Giuseppe Coco - antologia
critica
Qualche anno fa pensai di radunare in una mostra
un gruppetto di giovani artisti "di frontiera", attivi nel territorio
comasco e ticinese. Tra essi c'era anche Giuseppe Coco, comasco
di Randazzo, che interpellai, come gli altri, sul senso, per lui,
d'essere, appunto, di frontiera. La risposta fu spiazzante. Nessuna
allusione ai luoghi e ai confini che li separano. Invece accenti
in tutto personali, che vale la pena di ricordare. "Sono sempre
stato al confine di qualcosa", affermava, "e da sempre la posizione
di stare al di qua della soglia, anche se rassicurante, è
stata per me la sfida da raccogliere: una possibilità di
verificare scegliendo di ricostruire una nuova identità".
"Ci sono confini che non avrei mai voluto varcare", aggiungeva,
per concludere che "ora la mia frontiera è nell'incapacità
dei miei occhi di guardare fuori e non dentro di me e la sfida da
raccogliere è attraversare il confine tra me e la tela".
Questo è ancora oggi Coco, che continua a tormentarsi interrogativamente,
incapace di concessioni, a sé e agli altri. E la pittura
è il luogo, l'unico, deputato ad un realizzarsi che coincide
con lo scavo interiore e, attraverso di esso, con la meditazione
sul senso ultimo della vita e delle cose. Con un'inclinazione teleologica
tuttavia non solo radicata, ma attiva nel fare quotidiano, peraltro
fuori di prospettive ontologiche, chiusa nelle circoscrizioni di
un contingente che purtuttavia appunto i suoi limiti potenziano
e caricano di valori. Di qui un alenare a dimensioni che il provvisorio
nella provvisorietà travalichino, caricando l'esistente di
significati che dal particolare, nel particolare elevino all'universale.
È quanto poi da sempre l'uomo, l'artista ha fatto, dando
concretezza al bisogno di infinito nella finitezza dell'esistere,
con un inevitabile bisogno di sacro nel mondano, che Coco ama chiamare
profano.
Secondo un dominante dualismo che si realizza, va notato subito,
senza connessioni con le elaborate formalizzazioni del mito, foss'anche
quello fenomenologico, di accezione kereniana, di mito fatto dall'uomo
per l'uomo, ossia al di qua, o meglio fuori, di forze che l'umano
trascendano. Anche se poi, nella formalizzazione dell'arte, tornano
certe figure in cui il mito s'è concretato, però ad
un livello di elementarietà originaria, antropologica: il
totem piuttosto che l'erma.
Il nodo centrale resta ad ogni modo pure in Coco quello del senso
e del rapporto di finitezza e infinito, ed anche di creazione e
distruzione, in un contesto che è necessariamente superindividuale.
"Non mi sono posto il problema come individuo ma come una parte
del tutto; non è quindi il mio solo un lavoro biografico,
ma una riflessione sul bisogno di spiritualità dell'uomo,
che da sempre trasforma gli oggetti in simboli: simboli che rimandano
per scarti, stratificazioni, accumulazioni ad altro, all'invisibile".
Con intonazione esplicitamente religiosa, proprio nella necessità
di non esaurirsi nella interiorità coscienziale, di "corporeizzarsi"
in simboli e riti. Di una religiosità, peraltro, che postula
la relazione col sacro come esperienza primordiale, che si espande
libera e disponibile: anche alla sintonia con realtà religiose
determinate, quale quella cristiana, come ha dimostrato l'adesione
partecipata dell'artista, nell'autunno del 1990, ad una mostra singolare,
per il tema e il luogo. Intitolata "Durante la prima luna di primavera",
si riferiva alla Passione di Cristo, con cui erano chiamati a cimentarsi
alcuni pittori e scultori, in opere da ospitare nell'Oratorio della
Passione a Sant'Ambrogio a Milano. Le creazioni di Coco erano di
una intensità stringente, risultato del derivare da un'esigenza
profonda. Si trattava di elementi alti e stretti, dipinti su toni
scuri con tecnica mista su tela, che l'autore diversamente accostava
tra loro sulla parete. La sede facilitava la loro comprensione,
impedendo di pensare solo ad esercitazioni estetiche, tra materismo
informaleggiante e scansione geometrica minimalista dei supporti,
con effetti suggestivi, anche per il lievitare metamorfico delle
superfici. Ben si avvertiva, nella penombra di quella antica chiesetta,
come la forma incarnasse l'esperienza della tensione al sacro, con
intensità macerata, dolente. Mentre l'accostamento era certo
meno agevole quando, qualche tempo dopo, alcune di esse, con altre
analoghe, vennero presentate nella citata rassegna "di frontiera":
ancora in una chiesa, anche se sconsacrata (quella di San Francesco
a Como), e nel chiuso raccolto di una cappella, ma entro un insieme
"laico" che disturbava il messaggio, complice l'autore, che - per
pudore o timore - chiamò le sue opere "Reperti", contribuendo
a fuorviare chi guardava.
[...] Coco si espone senza veli in questa stazione importante di
un percorso ben poco noto, anzi quasi sconosciuto, anche ai comaschi
tra i quali l'artista lavora, per la riservatezza segreta, e scontrosa,
con cui è stato condotto. E' l'esito ultimo di un impegno
in cui - scrive l'artista nel testo sopra citato, redatto per questo
evento - "sacro e profano non sono il tema, o un tema, da seguire,
ma l'inevitabile intrecciarsi tra gli accadimenti della mia vita
e il lavoro che man mano procedeva. Oserei dire che, senza alcuna
scelta a priori, la realtà si è trasformata nelle
forme che cercavo, in una continua contaminazione tra il mio mondo
interiore e il bisogno come artista di dar forma a queste emozioni".
Di qui le "Contaminazioni", i "Totem", le "Accumulazioni", i "Luoghi
sacri". Si tratta sempre di esiti che presuppongono non solo, come
già s'è detto, la dimensione terrena e mondana del
contingente, ma la contrapposizione medesima tra la ricerca della
sintesi, sia pur carica di frizioni, di asperità, di frustrazioni,
e anche di sconfitte, e la presenza resistente, largamente vittoriosa,
d'una prassi utilitaristica rinunciataria, fatta teoria e metro
di giudizio dell'esistere. [...]"Si avverta che è nell'inevitabile
contrapposizione degli opposti che si rivela il senso dell'esistere",
tenuto fermo, ribadisce l'artista, che "il mio fare è l'azione
da contrapporre ad un mondo dove tutto deve raggiungere una qualsiasi
utilità, elemento fondamentale per la sua esistenza". Ecco
le "Accumulazioni": dei libri, risultato di un iterato intervenire
su immagini date (ed è un processo che Coco segue da anni,
ma nel passato dando maggior ascolto alle icone della comunicazione
ordinaria di riviste e giornali, ed anche di libri di consumo),
fino ad annullarne la riconoscibilità e quindi l'originaria
significanza, non sublimata, e tanto meno censurata ma assorbita
in una nuova, non più esteriore, oggettività, oltre
la dispersività dell'informazione effimera. Operazione, va
sottolineato, che si esplica nel corpo d'una realtà che non
viene rimossa ne esorcizzata, ma contrastata e contraddetta al suo
stesso interno. In questi libri-accumulazioni, testimonia sempre
l'artista, "l'inutilità di salvare qualcosa dal continuo
e vorace inghiottire del mondo della comunicazione ho cercato di
evidenziarla nella quantità e nella ripetitività (costanti
del mio lavoro), pagina dopo pagina, quasi in diari con immagini
rubate ai media di massa trasformate in immagini-simbolo, ormai
entrate nella memoria, senza tempo, dove ho eliminato il presente
e l'accidentale". Ne deriva qualcosa di estraneo alla polemica immediata,
e quindi alla cronaca, pur motivata e appassionata; qualcosa trasposto
in un'aura arcana, cui Coco è pervenuto non casualmente,
con un impegno non solo ormai lungo nel tempo, ma totale, per intensità
ed intransigenza. Ed ha in tal modo potuto superare la ridondanza
che in precedenza rendeva meno assoluto il suo fare, e il suo dire:
nei libri più remoti cui sopra si accennava e in altre esperienze,
nelle quali l'artista scardinava, dopo averla sforzata, la bidimensionalità
del quadro, lungo un processo di proliferazione abnorme, provocata
stipando sotto la tela materiali consunti e gravidi di storia, intrisi
di colore, fino ad urtare per la loro sgradevolezza. È peraltro
attraverso tali ricerche che gradualmente Coco s'è liberato
del superfluo pervenendo ai traguardi dei "Totem", dei "Luoghi sacri"
e dei "Seppellimenti". Presenze magiche, essi si offrono con un'arcana
primarietà, come qualcosa di antico e nel contempo di attivo
nel presente, in forza proprio del non essere solo presente. Riescono
a dire l'indicibile, a dar forma all'invisibile, toccando le corde
e le risonanze più intime. Danno fisicità, senza svelarlo,
con l'icastica reticenza del simbolo, al mistero del tutto, tra
naturale e soprannaturale, Con il senso dell'inevitabilità
che è originariamente nelle sostanze elementari che la vita
determinano, non a caso incluse - l'acqua, il fuoco, la terra, l'aria
nei "Seppellimenti", Alfa e Omega, trasformazione, divenire continuo.
E anche contaminazione, che per Coco "è la precarietà
del reale, l'impossibilità di stabilire un alto e un basso,
l'arrendersi consapevolmente al fluire dell'esistere, l'assorbire
tutto ciò che non ci appartiene e il restituirlo come scarti,
che nella loro oggettività ne stabiliscono il valore: in
un fare, quindi agire, in cui si svela l'unico senso possibile:
consumare l'esistere".
Di qui il teatro sacro e profano inscenato da Coco con cadenze liturgiche
negli spazi del San Pietro in Atrio, gravidi dell'eco di celebrazioni
che legavano essenza e fenomeno, eterno e transeunte nell'epifania
di un metamorfico procedere unificante il principio e la fine riproposto
in queste emozionate strutture fatte di materie come sospese tra
il crescere e il disgregarsi, nel trascorrere della luce-colore
dall'oro igneo al bruno terragno, secondo una inarrestabile temporalità
circolare.
Luciano Caramel
(testo di presentazione della mostra "Contaminazioni"
personale di Giuseppe Coco in San Pietro in Atrio a Como nel 1993)
[...] La presunzione di rendere leggibile, di tradurre
nei codici di altri linguaggi l'opera di un artista, deve sempre
fare i conti con la specificità del medium utilizzato, che
non può mai venire distinto (anche se di Marshal Mc Luhan
si parla certo assai meno di qualche anno fa) dal messaggio che
esprime.
Soprattutto, però, deve misurarsi con gli aspetti più
riposti della personalità dell'autore, anche di quelli che
si rifiutano di venire ricondotti o ristretti alle intenzioni esplicitate
nell'ambito di una qualche poetica, sia essa ispirata ad un genere
o piuttosto mossa dall'ambizione di un'assoluta originalità.
A maggior ragione, queste considerazioni sembrano valere per un
artista come Giuseppe Coco, giudicato da qualcuno addirittura, "anticonvenzionale
e asociale", sicuramente protagonista, comunque, di un'esperienza
artistica assai riposta, personale, schiva. Attributi, questi, che
appaiono come sinonimi di una espressività intensa e originale,
volta a percorrere sentieri evolutivi pervenuti, forse, all'approdo
della maturità.
L'inquietudine composta di Coco, il ripudio di ogni tentazione edonistica,
l'opacità ricorrente nel tema del "muro" o delle "porte chiuse"
approdano oggi ad uno sviluppo compiuto del tema programmatico svolto
da tempo: la "trasformazione della materia", che a Coco è
capitato di evocare in passato, diviene ora un messaggio che investe
e coinvolge lo stesso mezzo, il supporto, che, un po' shellinghianamente,
consente all'ispirazione, quasi un pretesto, di prendere corpo,
di farsi cosa. A tutto ciò, in ogni caso, premettendo quel
"forse" a cui la premessa sembra debba richiamare anche chi scrive.
Emilio Russo