Il Canto delle Sirene
di: Vincenzo Guarracino
"Sfuggire in pria delle Sirene il verde
prato e la voce dilettosa ingiunge.
Vuole ch'io l'oda io sol: ma voi diritto
me della nave albere legate
con funi sì, ch'io dar non possa un crollo;
e dove di slegarsi io vi pregassi
pur con le ciglia, e comandassi, voi
le ritorte doppiatemi ed i lacci".
E' Ulisse che, avvertito da Circe del rischio che
corre nel prestare ascolto al canto delle Sirene, raccomanda il da
farsi ai suoi marinai. Non vuole, non sa rinunciare ad un ascolto
che lo tenta, all'incontro necessario con una melodia che non si colloca
in un luogo già visto, ma piuttosto promette una felicità
singolare, un'esperienza da accettare e perseguire, lungo un sentiero
che porta in un nessun dove, frastornato di echi e interruzioni, di
incantamenti visivi e sonori, nel marezzo iridescente delle onde.
Un canto disumano, secondo alcuni: l'eco sommessa e rifratta di una
voce estranea all'uomo e tale da ridestare un desiderio irresistibile
in chi l'ascolti di immergersi e dolcemente naufragarvi.
Secondo altri, invece, un canto umano, troppo umano, amaro e terribile
per difetto: voce del tempo, di una quotidianità mai prima
sospettata nel suo grigiore, e perciò fatale nell'atto di specchiarvisi
e riconoscervisi.
Accettare il primo equivale a pensare l'incontro con l'immaginario
come un'esperienza di verità: l'entrata in un racconto interminabile,
in una historia sui da cui si esce trasformati, in cui "ritorte"
e "lacci" stanno per le parole attraverso cui, con moto imprevedibile,
si vive scrivendosi intorno all' "albero", all'omphalos del
proprio sogno essenziale.
L'altro, invece, più prosaico e prevedibile, si fonda sul carattere
dell' "uomo di multiforme ingegno", sull'astuzia del prode re di Itaca,
tessitore infaticabile di inganni, nell'atto in cui, mentre si dispone
all'ascolto legato all'albero maestro, fa otturare con la cera le
orecchie dei marinai onde non siano attirati dal canto delle Sirene,
costeggiando il "prato" fiorito da cui si leva il loro canto di fascinazione
e di morte; nient'altro che un espediente, una bugia molto meschina,
per privarli di un ascolto, che avrebbe avuto su quei "bruti" il potere
di cambiarne radicalmente la vita.
Ecco, è nella scelta di una delle due ipotesi che si gioca
il destino di ogni scrittore all'inizio della sua rotta solitaria:
sfidare l'immensità navigabile della pagina, accettandone la
disponibilità richiesta senza illusioni e pretese, oppure attrezzandosi
alla menzogna di uno scialbo convegno col proprio Doppio.
Visionarietà e realismo: nel primo come nel secondo caso l'esito
può essere fatale: ci si perde. Le Sirene, il simbolo di una
felicità sconosciuta e senza nome, non risparmiano. Giunte
quanto gli antichi araldicamente fissavano nella loro figura: vorant
quos vocant, "divorano quelli che invitano", in ogni caso, che
abbiano accettato o rifiutato il loro richiamo.