Archivio Attivo Arte Contemporanea
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Antonio Di Girolamo - antologia critica


 
Ugo Piscopo, La pittura: una ragione di vita, catalogo della mostra alla galleria "Art & Image", Napoli, ottobre 1990
[…] Per anni, dunque, di Girolamo ha potuto operare in assoluta e totale riservatezza, guardando di tanto in tanto quello che accadeva in quell'altrove che è Napoli. Ha riempito tele a centinaia ed avrebbe continuato a dipingere in privato, se un gruppo di amici non lo avesse obbligato ad uscire allo scoperto. Eccolo, adesso, con una campionatura dell'ultima produzione; sono lavori realizzati nell'impegno di un post-informale vigorosamente trattato al riflesso ed al riverbero di accensioni cromatiche colte in un flusso libero e aperto. L'attenzione si affaccia su scenari contemporanei in dilatazione ed in crescita. Ma sullo sfondo della memoria, inconsapevoli e resistenti glutini, resistono antichi suggerimenti del Seicento napoletano, da Ruoppolo a Luca Giordano, fino a Salvator Rosa. Sui richiami, però, l'occhio interviene a dilatare a macchia d'olio il reticolo e la malinconia, che è insieme con la delicatezza il sentimento fondamentale della vita di di Girolamo, a stendere un velo di discrezione e di stemperata riservatezza.
 
Vitaliano Corbi, Attualità della poetica informale, catalogo della mostra alla galleria "Art & Image", Napoli, ottobre 1990
[…] Nei dipinti di di Girolamo la bellezza del colore, talvolta persino sensualmente sontuosa, ma sempre venata da una sottile inquietudine, si direbbe immedesimata con uno stato di fluida indeterminazione materica. La forma non è più una preordinata rete di contenimento, ma niente altro che la traccia dei percorsi che il colore stesso si viene aprendo sulla superficie del quadro, suscitando l'impressione di una spazialità dell'immagine ancora in via di costituzione. Sembra così di trovarsi di fronte allo spettacolo di una sorta di caos prefigurale, di assistere al coagularsi, al ribollire, all'esplodere di una materia primigenia. Ma, in verità, questi dipinti non alludono tanto a improbabili scenari cosmogonici quanto creano una dimensione stranamente ambigua, sospesa tra l'apertura sul macrocosmo infinito e la vertigine di abissi intuiti entro i tessuti della materia vivente.
Talvolta, tra i delicati tracciati e i violenti flussi di colore che irrompono nel campo pittorico, tra i coaguli e le fibre, le macchie e i filamenti di questa materia pulsante, s'intravedono suggestivi frammenti della realtà naturale: soprattutto verdi che sono prati luminosi e azzurri simili a scaglie di cielo. L'evocazione di queste immagini del mondo non tenta di assestarsi nuovamente negli schemi della verosimiglianza naturalistica, ma si sviluppa per linee divaganti, musicali in qualche modo. Come, del resto, a valori musicali fanno spesso pensare le variazioni di ritmo e di qualità timbrica del colore. Eppure, anche quando la pittura di di Girolamo si direbbe decisamente avviata verso esiti espressivi di gioiosa esultanza, si scopre in essa qualche inattesa zona di dissolvenza cromatica, dove il colore si sfoca e s'annebbia come per un interno cedimento, Segnali d'allarme, essi preannunciano la svolta delle ultimissime e ancora inedite opere, nelle quali dietro i filamenti di un colore di esile e irregolare tramatura la materia pittorica ha dimesso ogni illusione di bellezza fenomenica, s'è fatta scabra e arida, anzi, sprofondando verso oscure lontananze che portano chi sa dove.
 
Maria Roccasalva, Colore come provocazione di forme, catalogo della mostra alla galleria "Art & Image", Napoli, ottobre 1990
[…] di Girolamo, infatti, attraverso il gesto vuole ritrovare e riconoscere se stesso; e in quel gesto fa appello alle energie vitali che abitano nel profondo del suo io, nella barbarie di ogni io. La sua è l'esperienza primitiva, preumana, che il processo di alienazione non ha potuto violentare. Ogni manata di colore è un minuto di vita in più, un passo in avanti verso il ricongiungimento a se stesso, una nuova vittoria. Il momento eroico del pittore è rivissuto dalla coscienza della mano che opera. Di Girolamo ha ritrovato la preistoria della mano. Ogni sua opera è la cosmica operazione di una genesi.
Il magma incandescente, che esplode squarciando il viola il cobalto e l'azzurro cupo in tutte le loro infinite gradazioni, è la nascita di un universo terrificante che non ha nulla di placido, nemmeno la propria bellezza. E in questa deflagrazione cosmica che ingrossa i colori e lacera le forme, non è la sola lotta primordiale delle forze antagoniste della luce e dell'ombra ad essere evocata, ma il dramma stesso dell'uomo conteso da queste forze. L'universo in formazione di di Girolamo vuole essere preso, dominato, non contemplato; sembra quasi che il pittore, nella essenziale asprezza della sua presa di possesso, sia come in rivolta contro ogni forma di limiti. E una punta di collera penetra in tutte le sue gioie. La superficie del quadro non gli basta più; non è più un argine all'inondazione di quei colori che vogliono vivere col sangue e il respiro di una carne.
I colori di di Girolamo non creano le forme e non le distruggono: le provocano. Sono essi stessi una carne, ma una carne che ha una sua luce e una sua energia. Ma malgrado quest'energia, questa freschezza e questo lusso, i colori di di Girolamo non portano la pace, non conoscono le gradazioni pacificatrici anche quando perseguono le sfumature, perché quando si è discesi nel profondo di se stessi, il paradiso non è più nemmeno uno stato d'animo.
Ed è qui il lato veramente interessante di questo pittore che, a un certo punto della sua vita, quando ormai tutto sembrava disporsi verso una conclusione serena, ha intrapreso un eroico duello col destino. Vincerà? Perderà? L'importante è che lotti. E di Girolamo non ha nessuna intenzione di lasciarsi sopraffare.
 
Gino Grassi, Fuga dalla realtà, "Il giornale di Napoli", 25 ottobre 1990
[…] Probabilmente di Girolamo è giunto a questo tipo di ricerca sulla forma e sul suo rapporto con la natura, dopo una singolare meditazione surreale. Acutamente, a questo proposito, Maria Roccasalva scrive sul catalogo: "I colori di di Girolamo non creano le forme e non le distruggono: le provocano. Sono essi stessi una carne che ha una sua luce e una sua energia. Ma malgrado quest'energia, questa freschezza e questo lusso, i colori di di Girolamo non portano la pace, non conoscono le gradazioni pacificatrici anche quando perseguono le sfumature, perché quando si è discesi nel profondo di se stessi, il paradiso non è neppure uno stato d'animo". Come a voler dimostrare che la ricerca di questo introverso artista sembra legata ad un intenso pathos, causato da una continua "auto-psicanalisi". Che conduce di Girolamo ad una snervante ricognizione nelle parti più profonde di se stesso, ma che è altresì tutt'uno con la gioia di fissare sulla tela i vari passaggi di questo ripescaggio onirico.
Se dovessi paragonare con altri tipi di indagine pittorica questa ricerca, che si coagula in immagini inconsuete e nelle quali il colore assume l'autorità del protagonista, avvicinerei l'investigazione di di Girolamo a quella degli espressionisti astratti americani, come ho già detto in principio. Ma è evidente che l'artista non guarda ai modi di fare pittura, bensì all'esigenza di rappresentare ciò che osserva dal suo ristretto angolo visuale. Che lo porta ad analizzare i ritmi e le congiunture alterne del naturale e ad identificare, nell'unità dell'opera, quanto di positivo e di negativo esiste sulla scena del mondo.
 
Giuliana Videtta, Armonie in lode della libertà, "Il Mattino", 2 novembre 1990
[…] Nel corso del nostro secolo il rapporto fra pittura e musica è stato ampiamente analizzato e teorizzato soprattutto dai pittori e soprattutto sul versante dell'astrattismo; e ogni volta si è sottolineato il carattere di libertà della musica, in quanto arte immune dal bisogno di rappresentare le cose nella loro apparenza, capace di andare al cuore della realtà, nella sua accezione più ampia. Su questo cammino di libertà si pone la ricerca recente di di Girolamo.
Una ricerca innanzitutto esistenziale, nella scelta esclusiva della pittura e nell'abbandono definitivo della sua professione di pediatra; una ricerca espressivo-formale, che affida al colore le risonanze della vita. Realizzati con impeto gestuale, usando il pennello e le unghie. la spatola e la tecnica del dripping, i dipinti ad acrilico su tela e su tavola sembrano riconducibili ad un ambito informale: in opere come Finale maestoso o Andante maestoso, entrambe del 1990, il calore deflagra, esplodono i rossi, i blu, i neri, accendendosi di bianco e di giallo; il pittore ora dà spessore alla materia, ora asseconda le trame intricate del segno. In tal senso Vitaliano Corbi ritrova nella pittura di di Girolamo alcuni motivi centrali della poetica informale quali "il dramma della finitezza della vita, il carattere di costitutiva contingenza della nostra esistenza", insomma "quell'idea del tragico quotidiano che Mondrian aveva creduto di aver eliminato per sempre dall'arte", e che proprio l'informale reintroduce, differenziandosi dunque profondamente dall'astrattismo storico. Tuttavia l'insieme delle opere in mostra rivela come la ricerca pittorica di Antonio di Girolamo sia aperta a diverse direzioni, in un conflitto vitale: la tela non è solo l'"arena" di cui parlava Pollock ma anche, ancora, "schermo", superficie dura che si interpone fra l'io e la realtà, fra la realtà e la pittura, sipario che il pittore fronteggia lottando fra gli opposti desideri-paura di altrepassarla o restarne vinto.
 
Giorgio Di Genova, Storia dell'arte italiana del '900, vol. IV, Edizioni Bora, Bologna, 1991, p. 582
[…] Ad un intreccio di ritmiche segniche curve è giunto nel 1990 Antonio di Girolamo, napoletano figlio di un pittore, che tuttavia solo negli anni Ottanta s'è dedicato esclusivamente alla pittura, attività in precedenza divisa con la sua professione. Le multiple svirgolate segniche erano cominciate a configurarsi in alcuni acrilici su tela del 1989, che venivano come pettinati da questi dinamismi segnici a restituire la sensazione del "mosso" musicale (Senza titolo, Leux d'eau). Chiaramente, come autodidatta, di Girolamo più che allo stile in questo periodo si affidava all'impulso, un impulso pittorico che, nonostante le sue connotazioni di sfogo liberatorio, con l'esercizio portava il nostro pittore a raggiungere i primi risultati di autocontrollo per indirizzare lo spontaneismo in direzione di espressione. Di qui è scaturita, a furia di provare e riprovare (perché di Girolamo, forse per recuperare il tempo perduto, è un accanito produttore di opere), lo stile. Uno stile che sostituisce alle esplosioni cromatiche campi monocromatici o tendenti al monocromo ed al dripping calligrafismi segnico-gestuali in negativo o positivo, che, se ricordano certe esperienze fatte da Strazza negli anni Cinquanta (e penso a Compenetrazioni del '55), tuttavia non hanno nessun esito di dinamismo post-futurista, come per Strazza, bensì possono essere considerati come una personale rimeditazione su Hartung. La fitta trama così ottenuta da di Girolamo vibra di una vitalità senza sosta che rivela al suo interno un abbandono all'automatismo esecutivo che s'avvale della coazione a ripetere per ricondurre a ritmi meno convulsi i precedenti ribollimenti del colore.
 
Ennio Concarotti, I miei paesaggi, catalogo della mostra alla galleria "La Meridiana", Piacenza, Maggio 1991
[…] Si ha l'impressione di una vibrazione "animistica" della materia cromatica impiegata nell'esteriorizzazione pittorica e cioè di una presenza, nel colore, di verità, simboli e messaggi misteriosamente erranti al di fuori dell'immagine visiva e in attesa di essere scoperti, interpretati e rappresentati dall'artista. Nasce la filosofia del rapporto colore-spiritualità che, appunto, segna l'area dell'informale espressionistico su cui già Nolde, in deliranti confessioni, si pronunciava con appassionata e quasi mistica convinzione.
E' un rapporto che, comunque sta cambiando in termini di intensità anche in di Girolamo (come appare evidente da un confronto antologico delle sue opere) sempre più asciutto e magro nelle tracce figurative e sempre più intenso e partecipe in un'operazione di valorizzazione di un'energia mentale e spirituale che sta nel pulsare stesso della vita. La sua esplorazione materica non è più scontro e contrasto di macchie, fibre, coaguli, schegge, filamenti e vampate di colore ma è più profonda e pacata conquista di traguardi e certezze. I ritmi del colore non sono più deflagranti e aggressivi ma si sono fatti più fitti, intrecciati, unitari, compenetranti, il loro battere sulla tela appare coinvolto in una larga e pensosa musicalità. Certe clamorose e vulcaniche pagine della sua pittura si sono asciugate al vento di una riflessione sempre più essenziale e penetrante.
 
Vitaliano Corbi, Orizzonte di precarietà nella pittura di Antonio di Girolamo, "lmages Art & Life", ottobre 1991
[…] Il segno della pittura di di Girolamo, con il suo rapido inarcarsi, pare spesso scattare dalla superficie del quadro per uncinare lo spazio sottostante e catturarne gli umori che vi circolano, assorbire il movimento delle luci e delle ombre e farla defluire versa il primo piano. Esso, pur nella immediata riconoscibilità del suo ductus, non è mai monotono e meccanicamente ripetitivo. Nel suo rapporto con l'intero contesto pittorico si realizza una tessitura di percorsi molteplici e mutevoli, che disegnano, specialmente nelle opere di maggiore omogeneità cromatica, strani paesaggi della fantasia, in un pullulante incrociarsi di rilievi e di valli, di morbide e intricate sporgenze villose, di inattese simmetrie geometriche emergenti dal turbinio di innumerevoli tracce ricurve.
Lo stringente dialogo che nelle opere di di Girolamo viene intessuto tra i valori di superficie e i valori di profondità riassume in parte anche i termini della vicenda storica della pittura contemporanea, del suo perdersi dietro l'antica illusione dello spazio tridimensionale, che sia prolungamento e specchio di quello della vita, e del suo vigile attestarsi sulla perfetta bidimensionalità della superficie, a difesa della purezza dei valori pittorici, esibiti nella loro nuda flagranza fenomenica.
L'importanza delle opere dipinte da di Girolamo nel corso del 1991 sta, dunque, prevalentemente in una felice ricerca d'equilibrio, di una misura che componga ed armonizzi opposte tensioni, senza tuttavia spegnerne l'impeto. Questa ricerca s'è venuta svolgendo con passaggi e spostamenti continui, mai, però, bruschi e clamorosi, sempre tali, anzi, per l'intelligente discrezione con cui sono stati condotti, da poter persino sfuggire ad un osservatore distratto. Il segnale che ne deriva è di una bellezza sottilmente perturbata dall'intuizione d'un orizzonte di precarietà in cui quei passaggi e spostamenti rivelano un riferimento al di là della dimensione virtuale dell'arte. Che è, poi, un'allusione alla nostra vicenda esistenziale, al suo essere niente altro che un'emergenza precaria, ma non per questo meno luminosa e bella.
 
Luigi Lambertini. Metafora e segno in Antonio di Girolamo, "Terzoocchio", dicembre 1991
[…] Adesso il discorso si è fatto più serrato. Dal gesto e dalla sgocciolatura di Girolamo è passato al segno che circoscrive come una parentesi quello spazio mentale e reale che il segno immediatamente precedente ha a sua volta definito. E' un segno che si basa su di un continuum nel variare di quelle che possono apparire come delle sfaccettature, nell'articolarsi quasi a ventaglio di queste porzioni scandite le une accanto alle oltre, le una sulle altre.
E' un segno che definisce quasi semanticamente la propria realtà, anche se i motivi e le urgenze che lo hanno dettato sono intimamente legati alla vicenda personale di Antonio di Girolamo. Ecco allora prendere corpo una sorta di struggente metafora che ci svela i più profondi meandri di quel viaggio al fondo della notte che ci attende e le cui tenebre tendono ad avvolgerci, negando ogni spontaneo ed irrinunciabile anelito alla luce.
Luce e tenebre in una dialettica continua: una tesi, una affermazione che viene contrastata automaticamente da una negazione, da un'antitesi e senza soluzione di continuità. Ecco perché i colori hanno perduto le loro precedenti caratteristiche di tipo naturalistico e sono divenuti sempre più realtà mentale. Sono, in altri termini, il prodotto di una ricerca che tende a legarsi senza via d'uscita - altrimenti si rischierebbe una sterile tautologia - ad un'indagine che ha per tema il linguaggio del colore e del suo divenire quale strumento, quale mezzo per manifestare un preciso dasein, un preciso essere nel mondo.
 
Marzio Dall'Acqua, Antonio di Girolamo. Forme del profondo, catalogo della mostra alla galleria "Vicolo del Quartirolo", Bologna, febbraio 1992
[…] Le opere di di Girolamo presuppongono, nonostante l'apparenza, un rapporto diretto con la natura, quindi con la vita, per cui la tensione delle sue tele tende e diventa emozione, sentimento, mai contemplazione. Non ammettono occhi indifferenti, ma obbligano al coinvolgimento, all'empatia, alla compartecipazione emotiva ad un evento che avviene davanti a noi. Tensione quindi che è nell'operare stesso dell'artista. Un'opera nasce come urgenza, come necessità, come impulso del dire, quasi come annullamento dell'artista totalmente preso dal fare che affiora dal profondo. Ma tensione anche come equilibrio. Rispetto all'action painting, alla pittura gestuale, alla quale di Girolamo si apparenta, egli è e rimane un "classico". Classico nella contrapposizione tra forme ed evento, tra fenomeno e realtà, tra natura ed artificio, tra essere ed assenza, tra stasi e dinamismo. Questo binomio, questa dualità sono in perpetuo, delicato e precario equilibrio. Della classicità si avverte la necessità di strutturare, di dar ordine, persino talora, il calcolo matematico e prospettico delle forze in tensione; il timore della rottura irreparabile, dello sbilanciarsi a favore di una soluzione sull'altra. Il controllo della forma è anche autocontrollo delle emozioni, delle energie psichiche, non ammettere esplosione, gesti irreparabili. E' controllo ed equilibrio formale, esaltazione dell'operazione estetica non vissuta come individuale viaggio nell'indicibile, ma come dialogo, confronto con chi guarda, colloquio su ciò che accomuna più che separare e dividere.
Mediterraneo di Girolamo è anche per il valore che la luce ha nelle sue opere, che proprio sulla atmosfera, sulla luminosità costruiscono e costituiscono una sottile, persistente e significativa riflessione. Luce interiore, ma anche naturale armoniosità del colore.
 
Riccardo Notte, Di Girolamo, ritmo e musica in pittura, "Roma", 5 maggio 1992
[…] Ma per quei casi ineluttabili che designano col nome di "destino", di Girolamo divenne medico chirurgo, conservando soltanto nel segreto del suo studio i segni dell'innata passione; in solitudine l'artista passò dai primi tentativi figurativi a raffigurazioni di impianto sintetista fino a quando la maturità espressiva non gli svelò il fascino delle pure forme astratte.
"Quando avrò detto che molte tele di Antonio di Girolamo hanno titoli mutuati da componimenti o movimenti musicali - toccata e fuga, pavane, presto con fuoco, andante mosso, andante maestoso eccetera - avrò spiegato meglio la singolare suggestione che me ne derivò".
Così Michele Prisco nella prefazione al catalogo. E non a caso. La recente produzione del pittore si può facilmente accostare alle esuberanze musicali di un Ciurlionis o, ancor più, ai primo-novecentisti "stati d'animo disegnati" di Giuseppe Steiner, senza citare i tanti noti artisti che dai trasporti aerei della musica hanno tratto materia d'ispirazione.
Di Girolamo dipinge oggi reticoli caotici prevalentemente impostati sui ritmi, curvilinei e spiraliformi, secondo un dichiarato antiplatonismo che anche in questo caso affonda le sue radici lontano; e basti pensare all'impennata di un Boccioni, il quale, introducendo la bergsoniana "durata", disarticolò l'intellettualistica impostazione spaziale dei cubisti.
Dunque, durata e musica, dinamica del contrappunto e vita nel suo eterno travolgimento, in queste opere del pittore napoletano Antonio di Girolamo, outsider dei grandi circuiti dell'arte ma sincero interprete della sua interiorità.
 
Angelo Trimarco, Di Girolamo il fitto intrico dei colori, "Il Mattino", 10 novembre 1992
[…] La pittura come pratica di vita. Sembra un luogo comune, ma per alcuni è un bisogno, una necessità, un desiderio. Certamente lo è (lo è diventato sempre più con il tempo) per Antonio di Girolamo. Un esercizio che offre ora risultati credibili, come dimostra la sua personale al Maschio Angioino.
Conosco il suo lavoro da quando, con molta determinazione, dopo un paziente tirocinio, ha provato a raccontare il suo teso rapporto con le cose, le gioie e le sofferenze, affidandosi quasi esclusivamente al colore, ai grovigli di materia, all'infinito intrattenimento del bianco e del nero, del rosso e del viola, del giallo e del blu.
Pittura materica, superfici di grandi dimensioni attraversate da un fitto intrico di segni, di filamenti che si avvolgono per sciogliersi subito dopo in altri segmenti e pezzi di storia: certo, è questo il discorso che l'artista napoletano propone con sottigliezza e rigore, senza eccitazioni e allarmi, senza gesti oltre la linea. Invece, "per evocare di volta in volta un momento interiore in chiave lirica", come suggerisce Michele Prisco nel testo di accompagnamento.
 
Donatella Ariotti, Antonio di Girolamo, "Terzo Occhio", marzo 1992
[…] di Girolamo, nel suo fare artistico, ha toccato vari aspetti dell'espressione pittorica, dall'informale all'espressionismo astratto, aspetti sentiti ed elaborati intimamente e non quindi ripercorsi secondo una prassi "citazionista" o culturale. Così, anche la produzione che fa immediatamente pensare al dripping pollockiano o alle fiamme di vibrante colore spatolato che connotano i quadri dai titoli di ispirazione musicale (Andante maestoso, Presto con fuoco, Finale) va vista come necessità non più rimandabile di liberare un'esuberanza artistica troppo a lungo repressa. "Ho vissuto attraverso microscopiche lesioni della mia crosta, come vulcano attivo privo del suo cono di eruzione", afferma di Girolamo nel catalogo per la mostra all'"Art & Image" di Napoli, e le sue parole sono una dichiarazione magistralmente rivelatrice.
Dal '91, in seguito a sofferte vicende personali, all'esplosione vitale precedente di Girolamo sovrappone quasi una "griglia contenitiva" (tracce ora monocromatiche, più spesso nere ragnatele) che viene a velare, a volte a negare disperatamente l'illusione dell'esistere umano, che, bruciando, tramuta ciò che tocca in cenere. Questa "griglia" costituisce la cifra stilistica di di Girolamo e presenta difficoltà ad essere semanticamente definita. E' un groviglio, un vortice? Sono spirali di galassie in formazione? O sfregi che cancellano il "quadro" sottostante? A volte è la voluta di fumo del falò che incendia le speranze terrene, in altri casi si fa schermo e filtro, assumendo forse lo funzione della siepe dell'infinito leopardiano. Certo è che quando la cifra stilistica, allentandosi, si fa meno compatta, il colore può diventare puro respiro luminoso e lanciarsi verso l'alto quasi a sforare la tela nel tentativo di recuperare la speranza e divenirle cantico di ringraziamento.
 
Giorgio Agnisola, Antonio di Girolamo, "Terzo Occhio", dicembre 1992
Senza nascondere ascendenze e debiti, I'arte di Antonio di Girolamo possiede una sua autonoma valenza, un suo rigoroso e coerente registro di soluzioni intuitive e visive, che è doveroso testimoniare, partendo dalle radici della sua ricerca e dalle motivazioni psicologiche ed emotive che ad essa sono connesse e sottese.
C'è, innanzitutto, nel progetto espressivo di di Girolamo, la suggestione della misura nitida e finita dell'immagine segnica e visiva: una misura che corrisponde ad una cifra simbolica, ad una metafora che supera il bilancio propriamente emotivo dell'immagine, sebbene il dato sensibile, la risonanza del contesto visivo in termini emozionali, sia alla base del suo dettato espressivo.
Ciò spiega che l'arte del pittore napoletano è, sì, derivata da un coacervo di sensazioni estetiche, da una sensitività diffusa, vibrante che determina una disposizione creativa al ritrovamento, piuttosto che alla interpretazione, ovvero alla investigazione in attesa dell'evento che è l'arte nel suo svelarsi, nel suo corrispondere alla sensibilità e all'intelligenza, ma anche e direi soprattutto, legata ad una soluzione espressiva d'ordine progettuale, ad un'esperienza propriamente intellettuale. All'interno di questa fisionomia stilistica, di questo spazio prospettico, si direbbe che di Girolamo recupera una trama pittorica fatta di espressioni segniche variamente addensate, quasi sempre avvolgenti a ritmo largo o serrato, cromatiche o meno, che restituiscono all'occhio una soluzione di spazi lievitati, morbidi, sensuali, musicali, solo in parte penetrabili e tuttavia calibrati nello sguardo d'assieme, rigorosi si direbbe, rigidamente e nitidamente raccolti all'interno di una circostanziata, definita, geometrica area visiva.
 
Ada Patrizia Fiorillo, Necessità della ricerca nell'opera di Antonio di Girolamo, "lmages Art & Life", aprile 1992
[…] Che fosse poi solo un passaggio e mai una forma di epigonismo indotto quel suo apparentarsi alle matrici di un linguaggio informale lo si vede oggi alla luce di una raggiunta cifra stilistica che ha moderato in parte le incursioni di una prorompente carica emotiva a vantaggio di una nuova griglia rappresentativa. Ai convulsi andamenti cromatici, di Girolamo ha sostituito campiture di segni che giocano su una forte riduzione tonale il più delle volte affidandosi al contrasto morbidamente e sommessamente dichiarato di una bicromia percettiva. Attraverso segni accelerati che danzano in uno spazio virtuale abitato dai colori del giorno e della notte, della luce e delle tenebre, gli ultimi lavori dell'artista, che datano tutti al 1991, hanno certo varcato la soglia di una cosciente misura rappresentativa. Privilegiando questo nuovo espediente formale fatto di segniche gestualità, ora prodotte però ad una temperatura abbassata, queste opere scandiscono infatti i tempi e le pause di un processo mentale che racchiude i vuoti e la memoria, il presente e la storia, l'essere e l'esistere. Un segno mobile, flessuoso, ritmico, che non cede mai alla piacevolezza di una cifra puramente decorativa, si fa medium dialogativo tra il sopra e il sotto, tra ciò che si mostra e ciò che si nasconde, tra ciò che si è percorso e ciò che si percorre. Superficie e profondità rappresentano, infatti, in questa nuova fase operativa, i due termini estremi contro i quali di Girolamo fa confluire il suo ductus pittorico, fatto di trame intricatamente tessute, tanto che a dipanarle difficilmente si troverebbe il capo. E' perché del resto, se il gioco dell'artista è tutto lì in quello scambio osmotico tra piano e fondo, tra l'animosità serpentina dei segni e il pacato affiorare di tracce remote, ma anche tra un alto e un basso e cioè tra un positivo e un negativo che si dà nella divisione di opposte riduzioni cromatiche. Un gioco quindi condotto nell'obiettivo di un ricercato equilibrio che nella formula di una raggiunta eleganza formale, è pertanto difesa dei gesti, dei pensieri, delle emozioni che abitano la nuova dimora a lui nota. L'artista ha infatti equilibrato le composizioni ma non ha esaurito l'esigenza del dire e del fare, né quella del cercare; quest'ultimo forse l'ideale più bello e più vero di di Girolamo: lo riguadagna al tempo perduto.
 
Michele Prisco, Le spirali di Antonio di Girolamo, catalogo della mostra alla Sala Carlo V del Maschio Angioino, Napoli, ottobre 1992
S'è trattato d'un caso o d'una semplice coincidenza? Oppure d'una sorta di segreto influsso tanto involontario quanto altrettanto allusivo? O, addirittura, di una specie (per me) di premonizione? Un fatto è certo: ad accompagnarmi per la prima volta a vedere la produzione di Antonio di Girolamo è stata una sensibilissima musicista: pianista, per la precisione. E quando avrò detto che molte tele di Antonio di Girolamo hanno titoli mutuati da componimenti o movimenti musicali - toccata e fuga, pavone, presto con fuoco, andante mosso, andante maestoso, eccetera - avrò spiegato meglio la singolare suggestione che me ne derivò. Non voglio dire con questo che la pittura di Antonio di Girolamo tenda ad esprimere - o realizzare - attraverso la concatenazione dei colori la concatenazione (e l'organizzazione) dei suoni propria della musica; voglio dire che i ritmi compositivi dei quadri di Antonio di Girolamo partecipano di una loro latente - ma non troppo - musicalità.
Astrattismo onirico si potrebbe definire il modo di far pittura di Antonio di Girolamo: e certamente quello che più colpisce, nei lavori dell'artista, è quel giuoco di reticoli che coprono la tela e separano e al tempo stesso accompagnano il colore distendendosi entro gli stretti spazi ottenuti dall'aggrovigliarsi dei segni con una loro a volte drammatica luminosità. All'apparenza queste tele sembrano dei monocromi, o al più realizzate con due colori (il nero sul bianco, il bianco sul nero, il nero sul verde, il verde sul giallo, il giallo sull'azzurro o sul blu, l'azzurro o il blu sul rosso, il rosso sul viola, il viola sul nero, e così via, come in un fantasmagorico girotondo); ma ad osservarle meglio, quale e quanto (e quanto prezioso) brulichio di toni vien fuori dal libero impiego di queste spirali che s'incurvano, s'infittiscono, si sovrappongono, si scontrano, si sfuggono, obbedendo - nonostante tutto - a una loro intima razionalità. E insomma spazio e colore, in di Girolamo, risentono di una vitalità metodica e intuitiva al tempo stesso, riflettono in altre parole le situazioni di una fantasia che nasce come l'unica maniera di reagire ai fatti della vita. Così che se volessimo dare un nome al discorso interno che ne guida la ricerca espressiva potremmo definire la pittura di Antonio di Girolamo "l'organizzazione dello spazio".
Perché spazio e colore, c'è da aggiungere, sono in lui termini coincidenti modulati per evocare di volta in volta un momento interiore in chiave lirica, ma d'un lirismo che non esclude, e anzi molto spesso stimola, il brivido di sottili inquietudini. La sapienza cromatica di di Girolamo, infatti, si è affinata, nel corso di un assiduo intenso lavoro, sino all'elaborazione di stesure vibranti per magiche effusioni luministiche, che concorrono a precisare la molla iniziale che ha sollecitato l'artista all'avvio di ogni singola opera, e in tal modo il sistema astratto delle forme comunica con assoluta limpidezza e incisività.
Non solo; ma si ha l'impressione, di fronte a queste tele, che di Girolamo dipinga con assoluta libertà, quasi senza elementi ordinatori del quadro, raggiungendone la simmetria unicamente nell'impiego e nell'apporto del colore e abbandonando del tutto la sinopia del disegno o in ogni caso riducendola alla presenza d'un groviglio di segmenti quasi sempre curvilinei, che rappresentano solo un passaggio (o una pausa, se preferite) da un accostamento di colore a un altro, e restituendoci in tal modo un "ordine" di immagini visive che costituiscono per noi il supporto per una lettura più razionale del suo mondo interiore o diciamo, più semplicemente, per una ricognizione della e sulla realtà.
Anche per questo le sue tele così cariche di silenzio e ricche di una straordinaria unità di ritmi e di strutture finiscono col coinvolgerci e trasmetterci quell'emozione che solo un'arte matura e consapevole oggi riesce o comunicarci.
 
Luigi Lambertini, Il segno-colore di Antonio di Girolamo, catalogo della mostra alla galleria "Gnaccarini", Bologna, gennaio 1994.
[…] Lasciatesi alle spalle tele di particolare risonanza come Nel vento del futuro in cui il rosso violento e il nero creano una dialettica d'insieme densa e profonda ad un tempo, Ritmi e antitesi, formato da due tele accostate - e non è certo la prima volta che di Girolamo ricorre ad una simile contrapposizione o separata integrazione - il cui dialogo è costituito da un sottile e sensibile rimando fra positivo e negativo che porta automaticamente ad uscire dagli spazi di ciascun dipinto, ci troviamo di fronte nell'anno successivo ad una serie di opere con le quali il pittore ha definitivamente mostrato di volere superare, ed in maniera oggettiva, i confini della bidimensionalità, sia pure aperta verso ulteriori realtà tramite il pluralismo di prospettive mentalmente suggerite e provocate. Infatti, dopo la serie concatenata delle Espansioni (1-2-3-4-5) in cui i colori timbrici hanno come ceduto il passo a tonalità più soffuse e distese, egli è venuto via via costruendo quelle che ha chiamato Composizioni modulari e in un secondo momento vere e proprie Installazioni.
Si tratta nell'un caso come nell'altro della disponibilità che viene offerta al fruitore di comporre a piacimento l'opera modificando la disposizione e la collocazione dei singoli moduli da cui essa è stata costituita. Il primo degli esempi, che è il caso di proporre, è la Composizione Modulare n.1 (1993) formata da cinque moduli rettangolari che possono essere, a seconda dei casi, accostati a mo' di quinta, sovrapposti quasi a formare una specie di ziqqurat oppure intercalati gli uni agli altri a seconda che si preferisca questo o quell'abbinamento. I colori e le forme allora vengono ad integrarsi ed anche a contrapporsi in modo vario e tale da provocare, a seconda delle disposizioni scelte, sempre rinnovate suggestioni e sollecitazioni poetiche.
La campitura di ciascuna superficie entra in relazione con le altre ed i colori, che siano timbrici o tonali, proprio da tali rapporti acquistano una carica diversa ed i loro ritmi vengono percorsi da nuove vibrazioni. Quella dinamica già individuata pertanto, trova una carica che prima non si poteva certo prevedere. Lo dimostra appieno la Composizione Modulare n.4, grazie ai suoi sei moduli triangolari. La forma, una volta di più, in questo caso - meglio, la variazione delle forme che si possono ottenere - ha un peso determinante; è il presupposto di immagini dal carattere per certi riguardi di natura visionaria, presupposti che posseggono, se si vuole, una forza fantastico-concettuale che altrove, ed in special modo nelle Installazioni, come quella A/93 o quell'altra op. 16/93, risalta proprio per quello spazio ambientale cui alludono.
Il segno-colore di di Girolamo allora acquisisce nuovi spessori e nuovi rimandi. Se prima, sulla tela, quale parte di un suo proprio universo, la somma di queste aggrovigliate spirali, nate dall'istinto quali espressioni puramente concettuali di un modo di essere, si aprivano ad ambiti che andavano al di là della superficie stessa, adesso questo accumularsi di realtà oggettuali e plastiche ad un tempo rendono veramente concreta tale specificità moltiplicandola in un divenire la cui origine è coerentemente riferibile a quelle premesse dalle quali hanno preso le mosse per essere, per l'appunto, ricreate con nuove e sempre più dialettiche e suggestive riproposizioni.
 
Nino d'Antonio, Espressività e suggestione nella pittura di Antonio di Girolamo, catalogo della mostra alla galleria "Gnaccarini", Bologna, gennaio 1994.
[…] Il più recente approdo di una ricerca tanto inquieta non è più l'opera d'arte tout court: nel senso che il quadro supera i confini imposti dalla tela per dilagare in una serie di tavole (con relativo supporto o contenitore), le quali si offrono a loro volta a molteplici usi e collocazioni. Se il termine non generasse equivoci, direi che la pittura viene a porsi come insolito complemento di un improbabile arredo, tutto da inventare. Si tratta infatti di tavole di varia misura, interamente dipinte su entrambe le facce, da disporre a binario o da comporre a macchia, in verticale o a zoccolo, al muro o in piano. Il tutto all'insegna della provvisorietà, o meglio di una collocazione e di una composizione obbedienti solo alle spinte e ai bisogni del momento, pronte a essere modificate, rifatte, trasferite altrove.
Riaffiora l'antica anarchia del primo di Girolamo, qui distribuita in tavole dal destino indefinibile? O il quadro, come spazio concluso, è diventato insufficiente all'ossessiva presenza del segno? O ancora l'umanità dolente del pittore, compressa in un calligrafismo tanto esasperato, ha cercato la complicità e il conforto di un altro uomo? Mi pare questa l'ipotesi più attendibile: perché si tratta di opere che hanno bisogno di un secondo intervento, di qualcuno che scopra o inventi un loro possibile utilizzo, che si accosti ad esse con la confidenza necessaria per disporle a proprio piacimento, anche al di là di quello che i segni e il colore possono suggerire.
E in quest'ottica vanno viste le opere più recenti: dalla teca in plexiglass e supporto anche in plexiglass, con tavola a colorazione differenziata sulle due facce (un eventuale piano d'appoggio e un elemento polivalente?), ad un incerto separé a tre pannelli animati da figure geometriche forate lungo il perimetro; ad una serie di moduli, sempre in plexiglass, quadrati e a misure scalari posti l'uno sull'altro variamente orientati e con le facce di ciascun modulo diversamente dipinte, alla fuga di triangoli variamente colorati, che sovrapposti e sfalsati traducono una spinta verso l'alto, una sorta di decollo che forma e colore continuano a suggerire.
Una stagione imprevedibile, in cui di Girolamo dà vita a una serie di proposte (è così che le definisce), destinate ad ogni possibile intervento da parte del fruitore: un coinvolgimento ineludibile e personalissimo, necessario a che l'opera, imperfetta nel suo destino, cominci a trovare la prima delle sue molteplici ragion d'essere.
Intanto, questa manualità certamente più costruttiva e intrigante sembra dare all'artista una pausa rasserenante: direi una quiete del fare che di Girolamo sta vivendo con la freschezza e l'ingenuità di un fanciullo, e alla quale tuttavia si accosta come a una sorta di divertissement, consapevole com'è che il gioco non durerà a lungo.
 
Giorgio Di Genova, A proposito del segnismo gestuale di di Girolamo e dei suoi ultimi sviluppi, catalogo della mostra all'"Atelier Arti Visive" di Carrara, marzo 1995.
[…] Per intendere appieno il discorso che di Girolamo va facendo da alcuni anni, va costantemente tenuto presente che la sua pittura è un parlare dello spirito. Un parlare che si esprime a segni e colori, i quali, appunto perché prendono linfa dall'incessante ritmo del respiro, sostanziano il discorso di una più che manifesta coazione a ripetere lo stesso gesto nell'ambito dello stesso sguardo. Per questo il pittore napoletano predilige il monocromo che meglio restituisce, seppur marcato nella vibratilità del "graffio" segnico, lo stato d'animo dell'accumulo ritmico in tessiture che non di rado si contrappongono e creano antitesi, né più ne meno di ciò che avviene nell'esistenza quotidiana, dove la notte ed il giorno si alternano (e certo per assonanza a tali alternanze così spesso il pittore napoletano ama giostrare le sue orchestrazioni segniche in bianco e nero).
In definitiva l'esercizio pittorico per di Girolamo è una sorta di rito in cui egli inietta le profonde componenti mistiche del suo sentire. I suoi dipinti sono una sorta di preghiere fatte con i colori, sono una specie di tavole dell'estasi mistica su cui con un alfabeto personalissimo, che può comprendere solo chi nella lettura si affida alle risonanze coscienzali e non alla mens concettuale, vengono scritte le sensazioni dell'io dell'artista.
Per tutti questi motivi, allorché egli non si lascia tentare dalle metafore fenomeniche, insorge la difficoltà di riferire attraverso i titoli i momenti dello spirito, per cui il dettato dello pneuma non può essere segnalato, come faceva l'autore nel 1991, quando ancora non aveva fatto ricorso all'uso della metafora nei titoli, che con la semplice indicazione del colore usato quale medium espressivo di un sentimento che sfugge a qualsiasi descrizione (Rosso su viola, Nero su porpora, Nero su blu, Nero su giallo, Bianco e nero n.3). Era d'altronde quello che faceva un altro mistico della pittura, dico Mark Rothko, il quale, tuttavia, anziché al colore-segno, aveva affidato il suo dire al colore-luce. Negli ultimi due anni dall'humus arato dai segni dell'alfabeto gestuale è cominciata a germogliare una nuova esigenza: l'esigenza della forma conclusa. E' così che nel 1993 di Girolamo ha cominciato a utilizzare le sue tele come moduli per determinare variazioni del corpus stesso della sua pittura, variazioni di libera praticabilità, com'era Composizione modulare n.1, che in diversi accostamenti di opere di varia cromia potevano passare dalla "catasta" sovrapposta ad una sorta di profilature afferenti all'idea di zigurat.
Con tale esperimento di Girolamo infrangeva con un sol colpo due gabbie del suo fare: quella del monocromatismo e quella dell'aniconismo assoluto. Infatti nel 1993 insorgeva da un lato l'esigenza del contrasto di campi cromatici differenti e dall'altro lato il bisogno di costruire figure, certo ancora geometricamente ideate (ad esempio quella stellare di Composizione modulare n. 4, che si presta anche a forme irradianti o a dentature irregolari, oppure quella a "cascatella" di rettangoli di Arpeggi in rosso, per non dire della composizione plurialata Decollo '93): si affermava così la necessità di un ritorno alla realtà, o meglio al traslato di essa nell'ambito di una concezione pitto-plastica che a mio avviso ha raggiunto il massimo risultato in quella sorta di piccolo agglomerato urbano che è Dimensione, colore e uomo del '93, a cui si sono collateralmente accompagnati tavoli in plexiglas col piano costituito da un dipinto in tessuto dalle trame segnico-gestuali tipiche del discorso di di Girolamo.
A tali esperienze è seguita un'ulteriore reificazione della pittura che, dopo la traduzione di quella zigurat, già precedentemente "disegnata" dalle tele di differente formato e cromia, nel tutto tondo di Colonne verdi, ha voluto cimentarsi nella pluralità delle forme turrite ordinate nello spazio calpestabile, com'è per Composizione in blu, sempre del '93, opera la quale allude ancora ad effetti urbanistici, questa volta costituiti dai grattacieli pitto-plastici dell'immaginario monocromo proprio di di Girolamo. Ed è piuttosto palese che tali grattacieli blu, intricati con la volta celeste, oltre che per il colore, sin nello stesso termine che li definisce, vanno considerati gli incunaboli di quel trittico di svettanti parallelepipedi che l'artista nel 1994 ha inteso individuare come i Pilastri del cielo.
Risulta chiaro già da queste poche note che di Girolamo è un irrequieto sperimentatore sempre alla ricerca di soluzioni altre e nuove, pur senza tradire l'assunto di base del suo gestualismo segnico. Sull'onda ditale spinta interiore egli nel 1994 ha saggiato morfologie espressive, ora ricorrendo alla dialettica tra tache e segno in una serie di opere (Rosso e blu, Blu e turchese, Verde e verde), tra cui la più suggestiva e, a mio avviso, maggiormente fertile di futuro è Evanescenza, ed ora attuando come una sottrazione di quell'accumulo cromo-segnico congenito dell'ottica dell'horror vacui, tipica di di Girolamo.
Ne è sortito un discorso di segnismo minimo, per certi aspetti calligrafico, che, dopo un primo approccio in negativo (mi riferisco alle ancor fitte tessiture svirgolate dei segni bianchi su fondo nero di Tornado), è sfociato nei lacerti (e stavo per dire sfilacciati) delle serrate ritmiche di un tempo, dove il segno, che sa anche raggiungere ritmi ariosi, com'è in Maturità, torna a farsi mera traccia in uno spazio neutro, in quanto non più intriso di colore. Tale diradazione delle ritmiche più che ad una sobrietà espressiva, certamente presente, attinge ad un nuovo scarto determinato dall'insorgenza della figura, a lungo preparata dalle precedenti esperienze del "figurare" geometrico. Insomma la dilatazione delle trame segniche ha obbedito ad una accresciuta pressione di un imperativo interiore: quello del recupero dell'immagine, ovverosia di un'immagine che solo di tra le brume segnico-gestuali potesse, seppur timidamente, riaggallare. E con Scomposizione '94, con Maschera, con Stupore, con Incontro, con Composizione '94 ed altri lavori del genere di Girolamo ha soddisfatto questa nuova esigenza, nella quale va rintracciata un'intenzionalità di recuperare l'uomo. Senza tuttavia rinnegare il segnismo gestuale. Ed è per quest'ultimo motivo che ai lacerti della tessitura segnica si mescolano lacerti figurativi, vere e proprie apparizioni intraviste che qua e là timidamente si affacciano tra le pieghe della cortina formata dalla grafia curvilinea, quasi stessero ben attente a non valicare le soglie dell'infinito, sostando nei regni del detto e non detto, che non vanno superati, per evitare il pericolo di cadere in un'incongrua figurazione che, come ben sa di Girolamo, lo farebbe improvvisamente regredire ad un passato dalle cui spire egli si è faticosamente liberato appunto con l'approccio al segnismo gestuale che era riuscito a trasformare quelle spire soffocanti in ritmati respiri di libertà e di stile.
Infatti, già nelle ultime opere del 1994, di Girolamo ha ripreso a tessere i suoi "campi" segnico-cromatici con una nuova attenzione alle atmosfere liriche della sua pittura, che continua ad essere risultato di quel serrato e ritmato colloquiare con il proprio io, che restituisce le indefinite varianti delle risonanze coscienziali attraverso tali brezze segniche, o, se si preferisce, tali marezzature cromatiche. E, alla stregua del poeta, dolce gli è il naufragar in questo mare.
 
Vitaliano Corbi, Antonio di Girolamo: tra i segni della pittura, in V. Corbi, G. Di Genova, Antonio di Girolamo, Edizioni Bora, Bologna 1996
[…] Ma il caso più interessante di questa irrequieta sperimentazione - che, come si sarà capito, è la faccia opposta a quella della ricerca di coerenza, cui è tuttavia sempre indissolubilmente legata - è costituito da una serie di composizioni modulari in cui di Girolamo non si limita a dipingere su pannelli componibili, ma trasporta la pittura su strutture tridimensionali installate nello spazio ambientale. Talvolta questi lavori fanno pensare ad un genere, abbastanza divulgato alcuni anni fa, che si suole designare col nome di 'pittoscultura', dove la pittura diventa la seducente pelle colorata della scultura. In realtà, quella di di Girolamo voleva essere un'esperienza molto più complessa ed ambiziosa. Se, infatti, da una parte si apriva a suggestioni figurali cariche di fascino, come in Dimensione, colore, uomo, del '93, particolarmente intrigante per il suo rimanere sospeso, con i suoi settantotto moduli variamente componibili, tra le sollecitazioni di un oggetto ludico 'praticabile' - qualcosa di non molto lontano da ciò che proprio a Napoli era stato fatto negli anni sessanta da alcuni objectmakers come Enrico Bugli e Salvatore Paladino - e la proposta di un fantasioso microcosmo metropolitano, dall'altra con un gruppo di opere, sempre dello stesso anno, essa tentava di fuoriuscire non solo dalla dimensione del quadro, ma da quella stessa dei luoghi deputati dell'arte, inseguendo forse il sogno, che era già stato delle avanguardie, di un'esteticità diffusa nella vita per il tramite di una produzione in serie o almeno di esemplari unici ma caratterizzati da una larga disponibilità di uso e di veri e propri mobili ed oggetti d'arredamento.
Non è azzardato pensare che la constatazione dell'impraticabilità di questo progetto abbia provocato un ritorno al 'quadro' con una maggiore carica emotiva. Accanto ad alcuni saggi di accentuato sapore grafico, come Maschera e Incontro, in cui par di scorgere qualche traccia di figura umana, accanto al felice risultato di Crocefixio, che traduce la tensione spirituale già affiorata in Infinito luce in ritmi meno declamati, facendo riassorbire l'esaltata effusione luminosa nel raccolto mistero dell'oscurità del fondo, di Girolamo dipinge nel '94 Profondo luce e Macchie di luce, Lacerazioni rosse e Lacerazioni verdi: tele d'una vitalità tagliente e persino aggressiva nell'asprezza dei timbri cromatici e nelle irritazioni che lacerano il tessuto segnico; un gruppo fortemente unitario, che anticipa, come già era accaduto con altre opere del '91, esiti più recenti. Ciò può far apparire alcune tele del '95, soprattutto la sequenza di Luci ed ombre nel rosso, Luci ed ombre nel grigio e Luci ed ombre nel blu, costruite con una vaporosa e delicata tramatura segnica, come una parentesi felice, ma più sul versante della memoria che dell'annuncio di nuovi sviluppi. In verità, si tratta di opere che insieme con Trasparenze, Arcipelago verde e Ceppi, sempre dello stesso anno, fanno pensare al bisogno di rivisitare un territorio che si sta per lasciare, ma da cui pare di sentire risuonare voci familiari. Ancora una volta si ha la conferma del procedimento caratteristico della ricerca di di Girolamo, che si potrebbe definire nei termini del duplice movimento husserliano della 'protensione' e della 'ritenzione'. Che è poi un modo di muovere verso nuovi orizzonti, ma conservando sempre una certa memoria del passato. Esemplare, in questo senso, è la serie di Ritmi e bande (nelle varianti rosse, verdi, blu, gialle e viola), dove su un impianto compositivo a larghe fasce, che modulano di volta in volta il colore indicato dal titolo dell'opera, si agita una folla di piccoli segni. Essi si direbbero provenire da quel tessuto che prima aveva un ruolo portante e che qui, al contrario, appare spezzato irrimediabilmente nelle sue maglie, frantumato e quasi ridotto a fremente pulviscolo grigio, sospeso in un fascio di luce che passa tra noi e la solida geometria delle bande colorate. Circumvoluzioni e bande nere, severo ed insieme gioioso nel rapporto tra i neri vellutati del fondo e la danza dei rossi e dei gialli, dei blu e dei verdi, proviene indubbiamente da questa serie. Ma se ne stacca energicamente, poiché qui il rapporto è capovolto a vantaggio dei segni, ricaricati d'una energia gestuale che restituisce loro, insieme con l'esuberante vitalità cromatica, anche la capacità di dominare lo spazio. E altrettanto naturale risulterà il passaggio successivo compiuto con Segno rosso e Segno verde, fermati in un sorprendente equilibrio tra la bellezza esibita del segno e la sua fluidità gestuale, in un incredibile incontro tra la citazione quasi letterale e la spontaneità inventiva che s'avverte nello scatto dell'immaginazione visiva. […]
 
Giorgio Di Genova, I ritmi della vita e dell'anima nel segno, in V. Corbi, G. Di Genova, Antonio di Girolamo, Edizioni Bora, Bologna 1996
[…] E' questo un momento molto suggestivo della produzione digirolamiana, che mette in pratica una personale declinazione del concetto di "opera aperta", proposto da Umberto Eco negli anni di egemonia dell'Informale. In questa fase della sua produzione non solo si sbizzarrisce con ricchezza di inflessioni l'inventività dell'artista napoletano, ma in talune opere si tramuta in religione la ragione di vita del far arte, all'inizio considerata. Infatti in questo periodo viene letteralmente edificata quell'aspirazione spirituale del suo essere che si è anche esplicitata in un fare che, al di là delle illuminations che accendono il centro di tanti quadri, esprime quel genuino sentimento di religiosità per cui di Girolamo è stato chiamato in mostre d'arte sacra, ottenendo pure che il suo dipinto del '94 Crocefixio fosse sistemato nella Cappella Palatina di Palazzo Reale di Portici. In questa opera l'affiato mistico, insito in gran parte del discorso di di Girolamo, si affidava nuovamente alle vibrazioni delle luci e delle ombre segnico-pittoriche, o meglio ai tremori cromatici suggeriti all'artista dalla Passione, e per questo l'opera ha per colore base il rosso. Ed ho detto nuovamente, perché già nelle reificazioni pittoplastiche del '93 l'aspirazione al cielo s'era manifestata nella possibile zigurat che poteva scaturire da Composizione 3 e più marcatamente nei colonnati in verde e azzurro (Colonne verdi, Colonne in blu), che avevano preparato la celeste e celestiale composizione I Pilastri del cielo (1994), che, dopo essere stata esposta in una chiesa, ora aspetta di illuminare la sala dedicata alla generazione dei nati negli anni Venti del Museo delle generazioni italiane del '900 "Giulio Bargellini" in Pieve di Cento, al quale è stata donata dall'artista.
Come rovescio della medaglia di questo momento plastico-architettonico, dalle forti valenze fisiche, anche tattili, c'è la serie di dipinti in cui di Girolamo, quasi per l'insorgenza di un complesso di colpa emerso nei confronti del suo essere pittore, ha diradato la tessitura del suo segnismo fino a renderlo bacillare (e qui è probabile che la sua formazione scientifica inconsciamente abbia avuto un suo ruolo). In opere del '94, quali la quadruplicata Maschera. Maturità. Stupore. Incontro o il dittico Astrazione in rosso. Astrazione in blu, come pure in Scomposizione '94 e Composizione '94, di Girolamo ha messo in coltura i suoi segni, quasi a volerne studiare i comportamenti, e per meglio renderli visibili è ricorso a metafore dei metodi utilizzati nei laboratori di analisi, tipo la fotosintesi (Lacerazioni rosse) e l'inoculamento nel brodo delle colture di liquidi che rendessero fosforescenti i segni-bacilli (Lacerazioni verdi). E in qualche caso il risultato è stato una specie di tatuaggio della superficie della tela, tatuaggio sincopato dai singulti segnici, come stanno a testimoniare Voli e vortici del '95 e Colpo di vento del '96.
In questa accanita ricerca della differenziazione nell'identico, imposto dalla coazione a ripetere, di Girolamo in continuazione non fa che cercare esiti, traendoli dal fondo dell'ormai acquisita sapienza e maestria del suo automatismo ben registrato e oliato dalla pratica quotidiana e dall'esercizio di anni attraverso cui s'è dotato di una grammatica del pittorico sua propria, nella quale colore, luce e segno costituiscono i sostantivi, gli aggettivi e i verbi, tutti concorrenti a creare una sintassi sempre più e meglio connotata in stile autonomo. E qui che s'evidenzia la natura, tutto sommato, sperimentalistica dovuta all'insaziabile irrequietezza di di Girolamo, che gli impedisce di adagiarsi sugli allori del risultato raggiunto. Ciò spiega le variazioni, profonde nonostante siano interne ad una fondamentale unitarietà espressiva a cui di Girolamo ha sottoposto la sua ricerca in una periodizzazione che è stata scandita dagli anni, quasi anno dopo anno, e che talvolta l'ha tentato ad un ritorno all'immagine in taluni dipinti, nei quali tra la fitta rete dei segni apparivano discutibili Sindoni, appunto. Forse, l'artista pensava, dopo aver felicemente pescato con la rete del suo segnismo l'oggettività nel mare magnum della pittura, di poter ripetere la pesca nei confronti dell'immagine, imbrigliandola con successo alla tramatura segnica come nel '93 era riuscito a fare nel felice connubio di fisicità e spazialità.
Anche questa passeggera tentazione doveva passare, per dar luogo e spazio ad un personale ritorno all'ordine segnico, connotativo del discorso avviato nel 1990. A questa sorta di rappel à l'ordre appartiene gran parte delle opere del '95, tra cui Ceppi, nonché le citate Trasparenze, La mia luce, Luci ed ombre nel blu, Luci ed ombre nel rosso, Luci e ombre nel grigio. Ma poteva nel 1996 un irrequieto sperimentale come Antonio di Girolamo proseguire pedissequamente sulle strade intraprese in precedenza? La sete di novità lo attanagliava nuovamente, per sfuggire alla meccanicità di un modo espressivo ormai dominato e codificato.
Già in Obelisco e in Steccato del '95 egli azzardava nuove morfologie. Nel '96 questa sete di novità tuttavia, finiva con l'investire ora il cromatismo (Dall'ombra alla luce, Intrecci di memoria), ora lo spazio nelle battute bipartite e quadripartite di Ritmi verticali e di Quattro tempi, il cui titolo rivela una volontà di temporalizzazione del quadro, soprattutto nella sua fruizione. Tutto doveva essere rimesso in discussione. E così di Girolamo sentiva dovesse essere. Se all'improvviso sembra determinarsi un recupero della diastole e della sistole, preparato dal blow up segnico di Acquamarina sul blu, ecco, invece, un nuovo scarto, simile a quanto col passare degli anni fece anche Capogrossi. Un segno tra i segni comincia ad ingigantirsi, proponendosi come iperbole del fondamento della stessa pittura digirolamiana in primo piano con la sua svirgolatura rossa o verde (Segno rosso, Segno verde). Insomma, un segno-bacillo ha fagocitato tutti gli altri suoi simili divenendo il padrone assoluto della scena. Così, dopo aver parafrasato in versione curvilinea il formicolante segnismo di Tobey e dopo aver tradotto segnicamente i colori-luce di Rothko, di Girolamo ha reso bacillare il segno gestuale di Hartung. L'iperbole non rimane mai fine a se stessa. Ha bisogno di nuovi sviluppi. Ed infatti il bacillo-segno ingigantito si fa primo passo verso le conformazioni amebiche di Oltre il rosso ed Oltre il blu, dove una cellula intessuta di segni è nettamente ritagliata sulla trama seguica del fondo.
Lo sperimentalismo di Antonio di Girolamo continua a non adagiarsi sugli allori del déjà trouvé. È sempre e senza sosta alla ricerca di un'altra soluzione, dopo la soluzione appena trovata. E il nostro pittore certamente non ha esaurito la sua vena inventiva. Anzi, ha ancora nella faretra della sua creatività molte frecce da scoccare col suo arco segnico, come anche queste ultime prove stanno a dimostrare.
 
Arianna Di Genova, "Antonio di Girolamo. Quelle scatole cinesi, "Arte In", giugno 1996
[…] I percorsi di segni che s'attorcigliano sulle sue opere in apparenza casuali, in realtà inventano uno spazio ritmico che nello stesso tempo rimanda a una traccia, una memoria umana, una "matrice" posta all'origine del linguaggio e quindi dell'espressione.
All'inizio c'è la brutalità del gesto informale, poi, nasce la "lettera", quell'anello della catena che, congiunto con gli altri genera il senso e si apre al mondo della comunicazione. Le parole e le possibili combinazioni del linguaggio sono infinite. Da qui parte di Girolamo e subito sceglie di percorrere all'inverso la via dell'Informale: dall'impulso esistenziale alla costruzione di un gesto-matrice. Pochi elementi (segni colori, luce) incastrati per un puzzle dalle mille soluzioni.
Con la serie delle Composizioni modulari del '93 I'artista disegna un alfabeto non solo visivo ma anche spaziale. Quattro o più tele, separatamente dipinte, vengono accostate e strutturate secondo diverse possibilità: a scatole cinesi, una dentro l'altra, in progressione di grandezza, oppure seguendo uno schema piramidale. Ma le varianti non si esauriscono qui.
Le Composizioni modulari possono giacere a terra, montate su guide scorrevoli o essere attaccate alle pareti, come tradizionali quadri. Infine, possono nascere su una base cromatica e quindi combinarsi in merito alle sue modificazioni (blu di differenti intensità, colori complementari, infiltrazioni improvvise di luce) e alla sua percezione (dallo sgranato effetto flou all'accesa vibrazione della tonalità più alta). Insomma, di Girolamo trasforma anche la rigidità della struttura portante - la superficie e l'intelaiatura del supporto - in un evento, in una performance. L'aut-aut della scelta è sostituito da una scansione temporale.
Non esiste un ordine geometrico a priori, non una tessitura, neppure a trame larghe, che possa accogliere le varianti del pensiero e delle emozioni una volta per tutte.
Ogni segno, seppure astratto, si "macchia" di storia, contiene e riassume in sé le due diramazioni della vita stessa: un'orma di esperienza personale e uno spessore universale.
L'accadere, lo scorrere del tempo, nelle opere di di Girolamo è affidato al colore, al suo espandersi e mutare in relazione alla luce. Tra gli ultimi lavori dell'artista, alcune composizioni monocrome in blu rimandano alla notte, ai principi nativi del caos, alla sospensione della coscienza in virtù di un evento spirituale. In altre, torna il rosso (anche mescolato al colore terrestre per eccellenza, pulsante, centrifugo, come a coniare uno sprofondare del rigore nelle sponde dell'Informale. E l'informale ricompare - pura citazione di una tecnica ormai abbandonata - come momento di respiro dell'occhio che si allontana dalla fitta griglia del pensiero. E' una pausa, un intervallo del ritmo un improvviso silenzio di segni. E' proprio di di Girolamo un metodo di lavoro che unisce la filosofia Zen (la capacità dell'attesa, la non forzatura dei significati delle cose, il lasciar fluire il senso dell'evento stesso) a una pittura anche calligrafica.
Al riguardo, è illuminante conoscere le radici di di Girolamo: l'artista ha assaporato le prime esperienze creative nello studio del padre restauratore e decoratore. Lì, tra gli odori di vernici, di colle e le luci soffuse e polverose ha potuto osservare il lavoro certosino di ricomposizione, le pazienti ricostruzioni di dipinti e mobili "in stile". Ha coltivato l'artifex che aveva dentro e anche quella curiosità ludica e infantile che è una premessa necessaria affinché scaturiscano inconsuete combinazioni e inediti alfabeti tra le righe dell'ordine già dato.
 
Ugo Piscopo, Pittura come schermo di autoanalisi, catalogo della mostra alla galleria MA, Napoli, novembre 1996
La chiave d'ingresso nell'opera pittorica di Antonio di Girolamo è in un folgorante appunto di diario dell'artista stesso, là dove egli ci consegna la confidenza che la sua attività è impegnata allo spasimo a intercettare la 'visualizzazione dell'invisibile tramite immagini, forme che nulla hanno a che vedere col concetto tradizionale di immagini".
L'attesa, però, e la contattazione della dimensione che si cela dietro la facciata del quotidiano si attestano non su un terreno di ontologiche consistenze di etimo, di proiezione e di sperimentazione mistici o di descrizioni storiche, ma su un'ontica appercezione, nel senso heideggeriano, dell'essere nell'Esserci. In effetti, non si può non raccogliere la suggestiva indicazione data, con una discrezione a punta di matita, da Luigi Lambertini in una nota di due anni fa, riguardo alla tensione esistenziale che investe e intride i dipinti di di Girolamo e li fa diventare documenti vividi dei sobbalzi e delle trepidazioni che si generano nello sprofondare ovvero nell'essere risucchiati tra i gorghi delle fenomenologie del Dasein.
Sembrerebbe configurarsi, così, un reticolo ideale affine a quello che è fondamento della pittura informale. Queste premesse, invece, sono solo sullo sfondo dell'inventio di di Girolamo, il quale si impegna a operare non per prendersi cura del tempo, tanto per servirci ancora di un'immagine di Heidegger, né per dimostrare teoremi di nuova investigazione del reale sotto l'aspetto dell'esserci. Piuttosto l'artista affonda nel suo fare, confidando in ultimo di ritrovare ed esaminare tracce di un vasto, profondo enigma che parla attraverso parole incomprensibili, che si manifesta attraverso forme irriconoscibili. E questa incomprensibilità e questa irriconoscibilità risiedono innanzitutto in noi, nel nostro verificarci sul filo della meraviglia, dell'angoscia, dello sbalordimento. Entro tale curvatura di esperienze, non si fanno sconti a inventari economici e plausibili, a linguaggi ordinari.
Di Girolamo agisce (o è agito?) in un paesaggio (la giorno dopo dì tutti i linguaggi, in mezzo a rovine, macerie, brandelli di linguaggio, non più rappatumabili o riciclabili. Ma tale è l'amore che egli porta alla vita, tale è la persuasione che un linguaggio non può comunque non esserci, non può infine non essere configurato e tentato, che egli prende a interrogare geroglifici, sismogrammi, brani di ecografie, a filtrarli attraverso schermi color amaranto, di cobalto, di lattescenze all'onice, ad agi tarli, a scuoterli, ad auscultarne le vibrazioni, per cercare se per caso non possano rinviare ad altre circostanze linguistiche, non accennino a probabili indicazioni. Ma, affondando lo sguardo in questi rinvii e in questi accenni, l'artista si accorge che anch'essi si sfaldano, si dissolvono e così liberano altri possibili percorsi verso l'inattingibile, verso ciò che e visibile unicamente nell'invisibile e nell'inenarrabile.
In una prima fase, di Girolamo procedeva per accumuli di tensioni, per esplosioni segniche, per rabbiosi avvolgimenti entro tessiture inconciliabilmente antitetiche.
In questa nuova fase che sembra aver imboccato, come ci propongono tutto un filone dell'ultima produzione e complessivamente le opere che sono in esposizione, ma che già puntualmente vari addetti ai lavori avevano cominciato a segnalare (Di Genova, Corbi, D'Antonio), di Girolamo sottopone come a decantazione il cinetismo e il dinamismo segnico, un po' da dripping, un po' da happening post-futurisra, perchè l'attenzione possa assorbirsi più intensamente su squarci monocromatici e monotematici, su rispecchiamenti dell'invisibile dove si raggrumano messaggi che tendono non alla componibilità e al rasserenamento, ma all'emblematicità e all'essenzialità.
In questa nuova organizzazione e impaginazione del linguaggio, sulla deflagrazione fa aggio il silenzio, sui referenti di superficie fanno aggio quelli segreti. In questo momento, di Girolamo sta apprendendo e insegnando agli altri ad apprendere che scegliere sé stessi nella latenza, nella profondità, nell'enigmaticità è un dono rivelatore, proprio come dice Kierkegaard. Il quale, in Aut-aut scrive: "Quando tutto è silenzio intorno a noi, [...] quando l'anima si trova sola in mezzo al mondo, di fronte ad essa appare non un uomo ragguardevole, ma l'eterna potenza stessa, [...] l'io sceglie sé stesso, anzi riceve sé stesso".
 
Lucio Solli, Antonio di Girolamo, "Terzo Occhio", dicembre 1996
[…] Anche quando questi segni allentano la loro morsa distanziandosi e frammentandosi in modo da non generare più questa problematica gravosa si può risalire da essi al dramma del groviglio. Ma in ogni caso il dramma trova una risoluzione, un riscatto, una sublimazione anche se, facendo scorrere lo sguardo su tutte le tele, ci si accorge che in alcune di esse è nascosto oppure marginale, ma presente. Il primo incontro, entrando nella galleria, avviene da una parte con Decollo in cui i segni tracciati su di una costruzione in legno di moduli triangolari, rimangono sospesi tra l'evocazione di una religiosità gotica e il colorato dinamismo di una segnaletica metropolitana; dall'altra parte con Infinito luce, una grande tela nella quale i colori, contendendosi i grovigli, si equilibrano con essi trasfigurando il tutto in una dolce apparizione mistica. E così di Girolamo continua: in altre tele i grovigli trasfigurano sé stessi: si distanziano e si frammentano, levitando con grazia; la quale si accorda con i fondi formati da bande contigue verticali, che modulano diverse tonalità dello stesso colore, altrove si distanziano senza frammentarsi, con un lieto chiarore, su fondi omogenei scuri; oppure scuri su fondi chiari, frammisti a forme fluttuanti, vorticando in accordo con esse, con levità.
Al centro della galleria un lillipuziano agglomerato urbano, Dimensione, colore uomo, ripete il drammatico delle tele con il labirinto di strade soffocate tra una folla di piccole costruzioni, riscattato però dall'aspetto ludico dell'insieme, cui contribuisce la vivacità dei colori e dei segni.
Ma il dramma riaffiora sempre: in certe tele i grovigli si affacciano sì gioiosi, ma su certi squarci provocati dalla rottura di pareti come cartacee; altrove sono illuminati nella parte centrale, mentre intorno rimangono nell'ombra, insieme ai fondi. E mentre di Girolamo sembra aver superato il dramma dei grovigli in quelle tele dove questi si riducono a pochi e grandi, o addirittura ad uno, lanciati in un dinamismo gestuale con una carica di cinetismo futurista, accade a volte che essi si mostrano dai colori vivaci ma altre volte grevi, e si muovono su fondi altrettanto grevi; e dietro ad essi è quasi nascosto un altro fondo, mosso e tormentato: il dramma incombe. Se riemergerà imponente, è prevedibile che in qualche modo l'arte di di Girolamo lo riscatterà nuovamente
 
Guglielmo Gigliotti, Il G. A. D. a Venezia, catalogo mostra galleria S.Gregorio, Venezia, aprile1998
[…] L'approdo a tale essenziale sigla grafica poteva sortire in autocompiacimenti sterili di chi, avendo trovato, non cerca più, un po' come avvenne per Capogrossi a partire dalla metà degli anni Cinquanta. Ma per di Girolamo non è stato così. Il grafico incurvato, nel pittore napoletano, si risolve in traccia minima quanto gravida di soluzioni linguistico-impaginative sempre nuove e sempre inaspettate. La tramatura segnica ingabbia soavemente il piano, senza mai soffocarlo; la polidirezionalità nella disposizione dei ciuffi lineari non induce mai a lettura confusionale, quanto a una costante e dinamica sollecitazione psico-visiva del fruitore; e la sinuosa eleganza insita nel tessuto ondulatorio rimane sempre nei limiti di una vigilata sensualità, che fa morbidamente corpo con la problematica strutturale dell'immagine, senza mai sommergerla. Il trionfo di un segnismo autosufficiente e sintatticamente articolato è tuttavia effetto di un'ulteriore conquista degli anni Novanta: la determinazione del valore autonomo della superficie. I gorghi filamentosi che carezzano il piano, infatti, non dialogano mai con improbabili profondità, non scavano mai illusorie tridimensionalità, ma investigano, per fitta scansione modulare, lo spazio concretamente artificioso del piano pittorico.
L'ultimo biennio, tuttavia, registra un interessante giro di boa nello sviluppo del discorso segnico del napoletano, una svolta che mira a decostruire l'impianto densamente reticolare delle composizioni precedenti, negando il continuum fluttuante e assottigliando la valenza strutturante dell'incastro curvilineo, attraverso lo sfibrarsi della compattezza segnica e lo sfrangiarsi, fin quasi a dissolversi, del telaio grafico. L'evento segnico, giunge, così talvolta a raddensarsi al centro del piano talaltra ad incarnarsi perentoriamente in un unico grande uncino, o ellissi interrotta che dir si voglia, integrando lo status di tracciato con quello di "figura" o di icona.

Eduardo Alamaro, Foulard di Napoli, "Artigianato", anno VII n. 29, 1998
Gli artisti, pittori e scultori, hanno sempre "fatto" - a latere della loro attività principale - felici oggetti d'uso con arte, nei quali hanno riversato la loro cifra stilistica. Ho sempre pensato che tale cifra "industriosa" rivesta una sua particolare originalità di applicazione in arte e/o di design artistico, e tutto ciò andrebbe meglio indagato con apposite iniziative editoriali e di mostre, ad esempio per la zona campana. In questa felice evenienza, della quale vado ponendo le basi, un posto di rilievo avranno i foulard di Antonio di Girolamo (Napoli, 1928), un pittore dell'area aniconica italiana particolarmente seguito da Giorgio di Genova, che parla di lui quale "portatore di un segnismo gestuale", e da Vitaliano Corbi ("l'astrazione, ... la pittura quale limite estremo, originario").
I foulards di di Girolamo, di seta, formato 90x90 cm., sono realizzati su appositi telai costruiti dall'artista e dipinti con speciali colori: i più semplici sono bicromatici i più ricchi arrivano a cinque colori; vere e proprie pitture da mettere addosso, sono stati esposti al palazzo Lomellini di Carmagnola (TO) in una mostra collettiva tenutasi nel mese di febbraio.
 
Giorgio Di Genova, Di Pasquale Di Fabio e del GAD d'oggi, catalogo mostra Palazzo Mediceo, Seravezza, maggio 1999
[…] Il viatico al fare aniconico a di Girolamo è stato dato dalla musica, linguaggio che nei suoi testi teorici, Lo spirituale nell'arte e soprattutto nel successivo Punto e linea sulla superficie, il russo Kandinsky, come accennato in precedenza, aveva accomunato ai colori e alle forme della pittura, riportando alla luce dell'analisi tecnica ciò che da secoli era già radicato nello spirito umano: non per caso si utilizzano termini musicali, quali "semitono", "armonia", "variazione", "modulazione", "contrappunto" ecc., per la pittura e, viceversa, termini attinenti alla pittura per la musica, in cui si parla di "colore dei suoni", di "chiaroscuro sonoro", per non dire che le note stesse, suddividendosi in crome, biscrome e semicrome, portano nel grembo stesso del loro semantema la nozione di colore.
Tuttavia Kandinsky prevalentemente si riferiva a forme geometriche ed a linee rettilinee e curvilinee, anche se in qualche caso introduceva la spirale, mentre di Girolamo, artista dominato da un'ossessiva connotazione legata alla coazione a ripetere, si affida alle svirgolature ed alle loro giustapposizioni e sovrapposizioni per ricavare variazioni cromatiche sul campo così "arato" dalla punta del pennello, variazioni che in ipso corpore della pittura traggono bagliori e ombre.
La sensibilità di di Girolamo, nonostante egli spesso nel pettinare le superfici della sua pittura con svirgolature ora più chiare rispetto al fondo più scuro, ora di diverso colore rispetto al colore di base, è tendenzialmente monocromatica. Il che non significa che nella sua produzione, accanto a quadri prevalentemente rossi, verdi, azzurri, neri, non compaiano opere impostate sul contrasto di due ed anche più colori. Anzi, proprio questo aspetto, a mio avviso, ribadisce l'insopprimibile tensione monocromatica del temperamento del nostro artista, il quale non fonde i colori ma li unisce a contrasto.
Dopo una totale immersione in questo universo totalmente pittografico, a lui abbastanza congeniale, come sta ad attestare il suo attaccamento alle opere in bianco nero o in grigio e nero, che appunto risultano le più grafiche di tutte, di Girolamo deve aver avvertito che la sua coazione a ripetere rischiava la monotonia, finendo per rendere la sua pittura troppo "scritta" ed in quanto tale defisicizzata in una aspazialità percettivistica che penalizzava la visione. E' così accaduto che ad un certo punto della sua ricerca egli ha cominciato a costruire opere modulari in modo che, da un canto, potesse ovviare alla monotonia del suo discorso, pur basato su dinamizzate svirgolature, attraverso la diversa possibilità compositiva degli elementi (si veda, al proposito, la serie delle Composizioni modulari del '93) e, dall'altro canto, potesse ridare fisicità alle opere e far loro riconquistare lo spazio reale, com'è nelle opere a pilastri e a colonne quadrate ed altre di variata oggettivazione, tra le quali, a mio parere, insuperata è rimasta quella sorta di veduta urbana, o meglio di "orizzonte" metropolitano, che è Dimensione colore, uomo del '93.
La volontà di uscire dalla ripetizione troppo ossessiva degli schemi in altri lavori ha spinto di Girolamo a iperbolizzare in positivo la low up il suo pattern espressivo, ora utilizzato in intrecci a girandola di pochi elementi ed ora reso protagonista singolarmente, per la verità, in quest'ultimo caso, con risultati non sempre del tutto convincenti per uno scarso dominio dell'esecuzione, cosa che invece è riuscito a ben calibrare quando li ha dipinti, con un procedimento degno di un certosino, su seta per ottenere suggestivi e stupendi foulard (ed era un passo quasi obbligato che, dopo tanto tessere segni sulla tela, egli trasferisse il suo fare su veri tessuti).
Tuttavia quest'esperienza, per un intimo corto circuito con l'oggettivazione delle opere modulari da comporre nello spazio fisico, ha funzionato per la visione di di Girolamo da scuola, propiziando nuovi tentativi, tipo quelli giostrati sull'accostamento di frammenti delle tessiture della sua pittura ritmo-segnica, frammenti che, guarda caso, sono nati in concomitanza con i suoi foulard, quasi per effetto di una sorta di boomerang espressivo. Ed era palese la smania di procedere nel rinnovamento del suo tipico discorso, smania che in altri momenti ha spinto il napoletano a nette dimidiazioni o sovrapposizioni sul consueto campo dell'opera, di parti dai definiti confini rettilinei e da oscuramenti cromatici, talvolta fino al nero compatto.
Tuttavia, nonostante l'afflato aniconico che permea tutte le sue opere di Girolamo è rimasto sempre emotivamente legato al sentimento della natura, che riaffiora sia nei quadri rossi, in cui in filigrana si possono intravvedere suggestioni delle colate di lava del Vesuvio, sia nei quadri verdi, in cui sono memorie dei prati a riemergere, e sia in taluni dipinti azzurri, in cui è il mare del Golfo di Napoli a spumeggiare. E in tal senso
rivelatori sono i lavori intitolati Colonne di fuoco, Risveglio, La pelle del bosco e Burrasca.

Nicola Micieli, Il fluire vitale dell'energia creativa, catalogo mostra Padiglione Pompeiano, Villa Comunale, Napoli, febbraio 2000.
[…]Ma all'iniziale impeto tellurico già nel '90 si alterna e in breve si sostituisce un più mirato intervento gestuale: l'automatismo del dripping stende una rete di colature grumose e filamenti sulle masse informi dei rossi e dei gialli eruttivi, mentre compaiono le prime ramezzature segniche "cavate" a grattage nel corpo della materia e articolate ritmicamente, come sovente suggeriscono i titoli stessi attinti ai tempi e ai movimenti musicali. L'indizio più significativo del mutamento di clima espressivo è tuttavia la comparsa di strisce o modanature o cornici a stesura che delimitano campi segnici simulando frammenti aggregabili in nuove composizioni, con una logica modulare la cui più compiuta applicazione sarà raggiunta nella splendida serie delle Partiture spaziali realizzate nel '99, da annoverarsi tra le più interessanti prove di astrazione tra geometrica e lirica, su base ritmica, della ricerca italiana contemporanea.
Si direbbero inoltre citazioni di uno spazio agito nello spazio convenzionale della pura astrazione, quei frammenti strettamente correlati alle modanature che li contengono e li qualificano: quadri nel quadro, e dunque elementi indicativi di una sorta di metalinguaggio che rappresenta l'insorgere di un'esigenza ordinativa, questa volta non antitetica, sibbene dialettica alla componente pulsionale.
La quale rimarrà fondamentale nel seguito della ricerca d'ora in avanti davvero ispirata alla pienezza espressiva, condotta con libertà sensibile ed estroversa; e nell'assoluto rigore formale, si succederanno e si alterneranno campiture totali di vibratili textures sia monocrome sia versicolori, proiezioni immaginarie nella dimensione cosmica, cui corrispondono ricognizioni ravvicinate e persino radiografiche della materia su un ventaglio inesauribile di patterns e di preziose cromie. La superficie pittorica diverrà pelle del bosco, del cielo, del mare, del crepuscolo, dell'autunno, dell'ombra, della terra, come una francescana lode al Signore dell'Universo elevata nel segno della bellezza creata, di cui si specchiano gli elementi e gli esseri, nella parola sonora delle creature, poiché davvero un canto di letizia, una panica sinfonia appare oggi la spiegata sonorità della pittura di di Girolamo. E per altro verso essa ricorda la solenne ampiezza di una cattedrale, trasparente per le immense vetrate che rifrangono la luce a rendere simile al cielo la casa dell'uomo.Per la gioia e la serenità dello spirito.

Vitaliano Corbi, I segni della vita e dell'Arte, catalogo mostra Padiglione Pompeiano, Villa Comunale, Pompeiano,VillaComunale, Napoli, febbraio 2000.
[...]La serie delle Pelli nel complesso della produzione artistica di di Girolamo occupa una posizione un po' appartata, al riparo dal calore di infuocate stagioni espressive. Si può supporre che un giorno del 1998 l'artista, fermatosi a riguardare alcuni suoi lavori degli anni precedenti, abbia sentito la voglia di rimetterli a nuovo e che, dopo qualche comprensibile incertezza, si sia deciso per un intervento non troppo avventuroso, che non mettesse a rischio la delicata qualità della pittura, ma anzi la valorizzasse, eliminando qualche effetto di ridondanza. Si è limitato perciò a coprire di bianco alcune zone della tela, facendo in modo che le altre, lasciate assolutamente intatte nella loro configurazione interna, si stagliassero con maggiore evidenza sul candido fondo. In realtà I'intervento ha provocato la totale ristrutturazione dei dipinti. Basta infatti uno sguardo per capire che questi, nella nuova versione, non si reggono più sull'ininterrotta continuità della tessitura segnica. La densa stesura dei bianchi, ritagliando il profilo delle superstiti isole pittoriche, ancora folte di segni e di colore, non solo offre un solido piano d'appoggio alle "pelli", ma stabilisce la partitura spaziale dell'intera opera. La pittura segnica non trova più libero corso sulla superficie del quadro, la sua estensione non coincide più con l'estensione di questo, ma si presenta come "citazione" e frammento superstite di un'opera perduta.
Di Girolamo ha chiamato questi ritagli di superfici dipinte La pelle del cielo, La pelle della terra, La pelle del bosco ecc., suggerendo l'idea di un'assonanza, in chiave vagamente fenomenica e memoriale, con le spoglie della natura, con le impronte visive dei suoi luoghi e delle sue luci. Ma egli sa che quelli da lui così salvati sono innanzitutto, e letteralmente, brandelli di pittura e forse l'aspetto più significativo di quest'operazione di recupero sta nel fatto che di Girolamo con un semplice intervento di cancellazione abbia messo in moto quel processo autoriflessivo, di ritorno critico della pittura su se stessa, che, pur essendo stato tematizzato da alcune correnti con un'insistenza sprofondata nella noia di presunti modelli tautologici, in realtà attraversa tutta l'esperienza artistica contemporanea, dalle avanguardie storiche in poi.
Le Pelli avviano, dunque, un processo che il Ciclo del fuoco ha poi portato avanti con qualche rilevante novità iconografica e con una metrica compositiva certo meno vistosa che nelle Pelli, ma più accattivante e insieme più rigorosamente scandita dal gioco della cornice proiettata nel quadro a restringere l'area fiammeggiante della pittura e dei segni, a spostarla lateralmente facendole perdere il privilegio della centralità. Nicola Micieli ha avvertito in pieno l'importanza di questo processo. Soffermandosi sulla fase immediatamente successiva della ricerca di di Girolamo, quella delle partiture spaziali, egli ha parlato di "una sorta di metalinguaggio" e vi ha visto affiorare un consapevole dialogo tra "un'esigenza ordinativa" e una "componente pulsionale". Che sia proprio cosi appare indiscutibile dagli esiti delle ultime Partiture, dove la scrittura segnica, consegnata entro qualche raro interstizio, contrappunta vivacemente la pacata diffusione delle luci sull'architettura dei piani colorati. E si comprenderà come l'andamento autoriflessivo della ricerca non sospenda le immagini nel vuoto della pura specularità mentale, ma, disponendole più sensibilmente ad accogliere sulla propria pelle le tracce del mondo, confonda con dolce e consapevole amicizia i segni della vita con quelli dell'arte.

Maria Corbi, Antonio di Girolamo. Partiture. "Terzo Occhio", giugno 2000.
Le " Partiture spaziali " di Antonio di Girolamo rappresentano, in un percorso espositivo di straordinaria eleganza, il momento conclusivo di una ricerca attraversata dall'esigenza di comporre la fluidità della tessitura segnica nell'equilibrio di armoniose strutture spaziali. […] Questo ciclo sugella l'irreversibilità del processo di contenimento del campo segnico e ne annuncia il decentramento compositivo mediante l'introduzione di bande scure laterali che lo fanno slittare verso uno dei bordi del quadro. Il passaggio decisivo avviene l'anno successivo con le "Partiture spaziali", che danno il titolo all'intera mostra. Qui la musicalità, un tratto della pittura di Antonio di Girolamo rilevato unanimamente dalla critica, non s'affida più all'andamento corsivo dei segni, alla loro incalzante, incontenibile e persino ossessiva diffusione, ma al movimento di molteplici, piccoli e ben delimitati campi, alla distribuzione ritmata di tasselli di segni e di luce che sembrano richiamarsi l'un l'altro e spostarsi armoniosamente lungo gli assi ortogonali che scandiscono la superficie del quadro.

Giuseppe Siano,"Flussioni" di mondi curvilinei e manifestazione di mondi"caotici" nel geometrismo astratto-infinetisimale di Antonio di Girolamo. "Terzo Occhio", dicembre 2000. […] La pittura di di Girolamo sottolinea come l'universo sia considerato oggi una indivisibile e temporanea unità formata da organizzazione di pure energie in costante e mutua trasformazione. Egli fa esplodere il contenuto. Seziona la forma, le rende astratta, la infinitesimalizza, liberandola dalla rigida assolutezza della sua organizzazione macroscopica nello spazio; ma questa non rinasce né sotto una suggestiva vitalità, quale poteva essere il segno magico primitivo, e neppure si ricicla sotto il segno dell'arabesco romantico. L'unica cosa che egli rinviene nei propri frammenti infinitesimali sono delle striscioline [o aree] caotiche. In esse si può rilevare la proposta di una recuperata vitalità dell'astratto creata da pure energie insite nella forma e nel colore e nella reciproca relatività. Forma e colore, dell'astratto geometrico e dell'astratto informale, sottolineano le continue fratture, tra ordine e disordine, sia nella organizzazione di di Girolamo che in quella organizzazione che scaturisce dalle teorie scientifiche sulla nuova costituzione del cosmo.

Vitaliano Corbi, I percorsi dell'astrazione a Napoli tra progettualità estetica e soggettività precategoriale, in" CHIAROscuro", anno I°, n°1, (pagg. 12-14), Nocera Inferiore (SA) 2001. [...] Quella dell'astrazione a Napoli è, dunque, un'area molto ampia e variegata, nella quale s'incontrano numerose personalità, tutte operanti entro un comune orizzonte di ricerca non figurativa, ma ciascuna con un proprio nucleo d'ispirazione e una propria cultura visiva. E voglio chiudere queste note soffermandomi su due casi particolarmente sintomatici della vitalità della ricerca astratta a Napoli. Il primo è quello di Antonio di Girolamo. [...] Al primato del segno si lega, dunque, quello della superficie pittorica che tuttavia non comporta, per di Girolamo, la totale rinuncia ai valori di profondità. La superficie su cui segno e colore tessono il loro fitto dialogo è piuttosto un approdo , che si porta dietro un un alone di spessori, un eco di vari luoghi , in un modo che sembra far nascere l'immagine pittorica da una musicalità interiore. …

Vitaliano Corbi, Le nostre Vele, catalogo esposizione Vele d'Artista, Lungomare Caracciolo ( a cura di V. Corbi e G. Segato ), Napoli, maggio 2001. […] Su questa stessa linea, ma più incline ad accogliere l'esigenza di una ricomposizione segnica dell'energia cromatica, si colloca il lavoro di Antonio di Girolamo. Il suo triangolo, rigorosamente inscritto nel perimetro bianco della vela, stringe a sua volta, nel proprio spazio, il tracciato fitto ed incurvato dei blu e dei rossi, frenando l'andamento espansivo dei segni nella salda geometria della composzione.

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