONI

1.Petrus Bertius (Pieter Bert), Antiqua geographia, 1630, ricostruzione grafica di come il mondo fosse concepito dal filosofo greco Posidonio, vissuto dal 135 al 51 a.C.

2. Tolomeo, Scultura, Chorgestuhl, Ulma

3. Petrus Plantius, Orbis Terrarum Typus De Integro, Amsterdam 1594

4. Frantisek Kupka, Attorno a un punto, c. 1914,

5. Robert Delaunay, Forme circolari, 1913, Museo Folkwang, Essen

6. Robert Delaunay, Dischi solari, 1912-3, New York MOMA,

7. Robert Delaunay, Sfere e coni di luci, Museo di Montreal.


[1] In «Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters», vol. ix.

[2] Mi  permetto di rinviare a Giuseppa Saccaro Battisti, Il Grossatesta e la luce, in «Medioevo», 2 (1976), 21-75. Per un più recente contributo sul pensiero dell’autore, cfr.  la Prefazione di Francesco Agnoli a Roberto Grossatesta. La filosofia della luce, ESD, Edizioni Studio Domenicano 2007, e soprattutto  Massimiliano Luce, Grossatesta e la matematica dell'infinito. Una lettura del Commento alla Fisica, in «Doctor Virtualis», n. 5, 2006, pp. 101-118. Qui sono messi puntualmente in correlazione passi del De luce con altri del Commento alla fisica aristotelica (Roberti Grossateste, Commentarius in VIII libros physicorum Aristotelis, edito a cura di R.C. Dales, University o Colorado Press, Boulder, 1963), rilevando tra  le due opere una successione e continuità di ricerca.

[3] Egli aveva composto anche un  commento sull’opera De divinis nominibus dello Pseudo Dionigi del VI sec. d.C.). Sull’immaginario cabalistico di luce-tenebre, punto luminoso e raggi emanativi, vi è ormai una ricca letteratura, a incominciare delle opere fondamentali di Gershom Scholem. Per un esempio secentesco di un autore che ha tentato una complessa sintesi di diverse tradizioni di pensiero su principi fondamentalmente neoplatonici, rinvio a Abraham Cohen Herrera, La Porta del Cielo, testo spagnolo e trad. italiana, con introduzione e note, Neri Pozza, Milano 2010

[4] Sostanza qui va intesa nel senso concettuale-ontologico della categoria aristotelico, cioè di ciò che è autonomo e per sé sussistente, indipendentemente dalle qualità accidentali che determinano i singoli enti reali.

[5] Aristotele tratta a lungo del problema dell’infinito della Fisica, Libro III, 4, 203a – 8, 208a, richiamandosi ai Pitagorici e Platone, esponendo Democrito e commentando i paradossi di Zenone. Egli tuttavia imposta la sua discussione sul problema del movimento e del tempo, sul rapporto tra infinito e finito, sulla divisibilità dell’infinito e sulla connessione tra infinito, numero e grandezza.

[6] Infatti Aristotele, ibid.,  5, 204a-b,  accenna anche al problema dell’esistenza dell’infinito in rapporto agli enti matematici.

[7] La soluzione che Grossatesta propone implicalo slittamente dal piano della fisica vera e propria su cui Aristotele svolge il suo discorso, a quello platonizzante ispirato piuttosto a Sant’Agostino e a scritti pseudo-plotiniani medievali.

[8] “aggregatio numeri infinita”

[9] “congregatio infinita in omni numerali et etiam in omni non numerali”.

 

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