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Lorenzo Morandotti

RESPIRAZIONE

Collana Pretesti
a cura di:
Anna Grazia D'Oria
prefazione di:
Vincenzo Guarracino
Ed. Piero Nanni
Lecce 2001
173 pp. 15 x 20 cm.

Leggendo questi testi di Lorenzo Morandotti, i primi ad essere pubblicati in organica raccolta, dopo diverse apparizioni in rivista o in plaquettes, mi è tornata in mente con grande prepotenza la definizione di poesia consegnata dallo stesso autore ad un aforisma di Alberi neri (1994): "poesia come differimento dell'imperfezione". Cosa voleva comunicarci allora che può valere anche oggi, per questi testi, Morandotti? Se la poesia nasce da un manque, da una solitudine e da un vuoto, è la parola (sembra dirci il poeta), la parola nei suoi cellulari spostamenti, nel suo problematico procedere, che condensa e realizza, dandogli visibilità, il significato profondo dell'esistenza sotto forma di canto, di un'esperienza cioè di risarcimento e restaurazione per arginare la distonia progressiva del mondo, attraverso i segni stessi della dispersione, della disseminazione minimale e plurale delle voci: una sorta insomma di approssimazione al valore, in senso continiano, attraverso una teatralizzazione e drammatizzazione del dis-essere. Legate da un'intima necessità, poesia e imperfezione comportano pertanto un'idea di viaggio-discorso, che vede le cose mutando restare sempre identiche a se stesse e l'io vivere ad ogni punto la sua condizione di provvisorietà con ironica consapevolezza della propria illusoria corporeità. E questo che mi pare di poter arguire e che mi sembra trovare conferma nel testo d'apertura di Respirazione, che proprio per la sua posizione liminare assume un valore programmatico, quasi un'obliqua dichiarazione di poetica: "Cos'è perdono / a essere bevuto / nell'eventuale calcolo? / Solo queste parole / ma se sono partite / non è avvenuto". Inscritto sotto l'insegna del corpo, fissato in una peculiare funzione, quella appunto istintiva del respirare e sentirsi, c'è abbastanza per concludere che qui (e intendo non soltanto in questo testo specifico, ma in tutta quanta la raccolta, che è poi l'opus integrale di Morandotti) è formulata una vera e propria teoria del passaggio, la visione cioè della vita e della poesia come spazio di un ex-sistere, come luogo di episodici e improvvisi affioramenti del senso dal gran vortice di una comunicazione vacillante sull'orlo del precipizio, esposta com'è al vento secco di un "nonpensiero": c'è un'idea di resistenza e responsabilità (il "calcolo" benché "eventuale"); c'è la fede assoluta nelle "parole", come uniche depositarie della verità del soggetto; c'è il riconoscimento del Vuoto, inteso come negazione di un Avvento, ossia di un sembiante da cui il paesaggio tutto, del libro come della vita, acquista un senso, consolato nell'attesa dalla sua mancanza. All'interno di un simile universo, chiuso e concentrazionario, un universo segnato dal nero e dal buio (il "buio" concreto e insieme metafisico che da un esergo di Sanesi si diffonde e allarga spietato e catramoso in tutto il libro in varie gradazioni e qualità, come ombra e lutto, come bruno, grigio, cupo e bitume e nebbia e infine notte) a farla da padrone è dunque la scrittura, che, come il soffio di una voce, respiro impersonale separato dal corpo e dal mondo, mette in scena una voluta perdita di riferimento al dato esistenziale, la cancellazione di ogni marca autobiografica, a dispetto di tutte le rivendicazioni di presenza inscritte in un'ossessiva araldica grammaticale e pronominale a volta anche aneddoticamente circostanziata. A ben vedere, in effetti, il dato singolare di questa esperienza di poesia è proprio nel bilico tra eccentricità (intesa etimologicamente come fuga dal "centro" e dal senso) e concentrazione, tra polverizzazione lirica e concrezione narrativa, col risultato di produrre in chi legge una sensazione di disorientamento, un effetto di capogiro nel trovarsi in una distrazione e alterazione continua del Discorso, nel dedalo di un racconto le cui parole sfiorano appena la profondità più enigmatica e insondabile dell'esperienza, la vertigine della metafora e la spirale infinita della metonimia. Forse davvero qui "la bellezza si misura nell'istante", come recita proprio in conclusione della raccolta il terzo frammento di Breve Istoriato. La bellezza si misura nell'istante: come dire che la vita, l' "ebete / vita che c'innamora" dello scapigliato Boito di Dualismo (la cui ombra chissà perché sembra affiorare a più riprese dietro i versi di Morandotti) è lo spazio breve di una parola, l'emergenza del desiderio che si fissa improvvisamente in una figura, in uno schema nel suo senso greco di gesto del corpo colto in movimento, in un respiro essenziale e necessario. Vincenzo Guarracino

Lorenzo Morandotti è nato a Milano nel 1966 e vive in provincia di Como. E' redattore delle pagine culturali del Corriere di Como, quotidiano abbinato al Corriere della Sera. Ha già pubblicato poesie, prose e saggi. Questa è la sua prima raccolta organica.

 



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