"Libere Trame"
di Vincenzo Guarracino
E' l'idea più geniale (se non addirittura l'unica), pensata e
realizzata a Como, in ambito espositivo d'arte, già da oltre un decennio,
da Mimmo Totaro e Nazzarena Bortolaso, con la regia di Luciano Caramel.
Miniartextil, rassegna internazionale d'arte tessile, ospitata
nell'ex Chiesa di San Francesco a Como (22 settembre-20 ottobre 2001),
coniuga, infatti, la peculiarità tutta comasca del tessile con le
forme di un'arte che deve fare i conti con le esigenze più diverse
(degli appassionati e collezionisti non meno degli artisti), a partire
da quelle delle dimensioni (rigorosamente 20x20x20 cm.). Con formula
concretamente intelligente, tipico tratto della lombardità di ideatori
e finanziatori della rassegna, è stata privilegiata (e sollecitata),
come sempre, la scommessa sugli spazi brevi, mini, e l'adesione
dell'elemento specifico, il serico e il filato, applicati a forme
plastico-pittoriche variamente combinate. Con risultati a dir poco
sorprendenti e tali da rinnovare l'ammirazione che la città si è abituata
a tributare alla manifestazione già negli anni precedenti come di
fronte ad un appuntamento di riconosciuta qualità, circa duecento
"operatori", con l'aggiunta dell'artista dalmata Jagoda Buic, ospite
d'onore con le suggestive Formes Blanches delle sue tessili
concrezioni fantastiche, hanno d'un tratto popolato l'antico spazio
espositivo, distribuendo le proprie opere secondo un disegno preciso
e sapiente, in duplice fila, lungo la navata centrale dell'ex chiesa,
e riservando le 14 cappelle laterali ad altrettante diverse installazioni,
obbedendo al tema che nel 2001 era Libere Trame. (Le opere
di grande formato sono state realizzate dalla francese Brigitte Amarger,
di giapponesi Ideo Tanaka e Haoi Kono Huber, dai finlandesi Kalevi
Yokinen e Kaija Poijula, dalla messicana Cecilia Martinez Lussareta,
dalla cinese Liang Shaoji, dall'anglo-svizzera Penelope Margareth
Mackworth Pread e dagli italiani Maria Luisa Barbera, Fabrizio Bozzoli,
Heidi De Felice, Filippo Falbo e Irina Ferrando).
Dopo i Fili di Luce del 1999 (con implicito omaggio ad Alessandro
Volta nel bicentenario dell'invenzione della pila) e il Filo del
Millennio dell'edizione 2000, giocati sulle sottili analogie tra
l'elemento base del tessuto e il destino stesso dell'esperienza esistenziale
ed espressiva di ognuno, ecco dunque la messa a fuoco dell'essenziale
compresenza e interazione di elementi diversi, dalla cui congiunzione
e coniugazione sboccia il fière dell'apparenza, il miracolo dell'arte,
in una sorta di epicureo clinamen di colori e forme.
Libere Trame, come dire incontro tra ordine e caso, possibilità
e necessità, rigore e fantasia, geometria e poesia: un fertile ossimoro,
dunque, quale si addice all'arte nella sua più essenziale incandescenza,
capace perciò di innescare i più felici, cortocircuiti fantastici
e formali. Come l'hanno interpretato questo tema i vari artisti? Non
potendo dar ragione di tutti, conviene soffermarsi almeno sui "comaschi",
in numero nient'affatto esiguo (ben 15) rispetto ai complessivi 188
di diversa provenienza e nazionalità (ben 111 stranieri), e tra questi
su alcune presenze particolarmente originali e significative, a partire
da Filippo Falbo, presente con un'installazione di notevoli dimensioni
(Intreccio 200x200 cm) e una minuscola composizione polimaterica
(Paesaggio). E' quella di Falbo una ricerca che il tema dell'intreccio
(giusto il titolo della sua opera maggiore) letteralmente lo interpreta
e sviluppa come un gioco linguistico intrinseco al suo stesso stare
e operare nei territori dell'invenzione fantastica, che si muove tra
pittura, scultura, narrativa (mi riferisco al romanzo Bellavista
di Acetara del 1991) e poesia (penso soprattutto al più recente
Lumi di carta del 1994), con esiti davvero notevoli, al cui riconoscimento
e apprezzamento al di fuori del ristretto ma convinto manipolo di
estimatori nuoce non poco l'abito disincantato e discreto dell'artista.
Ben più, dunque, di "una vera e propria pittura eseguito con fettucce
di tela colorata", come la definisce Luciano Caramel nelle note critiche
di presentazione: l'opera di Falbo, non solo qui, coniuga lirismo
ed esattezza con un ésprit de geometrie degno di Sinisgalli,
poeta, scienziato e, guarda caso, pittore, proponendoci come una dichiarazione
di poetica per quello che sa dirci dell'intenzione dell'autore, capace
di comunicare con giocosa allusività una sua idea del fare artistico
(e poetico) come affiorante da una griglia luminosa. In questa chiave,
non meno significativo appare l'altro lavoro, Paesaggio, con
le sue atmosfere suggestivamente liriche, che sembrano rimandare a
certi versi dell'autore ("Cessata è l'acqua e spento ogni rumore,
/ e le luci son fresche e il cielo chiaro; / si teme ancor vedere
qualche bagliore..."): un paesaggio dell'anima, un presagio e un'attesa
di poesia, governato dal ritmo del sentimento, del senso di una scoperta
progressiva, scritta nei piani diversi della visione. Degli altri
"comaschi", mi piace prendere in considerazione soprattutto Giuseppe
Coco. Cose pregevolissime fanno vedere Heidi Bedenknecht De Felice
con i suoi kimoni, costruiti in seta e materiali vari di imballaggio,
con forte intenzionalità ludica, e soprattutto Maria Luisa Barbera,
con la sua ricerca di spiritualità (Dov'è il Graal?) nella
complessità di colori e rifrazioni del vetro; colpisce anche Bruno
Luzzani, con le sue Trame di pietra, che in piccolo fanno risaltare
la sua essenziale ricerca di intime risonanze liriche nella pietra
etrusca, che costituisce da sempre il suo materiale privilegiato;
sa evocare atmosfere struggenti e suggestive Marisa Bronzini con un
fascinoso pannello Filo 66. Ma è Coco che con povertà di mezzi
sa ottenere effetti davvero notevoli, rivelando una candida felicità
infantile, davvero inusuale con questi chiari di luna. "l'unica cosa
seria che si può fare oggi è il gioco", ammette e la sua opera davvero
giustifica e conferma la sua affermazione. Una composizione semplicissima:
una scatola, scalarmente di proporzioni gigantesche, contenente un
cuore imbrigliato e prigioniero, contenuto in un trattore verde guidato
da un omino impettito. L'effetto, scenico e cromatico, è notevole
e val la pena di segnalarlo (anche per il fatto che è opera non isolata
di un artista serio e interessante, ancorché poco appariscente).
"Miniartextil" tra
tradizione, cultura e sperimentazione industriale di Michele Caldarelli
Ora che la Biennale di Losanna
ha interrotto i propri appuntamenti, si sente più che mai la necessità
di un nuovo punto di riferimento per la textil-art europea e proprio
Miniartextil, la ormai ultradecennale manifestazione comasca,
potrebbe assolverne le funzioni. Una peculiarità che rende eleggibile
Miniartextil a volano della creatività di settore, oltre all'entusiastico
fermento degli artisti, che sempre più numerosi vi affluiscono, è
costituita per certo dalla presenza di molte opere di notevoli dimensioni
suggerendo una progressiva e costante fuoriuscita dai canoni "mini"
delle opere, altrimenti commissionate tassativamente nel formato massimo
di 20 centimetri di lato. La possibilità fornita a rotazione, a molti
degli artisti intervenuti, di presentare anche delle installazioni
di grande formato, più che privilegio costituisce per loro motivo
di confronto reciproco e di alternanza nel misurarsi con opere di
più ampio respiro. L'opzione posta su una via di sviluppo di Miniartextil,
collocabile a cavallo fra la conservazione/interpretazione dei linguaggi
della tradizione e l'invenzione del nuovo in assoluto, può inoltre
costituire presupposto e leva fondamentale per la maturazione di una
differente specificità della rassegna.
La sperimentazione dei materiali nuovi, già peraltro ampiamente collaudata,
può considerarsi come area peculiare di sviluppo delle tecniche di
"tessitura" e campo di sinergia operativa sia per gli artisti che
per le aziende interessate a supportare nei prossimi anni la continuità
della rassegna. La temporanea difficoltà nel reperire rapporti di
sponsorizzazione dovuta ad una non facile situazione dell'industria
tessile comasca, potrebbe difatti risolversi con l'ampliamento del
raggio di azione di Miniartextil se la rassegna potesse divenire
punto di riferimento forte per l'innovazione tecnologica. A completamento
della mostra, si potrebbero anche organizzare workshop incentrati
sulla sperimentazione, sottolineando la caratteristica indicata, coinvolgendo
gli istituti di insegnamento e di ricerca.
Intervista di Rosabianca Mascetti
a Jagoda Buic, ospite d'onore a Miniartextil 2001
Nata a Spalato nel 1930, Jagoda Buic è famosa in tutto il mondo per
le sue forme tessute per lo spazio e le sue installazioni monumentali
presenti nei più prestigiosi musei e istituzione. Opere che si basano
sulla capacità di saper unire tradizione e modernità, utilizzando
le tecniche del passato per creare forme nuove, moderne.
D - Signora Buic come nasce questo
suo concetto di arte nello spazio, di arte che coinvolge direttamente
l'osservatore.
R - Nasce dal desiderio di ridare alla tessitura e ai materiali che
uso, lana, sisal, corde di capra, una loro autonomia, di poter esprimersi
nel vocabolario che appartiene alla tessitura. Da questo punto di
vista sono entrata nella "subcoscienza" della materia stessa e ho
cercato sempre di evolvere le mie forme il più possibile corrispondendo
allo spazio che devono occupare. E' una mia tendenza naturale, architettonica,
di total design per cui cerco sempre di coinvolgere lo spazio nella
mia scultura, di dialogare con lo spazio. Di creare una realtà tattile
e non solo visiva.
D - Lei ha una formazione cosmopolita, per frequentazione artistica,
e personale, per aver studiato e vissuti in molti paesi. Ciò nonostante
ha saputo mantenere un'impronta molto personale alla sua arte.
R - Sì, Federico Fellini ha detto "Per essere un artista internazionale
si deve parlare delle proprie radici" e qui vorrei citare anche il
grande architetto Gaudì "Per essere originali bisogna tornare alle
origini". Per quanto io abbia studiato in molti paesi e fatto il giro
del mondo, provengo dalle radici del mio paese ed è sempre presente
in me, non direttamente il paesaggio dalmata, ma la sensibilità dalmata,
del contatto con il mare e con le montagne del Carso. Il mio non è
uno stile ma è una verità.
D - Dunque una predisposizione naturale verso l'esterno, una conoscenza
profonda delle proprie radici portata verso gli altri.
R - Assolutamente, non si può uscire dalle tradizioni. Mi sono sempre
rivolta alla più remota e profonda tradizione della tessitura delle
donne del mio paese, delle donne di montagna e anche alla mia esposizione
alla Biennale di Venezia di quest'anno, che era dedicata alla "Piattaforma
dell'Umanità", ho dato il titolo di "Invito alla pace" perché era
stata fatta con l'aiuto delle donne bosniache, croate, serbe in un
momento di pace e di volontà comune di creare una cosa bella. Lavoravamo
insieme, io progettavo e loro mettevano tutta l'abilità e la manualità
che io non potevo avere.
D - Dunque un lavoro corale nelle sue opere, di memoria storica, opere,
tra l'altro, che sono molto complesse e che richiedono una progettazione
accurata.
R - Sono opere ambientali nelle quali l'uomo viene coinvolto direttamente.
Studio una forma, la disegno e poi partendo per tutto il corso della
lavorazione resto sempre fedele alla mia idea primaria: Durante la
tessitura ovviamente ne sviluppo dei particolari ma la forma architettonica
finale è sempre esattamente la stessa che ho pensato in origine.
D - Come ha scelto l'installazione presentata a Como?
R - Quando ho visto l'armonia di questa bellissima abside della Chiesta
romanica di San Francesco ho pensato ad una scultura degna di questo
ambiente, ad un accompagnamento corale, e così ho scelto "Spazi bianchi"
un'opera ricca di tensione, che sembra opporsi al vento, ricorda le
vele di una nave, una prua, una scultura in navigazione nello spazio
e nel tempo. Presento anche due pannelli "Cerchio dinamico" e "Paesaggio"
fatti in lana vergine con i quali creo un gioco di ritmo.
D - Quali sono i suoi materiali preferiti?
R - Le fibre di origine naturale, perché conferiscono morbidezza e
rigore alle mie opere tessute a mano, qualità che non riesco a ottenere
con le nuove fibre industriali.
D - Siamo a Como patria dell'industria serica ha mai pensato all'utilizzo
di questo prezioso materiale?
R - La seta mi ha sempre affascinato, è un filo leggendario, racchiude
in sé un senso di mistero, e ha sempre fortemente marcato la mia fantasia
per quella sua caratteristica di fluidità, di saper reagire alla luce.
Tra i miei molti progetti futuri vi è anche la realizzazione di un'opera
interamente in seta.
D - Qual è la simbologia dei colori che lei usa.
R - Per me è la forma che è colore, ma i miei preferiti sono il nero,
il marrone, i colori della terra, il rosso, il colore del sangue e
il bianco. Ma a volte bisogna saper rinunciare al colore. Quello che
mi rende felice è aver potuto interpretare questa tradizione tessile
che purtroppo anche nel mio paese sta scomparendo dopo questa insensata
guerra. In tal senso è scomparso anche parte del mio lavoro perché
le donne che collaboravano con me sono disperse. Io non smetterò certo
di lavorare ma queste opere in tessuto appartengono ad una civiltà
che nel mio paese si è spenta.
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