Germano Bordoli

RITRATTI
QUATTRO VOLTE SETTE


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TESTI DI INTRODUZIONE ALLA MOSTRA

Introduzione di Sergio Gaddi
‘Come un mazzo di carte da gioco’ di Alberto Longatti
‘Allo specchio’ di Michele Caldarelli

Introduzione di Sergio Gaddi  

I grandi ritratti di Germano Bordoli hanno un’anima rinascimentale e simbolica al tempo stesso. L’accostamento può apparire a prima vista stravagante, ma se partiamo dalla meravigliosa originalità dell’artista, allora è più semplice cogliere questo aspetto in profondità. Bordoli, infatti, è artista di qualità, di grande capacità tecnica e sostenuto da lunghi anni di lavoro, di studio e di insegnamento che gli hanno permesso di metabolizzare la storia dell’arte alla luce di una personale impostazione filosofica della vita del tutto aderente all’esperienza pittorica. Bordoli infatti non solo ha collaborato, ma ha vissuto sul lago di Como fianco a fianco con Enrico Vannuccini, artista toscano noto per i suoi straordinari ex-libris, ma soprattutto filosofo e pensatore di rara lucidità. Sulla base di questa ricchezza di esperienze di vita, i lavori di Bordoli sono il manifesto visivo di un mondo articolato ma rarefatto, dove non c’è alcuna esasperazione del conflitto, anche interiore, quanto piuttosto la possibilità di armonica convivenza anche delle passioni più forti. Ma la serafica serenità dei soggetti e l’eleganza naturale dei loro atteggiamenti non ha nulla di semplificante, presentandosi invece come la sintesi di un impianto pittorico severo, rigoroso e austero nelle geometrie compositive e nel bilanciamento cromatico. Da questo punto di vista l’evoluzione pittorica di Bordoli segue lo stesso schema storico dell’esperienza vissuta dai macchiaioli rispetto all’eredità italiana del Quattrocento, vale a dire la volontà di elaborazione metabolizzata delle esperienze, facendo crescere la pittura senza strappi o rotture violente con il passato. Ma oltre l’armonia immediatamente percepibile nelle tele di Bordoli, ecco che irrompe l’elemento simbolico e straniante di un universo abitato da figure della fantasia e dell’inconscio. Si potrebbe osservare, infatti, che i suoi soggetti sono l’ultima raffigurazione possibile della realtà prima di entrare nei mondi totalmente liberi del surrealismo. I ritratti diventano l’ultimo passo prima della pura idea, e le strane creature, le spirali, gli scettri, gli animali antropomorfizzati, i bicchieri capovolti, i libri volanti e le maschere teatrali ci ricordano che stiamo per superare la soglia di un’altra dimensione, dove le relazioni si trasfigurano e il mondo assume un diverso ordine spaziale. E’ molto forte il richiamo a Magritte, ma anche a Paul Delvaux, così come alcune creature evocano Hieronymus Bosch ma anche Brueghel. La ricca cultura di Germano Bordoli lo fa muovere con disinvoltura dalle citazioni delle labbra di Mae West di Salvator Dalì passando dagli equilibrismi di Calder fino alle invenzioni spiazzanti di Gino Severini. Ma il senso dell’enigma che anima i lavori di Bordoli è tutt’altro che provocatorio o sprezzante, presentando invece una raffinata atmosfera di seduzione; anche il tema della potenza del fascino femminile e dell’attrazione magnetica della fisicità è sempre trattato con un garbato distacco, con occhio compiaciuto ma mai ossessivo, consapevole che l’energia del reale è sempre parte di un gioco più grande. I rimandi a De Chirico non sono citazioni esplicite quanto piuttosto la dimostrazione di aver interiorizzato le regole della prospettiva novecentesca. La stessa capacità che lo rapporta anche a Egon Schiele, al quale lo avvicina non solo la tavolozza, ma anche il punto di vista e il senso della pressione del mondo sulla personalità del soggetto ritratto, che diventa senso ultimo e chiave di lettura del reale. La mostra di Como è quindi un doveroso omaggio al talento visionario di Germano Bordoli, certamente uno dei più interessanti interpreti della scena contemporanea italiana.


‘Come un mazzo di carte da gioco’ di Alberto Longatti 

I comaschi hanno sempre adorato i ritratti degli antenati. Lo provano le gallerie private delle famiglie nobili, le quadrerie di istituzioni pubbliche e infine le effigi di personaggi considerati propriamente Protettori o Modelli di Vita, oggetti di culto come i Lari e i Penati, gli spiriti protettori dei defunti che i romani veneravano racchiudendo i loro resti nelle urne da conservarsi in casa. Od anche lo testimoniano i richiami scultorei degli Esempi di preclari Virtù da appendere sulle fronti delle case, in medaglioni a bassorilievo o in erme da nicchia. Ma c’è stato anche qualcuno, dei lariani d’antan, che ha pensato di collezionare in un luogo di culto tanti simulacri emblematici degli eroi/profeti/geni di tutti i tempi, come nel Cinquecento Paolo Giovio con il suo pantheon degli Uomini Illustri, glorificati nei dipinti che ne riproducevano le fattezze senza troppo badare alla fedeltà fisiognomica ma cercando di rappresentare il loro significante, ciò che erano stati per gli altri, ovvero ciò che gli altri riconoscevano in loro. Qui sta la differenza fra la ritrattistica che è come uno specchio rivelatore dell’intimo e mira a catturare l’anima del soggetto e l’altra che, come annotava un antico poeta greco in un verso dell’Antologia Palatina, non “capta che le forme”, l’apparenza esteriore, rendendo però originale l’opera imprimendovi il proprio sigillo interpretativo. Germano Bordoli appartiene a questa seconda categoria di ritrattisti, modernamente liberi di dare al personaggio da riprodurre un aspetto che corrisponda solo in parte alla realtà lasciando spazio all’intervento inventivo. I suoi ritratti sono compressi sulla tavola, con minimi accenni di rilievo, tendono a scivolare verso il riguardante come se poggiassero su una superficie mobile che la stessa inclinazione del pavimento dipinto suggerisce. I soggetti sono collocati su una poltrona in atteggiamento rilassato, con le gambe distese o accavallate. Il procedimento dell’autore è molto semplice: scatta una foto alla persona da ritrarre, solitamente già assisa sulla poltrona che fa parte della struttura compositiva volutamente replicata senza sostanziali variazioni, poi esegue il dipinto appiattendo l’immagine fotografata. Il ritratto che ne consegue è quindi simile ad un’illustrazione che pare estratta da un mazzo di carte da gioco, con gli arti irrigiditi in una posizione convenzionale inquadrata dalla dimensione ovale del dipinto, eretto verticalmente. E la sensazione ludica, talora fiabesca o lievemente ironica che ne promana, è accentuata da tanti particolari aggiunti, figurine di animali, ornamenti fantasiosi, oggetti volanti, che attorniano il personaggio suggerendone la professione, le preferenze, le abitudini e, in misura accessoria, l’indole. Ma più che un dispositivo segnaletico riferito al soggetto, questo insieme di riferimenti allegorici costituisce l’impronta personale dell’artista. E’ la sua cifra, garbatamente allusiva, che comunica il piacere di costruire con il pennello un altro da sé, un piccolo mondo umanamente circoscritto, che pure corrisponde ad una sua personalissima concezione della vita, dell’amicizia, di un civile rapporto con quanti ha occasione di incontrare.   



‘Allo specchio’ di Michele Caldarelli  

Scrivo su numerosi piccoli fogli, frammentando ulteriormente questi miei appunti già per loro conto sparsi. Molti concetti attraversano più fogli non numerati... Il caso vorrà poi che si vadano a ricomporre, o a risequenziarsi come le basi degli alimenti della saga spaziale di Star Trek, secondo un nuovo ordine, mutatis mutandis, del tutto simile nei meccanismi a quello che nel Fabulario delle stelle di Hygino (bibliotecario dell’imperatore Augusto) ha dato vita alla magnifica imagèrie delle costellazioni... Nasceranno da qui nuove divinità? Idee correlate e punti fermi di riferimento di questa argomentazione vengono sostanziati da una folla incredibile di identità logiche che vivono di vita propria come i grilli gotici ai margini delle miniature... Si accomodano autonomamente e incalzano, come in un assalto all’arma bianca, in modo invero disordinato provengono da ogni dove: bussano ai vetri delle finestre nei momenti di distrazione e, da dentro lo schermo del computer, in quelli di concentrazione. Saturano ogni pertugio spazio/temporale, mimando coerenza e talvolta un pizzico di noiosa pedissequità..., cercano di esser-ci, finalmente infilati con una certa qual ragion d’essere in un discorso compiuto. Ma perché tutta questa fervente attività mi si è chiarita nella sua natura più essenziale, proponendosi come soggetto piuttosto che più canonicamente solo nutrire d’invenzione lo stile narrativo? Perché poi mi sento spinto con faticose, anche se divertite, circonvoluzioni a raccontarlo? La risposta sta nel tentativo di attivare una tintinnante macchina catottrica che coinvolga chi ritrae e chi rimira, chi è soggetto e chi è oggetto, chi dipinge e chi scrive - aggiungo - suggerendo dinamiche di confronto, contemporaneamente saettanti e meditative, che paiono muoversi a ritroso mentre comuque progrediscono svelando man mano quale grado di specularità coinvolga il mio scrivere sulla pittura di Germano Bordoli. Parlo del corpus di questa mostra che, lungo una teoria di 28 ritratti, poco ostenta della vanità celebrativa e a nulla vale la curiosità di sapere chi ne siano i soggetti. Eppure ognuno di costoro ben si può riconoscere, a dispetto della reticenza dell’autore a rivelarne l’dentità. Con consumata abilità da sceneggiatore teatrale, se interrogato sull’argomento, lui si dà ad interpolare il dialogo indirizzandolo altrove..: “Mi piace allegorizzare identità e carattere di ognuno, aggiungendo elementi simbolici, talvolta inventati, come quell’animale che ho ficcato sotto quella poltrona, del quale - gioca di sponda, prendendola alla larga - non so nemmeno bene di che razza sia “. Così informa, accalorandosi con egual dose di candore e astuzia e... “Vedi - prosegue trascinandomi ora nello specifico tecnico - consumo un sacco di pennelli nell’usarli per strofinio piuttosto che nel modo consueto...”... in effetti ha ragione nel portarmi al dunque, anche se altro, chiarendo come sia riuscito a ottenere quell’effetto di superficie molto particolare, insinuandosi a forza nella ponderalità della materia ritratta, agendo col pennello come usasse un pestello nel mortaio, risvegliandone gli umori dall’interno... vaporizzandola quasi. Poi, con quell’arietta da coboldo che solo lui sa impersonare, svela: “quello li è il Tal dei Tali - sapedo bene che già lo conosco - ma lo devo ancora completare, anzi gli cambio qualcosa per conferirgli un più marcato fisique du rôle”. Pittore, in questo all’antica, ci tiene all’inalterabilità e alla durevolezza del supporto lavorando su robuste tavole high-tech che, grazie a colle e solventi contenuti, se ne faranno un baffo dei tarli a venire obbligandoli ad acculturarsi altrove. Tavole, queste, proporzionate su un rapporto 3 x 2, ottenendovi una proiezione piana di sagome cilindriche, inglobandoci - sì ci sono anch’io - in assonometrie trasparenti, autentiche capsule temporali, preservandoci dal fluire degli eventi quasi potessimo sostenere un ruolo eroico di cavalieri di non si sa che... o si sa? E intanto mi distraggo chiedendomi se il mio ritratto sia ancora corredato di zucchetto, elmo domestico, e di quelle babbucce che mi sembravano così comode. Germano ha impiegato diversi anni per completare questo complesso teatro di memoria ed ogni tanto, in effetti ci ripensa, cambia qualcosa assecondando particolari reminiscenze, perché anche i ricordi mutano seguendo il moto ondivago degli eventi. Alla fine noi ritratti siamo qui, accoliti e meditabondi, sereni e al sicuro dall’azione della macinatrice di cioccolato del grande vetro duchampiano, trituratore di innocenti anime celibi. Ogni soggetto sta ieraticamente assiso su una comoda poltrona, immerso nei propri pensieri, ignaro quasi di essere ritratto... sta, indifferente agli sguardi, silenzioso quanto eloquente, affacciandosi dalle pareti di una immaginaria cattedrale... siamo molto comacini, in questo. Eco soffice dell’enigma, una congerie quasi infinita di elementi, perlopiù esserini zoomorfi, generano un chiacchiericcio di fondo nel ruolo di note a margine. Stanno quasi celati nell’economia del ritratto emergendo all’attenzione solo dopo una prima osservazione generale... ecco che si rivela un topolino accovacciato, mimetico, grigio su grigio, un riccio... uno scoiattolo, un ramarro, esile esile, un bassotto azzerbinato ai piedi, una rana verdastra e sdrucciolevole... Ce n’è per tutti i gusti, apparentemente comparendo a caso anche se una ragion d’essere c’è e connota rebus, privi di cifre alfabetiche quanto di necessaria decifrazione... Tutto rientra nell’atmosfera di sospensione che stuzzica anche tutti i miei puntini discorsivi... vorrei dire altro quanto ancor di più riflettere sul parzialmente rivelato, perché tutto deve ancora accadere ed essere compreso... col tempo a favore, prendendo le distanze dall’incalzare del quotidiano. In effetti Germano ci introduce al mistero dell’umano, non suggerendoci di svelarlo quanto piuttosto di specchiarci in esso scalandone l’altezza e sperimentandone la profondità, navigandone i cieli dal colore diafano che si stemperano all’infinito, sospinti e mossi da uno zefiro di primavera, da pensieri leggeri.

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