Introduzione
di Sergio Gaddi
I
grandi ritratti di Germano Bordoli hanno un’anima rinascimentale e simbolica
al tempo stesso. L’accostamento può apparire a prima vista stravagante,
ma se partiamo dalla meravigliosa originalità dell’artista, allora è più
semplice cogliere questo aspetto in profondità. Bordoli, infatti, è artista
di qualità, di grande capacità tecnica e sostenuto da lunghi anni di lavoro,
di studio e di insegnamento che gli hanno permesso di metabolizzare la
storia dell’arte alla luce di una personale impostazione filosofica della
vita del tutto aderente all’esperienza pittorica. Bordoli infatti non
solo ha collaborato, ma ha vissuto sul lago di Como fianco a fianco con
Enrico Vannuccini, artista toscano noto per i suoi straordinari ex-libris,
ma soprattutto filosofo e pensatore di rara lucidità. Sulla base di questa
ricchezza di esperienze di vita, i lavori di Bordoli sono il manifesto
visivo di un mondo articolato ma rarefatto, dove non c’è alcuna esasperazione
del conflitto, anche interiore, quanto piuttosto la possibilità di armonica
convivenza anche delle passioni più forti. Ma la serafica serenità dei
soggetti e l’eleganza naturale dei loro atteggiamenti non ha nulla di
semplificante, presentandosi invece come la sintesi di un impianto pittorico
severo, rigoroso e austero nelle geometrie compositive e nel bilanciamento
cromatico. Da questo punto di vista l’evoluzione pittorica di Bordoli
segue lo stesso schema storico dell’esperienza vissuta dai macchiaioli
rispetto all’eredità italiana del Quattrocento, vale a dire la volontà
di elaborazione metabolizzata delle esperienze, facendo crescere la pittura
senza strappi o rotture violente con il passato. Ma oltre l’armonia immediatamente
percepibile nelle tele di Bordoli, ecco che irrompe l’elemento simbolico
e straniante di un universo abitato da figure della fantasia e dell’inconscio.
Si potrebbe osservare, infatti, che i suoi soggetti sono l’ultima raffigurazione
possibile della realtà prima di entrare nei mondi totalmente liberi del
surrealismo. I ritratti diventano l’ultimo passo prima della pura idea,
e le strane creature, le spirali, gli scettri, gli animali antropomorfizzati,
i bicchieri capovolti, i libri volanti e le maschere teatrali ci ricordano
che stiamo per superare la soglia di un’altra dimensione, dove le relazioni
si trasfigurano e il mondo assume un diverso ordine spaziale. E’ molto
forte il richiamo a Magritte, ma anche a Paul Delvaux, così come alcune
creature evocano Hieronymus Bosch ma anche Brueghel. La ricca cultura
di Germano Bordoli lo fa muovere con disinvoltura dalle citazioni delle
labbra di Mae West di Salvator Dalì passando dagli equilibrismi di Calder
fino alle invenzioni spiazzanti di Gino Severini. Ma il senso dell’enigma
che anima i lavori di Bordoli è tutt’altro che provocatorio o sprezzante,
presentando invece una raffinata atmosfera di seduzione; anche il tema
della potenza del fascino femminile e dell’attrazione magnetica della
fisicità è sempre trattato con un garbato distacco, con occhio compiaciuto
ma mai ossessivo, consapevole che l’energia del reale è sempre parte di
un gioco più grande. I rimandi a De Chirico non sono citazioni esplicite
quanto piuttosto la dimostrazione di aver interiorizzato le regole della
prospettiva novecentesca. La stessa capacità che lo rapporta anche a Egon
Schiele, al quale lo avvicina non solo la tavolozza, ma anche il punto
di vista e il senso della pressione del mondo sulla personalità del soggetto
ritratto, che diventa senso ultimo e chiave di lettura del reale. La mostra
di Como è quindi un doveroso omaggio al talento visionario di Germano
Bordoli, certamente uno dei più interessanti interpreti della scena contemporanea
italiana.
‘Come
un mazzo di carte da gioco’ di Alberto Longatti
I
comaschi hanno sempre adorato i ritratti degli antenati. Lo provano le
gallerie private delle famiglie nobili, le quadrerie di istituzioni pubbliche
e infine le effigi di personaggi considerati propriamente Protettori o
Modelli di Vita, oggetti di culto come i Lari e i Penati, gli spiriti
protettori dei defunti che i romani veneravano racchiudendo i loro resti
nelle urne da conservarsi in casa. Od anche lo testimoniano i richiami
scultorei degli Esempi di preclari Virtù da appendere sulle fronti delle
case, in medaglioni a bassorilievo o in erme da nicchia. Ma c’è stato
anche qualcuno, dei lariani d’antan, che ha pensato di collezionare in
un luogo di culto tanti simulacri emblematici degli eroi/profeti/geni
di tutti i tempi, come nel Cinquecento Paolo Giovio con il suo pantheon
degli Uomini Illustri, glorificati nei dipinti che ne riproducevano le
fattezze senza troppo badare alla fedeltà fisiognomica ma cercando di
rappresentare il loro significante, ciò che erano stati per gli altri,
ovvero ciò che gli altri riconoscevano in loro. Qui sta la differenza
fra la ritrattistica che è come uno specchio rivelatore dell’intimo e
mira a catturare l’anima del soggetto e l’altra che, come annotava un
antico poeta greco in un verso dell’Antologia Palatina, non “capta che
le forme”, l’apparenza esteriore, rendendo però originale l’opera imprimendovi
il proprio sigillo interpretativo. Germano Bordoli appartiene a questa
seconda categoria di ritrattisti, modernamente liberi di dare al personaggio
da riprodurre un aspetto che corrisponda solo in parte alla realtà lasciando
spazio all’intervento inventivo. I suoi ritratti sono compressi sulla
tavola, con minimi accenni di rilievo, tendono a scivolare verso il riguardante
come se poggiassero su una superficie mobile che la stessa inclinazione
del pavimento dipinto suggerisce. I soggetti sono collocati su una poltrona
in atteggiamento rilassato, con le gambe distese o accavallate. Il procedimento
dell’autore è molto semplice: scatta una foto alla persona da ritrarre,
solitamente già assisa sulla poltrona che fa parte della struttura compositiva
volutamente replicata senza sostanziali variazioni, poi esegue il dipinto
appiattendo l’immagine fotografata. Il ritratto che ne consegue è quindi
simile ad un’illustrazione che pare estratta da un mazzo di carte da gioco,
con gli arti irrigiditi in una posizione convenzionale inquadrata dalla
dimensione ovale del dipinto, eretto verticalmente. E la sensazione ludica,
talora fiabesca o lievemente ironica che ne promana, è accentuata da tanti
particolari aggiunti, figurine di animali, ornamenti fantasiosi, oggetti
volanti, che attorniano il personaggio suggerendone la professione, le
preferenze, le abitudini e, in misura accessoria, l’indole. Ma più che
un dispositivo segnaletico riferito al soggetto, questo insieme di riferimenti
allegorici costituisce l’impronta personale dell’artista. E’ la sua cifra,
garbatamente allusiva, che comunica il piacere di costruire con il pennello
un altro da sé, un piccolo mondo umanamente circoscritto, che pure corrisponde
ad una sua personalissima concezione della vita, dell’amicizia, di un
civile rapporto con quanti ha occasione di incontrare.
‘Allo
specchio’ di Michele Caldarelli
Scrivo
su numerosi piccoli fogli, frammentando ulteriormente questi miei appunti
già per loro conto sparsi. Molti concetti attraversano più fogli non numerati...
Il caso vorrà poi che si vadano a ricomporre, o a risequenziarsi come
le basi degli alimenti della saga spaziale di Star Trek, secondo un nuovo
ordine, mutatis mutandis, del tutto simile nei meccanismi a quello che
nel Fabulario delle stelle di Hygino (bibliotecario dell’imperatore Augusto)
ha dato vita alla magnifica imagèrie delle costellazioni... Nasceranno
da qui nuove divinità? Idee correlate e punti fermi di riferimento di
questa argomentazione vengono sostanziati da una folla incredibile di
identità logiche che vivono di vita propria come i grilli gotici ai margini
delle miniature... Si accomodano autonomamente e incalzano, come in un
assalto all’arma bianca, in modo invero disordinato provengono da ogni
dove: bussano ai vetri delle finestre nei momenti di distrazione e, da
dentro lo schermo del computer, in quelli di concentrazione. Saturano
ogni pertugio spazio/temporale, mimando coerenza e talvolta un pizzico
di noiosa pedissequità..., cercano di esser-ci, finalmente infilati con
una certa qual ragion d’essere in un discorso compiuto. Ma perché tutta
questa fervente attività mi si è chiarita nella sua natura più essenziale,
proponendosi come soggetto piuttosto che più canonicamente solo nutrire
d’invenzione lo stile narrativo? Perché poi mi sento spinto con faticose,
anche se divertite, circonvoluzioni a raccontarlo? La risposta sta nel
tentativo di attivare una tintinnante macchina catottrica che coinvolga
chi ritrae e chi rimira, chi è soggetto e chi è oggetto, chi dipinge e
chi scrive - aggiungo - suggerendo dinamiche di confronto, contemporaneamente
saettanti e meditative, che paiono muoversi a ritroso mentre comuque progrediscono
svelando man mano quale grado di specularità coinvolga il mio scrivere
sulla pittura di Germano Bordoli. Parlo del corpus di questa mostra che,
lungo una teoria di 28 ritratti, poco ostenta della vanità celebrativa
e a nulla vale la curiosità di sapere chi ne siano i soggetti. Eppure
ognuno di costoro ben si può riconoscere, a dispetto della reticenza dell’autore
a rivelarne l’dentità. Con consumata abilità da sceneggiatore teatrale,
se interrogato sull’argomento, lui si dà ad interpolare il dialogo indirizzandolo
altrove..: “Mi piace allegorizzare identità e carattere di ognuno, aggiungendo
elementi simbolici, talvolta inventati, come quell’animale che ho ficcato
sotto quella poltrona, del quale - gioca di sponda, prendendola alla larga
- non so nemmeno bene di che razza sia “. Così informa, accalorandosi
con egual dose di candore e astuzia e... “Vedi - prosegue trascinandomi
ora nello specifico tecnico - consumo un sacco di pennelli nell’usarli
per strofinio piuttosto che nel modo consueto...”... in effetti ha ragione
nel portarmi al dunque, anche se altro, chiarendo come sia riuscito a
ottenere quell’effetto di superficie molto particolare, insinuandosi a
forza nella ponderalità della materia ritratta, agendo col pennello come
usasse un pestello nel mortaio, risvegliandone gli umori dall’interno...
vaporizzandola quasi. Poi, con quell’arietta da coboldo che solo lui sa
impersonare, svela: “quello li è il Tal dei Tali - sapedo bene che già
lo conosco - ma lo devo ancora completare, anzi gli cambio qualcosa per
conferirgli un più marcato fisique du rôle”. Pittore, in questo all’antica,
ci tiene all’inalterabilità e alla durevolezza del supporto lavorando
su robuste tavole high-tech che, grazie a colle e solventi contenuti,
se ne faranno un baffo dei tarli a venire obbligandoli ad acculturarsi
altrove. Tavole, queste, proporzionate su un rapporto 3 x 2, ottenendovi
una proiezione piana di sagome cilindriche, inglobandoci - sì ci sono
anch’io - in assonometrie trasparenti, autentiche capsule temporali, preservandoci
dal fluire degli eventi quasi potessimo sostenere un ruolo eroico di cavalieri
di non si sa che... o si sa? E intanto mi distraggo chiedendomi se il
mio ritratto sia ancora corredato di zucchetto, elmo domestico, e di quelle
babbucce che mi sembravano così comode. Germano ha impiegato diversi anni
per completare questo complesso teatro di memoria ed ogni tanto, in effetti
ci ripensa, cambia qualcosa assecondando particolari reminiscenze, perché
anche i ricordi mutano seguendo il moto ondivago degli eventi. Alla fine
noi ritratti siamo qui, accoliti e meditabondi, sereni e al sicuro dall’azione
della macinatrice di cioccolato del grande vetro duchampiano, trituratore
di innocenti anime celibi. Ogni soggetto sta ieraticamente assiso su una
comoda poltrona, immerso nei propri pensieri, ignaro quasi di essere ritratto...
sta, indifferente agli sguardi, silenzioso quanto eloquente, affacciandosi
dalle pareti di una immaginaria cattedrale... siamo molto comacini, in
questo. Eco soffice dell’enigma, una congerie quasi infinita di elementi,
perlopiù esserini zoomorfi, generano un chiacchiericcio di fondo nel ruolo
di note a margine. Stanno quasi celati nell’economia del ritratto emergendo
all’attenzione solo dopo una prima osservazione generale... ecco che si
rivela un topolino accovacciato, mimetico, grigio su grigio, un riccio...
uno scoiattolo, un ramarro, esile esile, un bassotto azzerbinato ai piedi,
una rana verdastra e sdrucciolevole... Ce n’è per tutti i gusti, apparentemente
comparendo a caso anche se una ragion d’essere c’è e connota rebus, privi
di cifre alfabetiche quanto di necessaria decifrazione... Tutto rientra
nell’atmosfera di sospensione che stuzzica anche tutti i miei puntini
discorsivi... vorrei dire altro quanto ancor di più riflettere sul parzialmente
rivelato, perché tutto deve ancora accadere ed essere compreso... col
tempo a favore, prendendo le distanze dall’incalzare del quotidiano. In
effetti Germano ci introduce al mistero dell’umano, non suggerendoci di
svelarlo quanto piuttosto di specchiarci in esso scalandone l’altezza
e sperimentandone la profondità, navigandone i cieli dal colore diafano
che si stemperano all’infinito, sospinti e mossi da uno zefiro di primavera,
da pensieri leggeri.
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