|
Antonio Di Girolamo - antologia
critica
Ugo Piscopo, La pittura: una ragione di vita,
catalogo della mostra alla galleria "Art & Image", Napoli, ottobre
1990
[…] Per anni, dunque, di Girolamo ha potuto operare in assoluta e totale
riservatezza, guardando di tanto in tanto quello che accadeva in quell'altrove
che è Napoli. Ha riempito tele a centinaia ed avrebbe continuato
a dipingere in privato, se un gruppo di amici non lo avesse obbligato
ad uscire allo scoperto. Eccolo, adesso, con una campionatura dell'ultima
produzione; sono lavori realizzati nell'impegno di un post-informale
vigorosamente trattato al riflesso ed al riverbero di accensioni cromatiche
colte in un flusso libero e aperto. L'attenzione si affaccia su scenari
contemporanei in dilatazione ed in crescita. Ma sullo sfondo della memoria,
inconsapevoli e resistenti glutini, resistono antichi suggerimenti del
Seicento napoletano, da Ruoppolo a Luca Giordano, fino a Salvator Rosa.
Sui richiami, però, l'occhio interviene a dilatare a macchia
d'olio il reticolo e la malinconia, che è insieme con la delicatezza
il sentimento fondamentale della vita di di Girolamo, a stendere un
velo di discrezione e di stemperata riservatezza.
Vitaliano Corbi, Attualità della poetica
informale, catalogo della mostra alla galleria "Art & Image",
Napoli, ottobre 1990
[…] Nei dipinti di di Girolamo la bellezza del colore, talvolta persino
sensualmente sontuosa, ma sempre venata da una sottile inquietudine,
si direbbe immedesimata con uno stato di fluida indeterminazione materica.
La forma non è più una preordinata rete di contenimento,
ma niente altro che la traccia dei percorsi che il colore stesso si
viene aprendo sulla superficie del quadro, suscitando l'impressione
di una spazialità dell'immagine ancora in via di costituzione.
Sembra così di trovarsi di fronte allo spettacolo di una sorta
di caos prefigurale, di assistere al coagularsi, al ribollire, all'esplodere
di una materia primigenia. Ma, in verità, questi dipinti non
alludono tanto a improbabili scenari cosmogonici quanto creano una dimensione
stranamente ambigua, sospesa tra l'apertura sul macrocosmo infinito
e la vertigine di abissi intuiti entro i tessuti della materia vivente.
Talvolta, tra i delicati tracciati e i violenti flussi di colore che
irrompono nel campo pittorico, tra i coaguli e le fibre, le macchie
e i filamenti di questa materia pulsante, s'intravedono suggestivi frammenti
della realtà naturale: soprattutto verdi che sono prati luminosi
e azzurri simili a scaglie di cielo. L'evocazione di queste immagini
del mondo non tenta di assestarsi nuovamente negli schemi della verosimiglianza
naturalistica, ma si sviluppa per linee divaganti, musicali in qualche
modo. Come, del resto, a valori musicali fanno spesso pensare le variazioni
di ritmo e di qualità timbrica del colore. Eppure, anche quando
la pittura di di Girolamo si direbbe decisamente avviata verso esiti
espressivi di gioiosa esultanza, si scopre in essa qualche inattesa
zona di dissolvenza cromatica, dove il colore si sfoca e s'annebbia
come per un interno cedimento, Segnali d'allarme, essi preannunciano
la svolta delle ultimissime e ancora inedite opere, nelle quali dietro
i filamenti di un colore di esile e irregolare tramatura la materia
pittorica ha dimesso ogni illusione di bellezza fenomenica, s'è
fatta scabra e arida, anzi, sprofondando verso oscure lontananze che
portano chi sa dove.
Maria Roccasalva, Colore come provocazione
di forme, catalogo della mostra alla galleria "Art & Image",
Napoli, ottobre 1990
[…] di Girolamo, infatti, attraverso il gesto vuole ritrovare e riconoscere
se stesso; e in quel gesto fa appello alle energie vitali che abitano
nel profondo del suo io, nella barbarie di ogni io. La sua è
l'esperienza primitiva, preumana, che il processo di alienazione non
ha potuto violentare. Ogni manata di colore è un minuto di vita
in più, un passo in avanti verso il ricongiungimento a se stesso,
una nuova vittoria. Il momento eroico del pittore è rivissuto
dalla coscienza della mano che opera. Di Girolamo ha ritrovato la preistoria
della mano. Ogni sua opera è la cosmica operazione di una genesi.
Il magma incandescente, che esplode squarciando il viola il cobalto
e l'azzurro cupo in tutte le loro infinite gradazioni, è la nascita
di un universo terrificante che non ha nulla di placido, nemmeno la
propria bellezza. E in questa deflagrazione cosmica che ingrossa i colori
e lacera le forme, non è la sola lotta primordiale delle forze
antagoniste della luce e dell'ombra ad essere evocata, ma il dramma
stesso dell'uomo conteso da queste forze. L'universo in formazione di
di Girolamo vuole essere preso, dominato, non contemplato; sembra quasi
che il pittore, nella essenziale asprezza della sua presa di possesso,
sia come in rivolta contro ogni forma di limiti. E una punta di collera
penetra in tutte le sue gioie. La superficie del quadro non gli basta
più; non è più un argine all'inondazione di quei
colori che vogliono vivere col sangue e il respiro di una carne.
I colori di di Girolamo non creano le forme e non le distruggono: le
provocano. Sono essi stessi una carne, ma una carne che ha una sua luce
e una sua energia. Ma malgrado quest'energia, questa freschezza e questo
lusso, i colori di di Girolamo non portano la pace, non conoscono le
gradazioni pacificatrici anche quando perseguono le sfumature, perché
quando si è discesi nel profondo di se stessi, il paradiso non
è più nemmeno uno stato d'animo.
Ed è qui il lato veramente interessante di questo pittore che,
a un certo punto della sua vita, quando ormai tutto sembrava disporsi
verso una conclusione serena, ha intrapreso un eroico duello col destino.
Vincerà? Perderà? L'importante è che lotti. E di
Girolamo non ha nessuna intenzione di lasciarsi sopraffare.
Gino Grassi, Fuga dalla realtà, "Il
giornale di Napoli", 25 ottobre 1990
[…] Probabilmente di Girolamo è giunto a questo tipo di ricerca
sulla forma e sul suo rapporto con la natura, dopo una singolare meditazione
surreale. Acutamente, a questo proposito, Maria Roccasalva scrive sul
catalogo: "I colori di di Girolamo non creano le forme e non le distruggono:
le provocano. Sono essi stessi una carne che ha una sua luce e una sua
energia. Ma malgrado quest'energia, questa freschezza e questo lusso,
i colori di di Girolamo non portano la pace, non conoscono le gradazioni
pacificatrici anche quando perseguono le sfumature, perché quando
si è discesi nel profondo di se stessi, il paradiso non è
neppure uno stato d'animo". Come a voler dimostrare che la ricerca di
questo introverso artista sembra legata ad un intenso pathos, causato
da una continua "auto-psicanalisi". Che conduce di Girolamo ad una snervante
ricognizione nelle parti più profonde di se stesso, ma che è
altresì tutt'uno con la gioia di fissare sulla tela i vari passaggi
di questo ripescaggio onirico.
Se dovessi paragonare con altri tipi di indagine pittorica questa ricerca,
che si coagula in immagini inconsuete e nelle quali il colore assume
l'autorità del protagonista, avvicinerei l'investigazione di
di Girolamo a quella degli espressionisti astratti americani, come ho
già detto in principio. Ma è evidente che l'artista non
guarda ai modi di fare pittura, bensì all'esigenza di
rappresentare ciò che osserva dal suo ristretto angolo visuale.
Che lo porta ad analizzare i ritmi e le congiunture alterne del naturale
e ad identificare, nell'unità dell'opera, quanto di positivo
e di negativo esiste sulla scena del mondo.
Giuliana Videtta, Armonie in lode della libertà,
"Il Mattino", 2 novembre 1990
[…] Nel corso del nostro secolo il rapporto fra pittura e musica è
stato ampiamente analizzato e teorizzato soprattutto dai pittori e soprattutto
sul versante dell'astrattismo; e ogni volta si è sottolineato
il carattere di libertà della musica, in quanto arte immune dal
bisogno di rappresentare le cose nella loro apparenza, capace di andare
al cuore della realtà, nella sua accezione più ampia.
Su questo cammino di libertà si pone la ricerca recente di di
Girolamo.
Una ricerca innanzitutto esistenziale, nella scelta esclusiva della
pittura e nell'abbandono definitivo della sua professione di pediatra;
una ricerca espressivo-formale, che affida al colore le risonanze della
vita. Realizzati con impeto gestuale, usando il pennello e le unghie.
la spatola e la tecnica del dripping, i dipinti ad acrilico
su tela e su tavola sembrano riconducibili ad un ambito informale: in
opere come Finale maestoso o Andante maestoso, entrambe
del 1990, il calore deflagra, esplodono i rossi, i blu, i neri, accendendosi
di bianco e di giallo; il pittore ora dà spessore alla materia,
ora asseconda le trame intricate del segno. In tal senso Vitaliano Corbi
ritrova nella pittura di di Girolamo alcuni motivi centrali della poetica
informale quali "il dramma della finitezza della vita, il carattere
di costitutiva contingenza della nostra esistenza", insomma "quell'idea
del tragico quotidiano che Mondrian aveva creduto di aver eliminato
per sempre dall'arte", e che proprio l'informale reintroduce, differenziandosi
dunque profondamente dall'astrattismo storico. Tuttavia l'insieme delle
opere in mostra rivela come la ricerca pittorica di Antonio di Girolamo
sia aperta a diverse direzioni, in un conflitto vitale: la tela non
è solo l'"arena" di cui parlava Pollock ma anche, ancora, "schermo",
superficie dura che si interpone fra l'io e la realtà, fra la
realtà e la pittura, sipario che il pittore fronteggia lottando
fra gli opposti desideri-paura di altrepassarla o restarne vinto.
Giorgio Di Genova, Storia dell'arte italiana
del '900, vol. IV, Edizioni Bora, Bologna, 1991, p. 582
[…] Ad un intreccio di ritmiche segniche curve è giunto nel 1990
Antonio di Girolamo, napoletano figlio di un pittore, che tuttavia solo
negli anni Ottanta s'è dedicato esclusivamente alla pittura,
attività in precedenza divisa con la sua professione. Le multiple
svirgolate segniche erano cominciate a configurarsi in alcuni acrilici
su tela del 1989, che venivano come pettinati da questi dinamismi segnici
a restituire la sensazione del "mosso" musicale (Senza titolo,
Leux d'eau). Chiaramente, come autodidatta, di Girolamo più
che allo stile in questo periodo si affidava all'impulso, un impulso
pittorico che, nonostante le sue connotazioni di sfogo liberatorio,
con l'esercizio portava il nostro pittore a raggiungere i primi risultati
di autocontrollo per indirizzare lo spontaneismo in direzione di espressione.
Di qui è scaturita, a furia di provare e riprovare (perché
di Girolamo, forse per recuperare il tempo perduto, è un accanito
produttore di opere), lo stile. Uno stile che sostituisce alle esplosioni
cromatiche campi monocromatici o tendenti al monocromo ed al dripping
calligrafismi segnico-gestuali in negativo o positivo, che, se ricordano
certe esperienze fatte da Strazza negli anni Cinquanta (e penso a Compenetrazioni
del '55), tuttavia non hanno nessun esito di dinamismo post-futurista,
come per Strazza, bensì possono essere considerati come una personale
rimeditazione su Hartung. La fitta trama così ottenuta da di
Girolamo vibra di una vitalità senza sosta che rivela al suo
interno un abbandono all'automatismo esecutivo che s'avvale della coazione
a ripetere per ricondurre a ritmi meno convulsi i precedenti ribollimenti
del colore.
Ennio Concarotti, I miei paesaggi, catalogo
della mostra alla galleria "La Meridiana", Piacenza, Maggio 1991
[…] Si ha l'impressione di una vibrazione "animistica" della materia
cromatica impiegata nell'esteriorizzazione pittorica e cioè di
una presenza, nel colore, di verità, simboli e messaggi misteriosamente
erranti al di fuori dell'immagine visiva e in attesa di essere scoperti,
interpretati e rappresentati dall'artista. Nasce la filosofia del rapporto
colore-spiritualità che, appunto, segna l'area dell'informale
espressionistico su cui già Nolde, in deliranti confessioni,
si pronunciava con appassionata e quasi mistica convinzione.
E' un rapporto che, comunque sta cambiando in termini di intensità
anche in di Girolamo (come appare evidente da un confronto antologico
delle sue opere) sempre più asciutto e magro nelle tracce figurative
e sempre più intenso e partecipe in un'operazione di valorizzazione
di un'energia mentale e spirituale che sta nel pulsare stesso della
vita. La sua esplorazione materica non è più scontro e
contrasto di macchie, fibre, coaguli, schegge, filamenti e vampate di
colore ma è più profonda e pacata conquista di traguardi
e certezze. I ritmi del colore non sono più deflagranti e aggressivi
ma si sono fatti più fitti, intrecciati, unitari, compenetranti,
il loro battere sulla tela appare coinvolto in una larga e pensosa musicalità.
Certe clamorose e vulcaniche pagine della sua pittura si sono asciugate
al vento di una riflessione sempre più essenziale e penetrante.
Vitaliano Corbi, Orizzonte di precarietà
nella pittura di Antonio di Girolamo, "lmages Art & Life", ottobre
1991
[…] Il segno della pittura di di Girolamo, con il suo rapido inarcarsi,
pare spesso scattare dalla superficie del quadro per uncinare lo spazio
sottostante e catturarne gli umori che vi circolano, assorbire il movimento
delle luci e delle ombre e farla defluire versa il primo piano. Esso,
pur nella immediata riconoscibilità del suo ductus, non
è mai monotono e meccanicamente ripetitivo. Nel suo rapporto
con l'intero contesto pittorico si realizza una tessitura di percorsi
molteplici e mutevoli, che disegnano, specialmente nelle opere di maggiore
omogeneità cromatica, strani paesaggi della fantasia, in un pullulante
incrociarsi di rilievi e di valli, di morbide e intricate sporgenze
villose, di inattese simmetrie geometriche emergenti dal turbinio di
innumerevoli tracce ricurve.
Lo stringente dialogo che nelle opere di di Girolamo viene intessuto
tra i valori di superficie e i valori di profondità riassume
in parte anche i termini della vicenda storica della pittura contemporanea,
del suo perdersi dietro l'antica illusione dello spazio tridimensionale,
che sia prolungamento e specchio di quello della vita, e del suo vigile
attestarsi sulla perfetta bidimensionalità della superficie,
a difesa della purezza dei valori pittorici, esibiti nella loro nuda
flagranza fenomenica.
L'importanza delle opere dipinte da di Girolamo nel corso del 1991 sta,
dunque, prevalentemente in una felice ricerca d'equilibrio, di una misura
che componga ed armonizzi opposte tensioni, senza tuttavia spegnerne
l'impeto. Questa ricerca s'è venuta svolgendo con passaggi e
spostamenti continui, mai, però, bruschi e clamorosi, sempre
tali, anzi, per l'intelligente discrezione con cui sono stati condotti,
da poter persino sfuggire ad un osservatore distratto. Il segnale che
ne deriva è di una bellezza sottilmente perturbata dall'intuizione
d'un orizzonte di precarietà in cui quei passaggi e spostamenti
rivelano un riferimento al di là della dimensione virtuale dell'arte.
Che è, poi, un'allusione alla nostra vicenda esistenziale, al
suo essere niente altro che un'emergenza precaria, ma non per questo
meno luminosa e bella.
Luigi Lambertini. Metafora e segno in Antonio
di Girolamo, "Terzoocchio", dicembre 1991
[…] Adesso il discorso si è fatto più serrato. Dal gesto
e dalla sgocciolatura di Girolamo è passato al segno che circoscrive
come una parentesi quello spazio mentale e reale che il segno immediatamente
precedente ha a sua volta definito. E' un segno che si basa su di un
continuum nel variare di quelle che possono apparire come delle
sfaccettature, nell'articolarsi quasi a ventaglio di queste porzioni
scandite le une accanto alle oltre, le una sulle altre.
E' un segno che definisce quasi semanticamente la propria realtà,
anche se i motivi e le urgenze che lo hanno dettato sono intimamente
legati alla vicenda personale di Antonio di Girolamo. Ecco allora prendere
corpo una sorta di struggente metafora che ci svela i più profondi
meandri di quel viaggio al fondo della notte che ci attende e le cui
tenebre tendono ad avvolgerci, negando ogni spontaneo ed irrinunciabile
anelito alla luce.
Luce e tenebre in una dialettica continua: una tesi, una affermazione
che viene contrastata automaticamente da una negazione, da un'antitesi
e senza soluzione di continuità. Ecco perché i colori
hanno perduto le loro precedenti caratteristiche di tipo naturalistico
e sono divenuti sempre più realtà mentale. Sono, in altri
termini, il prodotto di una ricerca che tende a legarsi senza via d'uscita
- altrimenti si rischierebbe una sterile tautologia - ad un'indagine
che ha per tema il linguaggio del colore e del suo divenire quale strumento,
quale mezzo per manifestare un preciso dasein, un preciso essere nel
mondo.
Marzio Dall'Acqua, Antonio di Girolamo. Forme
del profondo, catalogo della mostra alla galleria "Vicolo del
Quartirolo", Bologna, febbraio 1992
[…] Le opere di di Girolamo presuppongono, nonostante l'apparenza, un
rapporto diretto con la natura, quindi con la vita, per cui la tensione
delle sue tele tende e diventa emozione, sentimento, mai contemplazione.
Non ammettono occhi indifferenti, ma obbligano al coinvolgimento, all'empatia,
alla compartecipazione emotiva ad un evento che avviene davanti a noi.
Tensione quindi che è nell'operare stesso dell'artista. Un'opera
nasce come urgenza, come necessità, come impulso del dire, quasi
come annullamento dell'artista totalmente preso dal fare che affiora
dal profondo. Ma tensione anche come equilibrio. Rispetto all'action
painting, alla pittura gestuale, alla quale di Girolamo si apparenta,
egli è e rimane un "classico". Classico nella contrapposizione
tra forme ed evento, tra fenomeno e realtà, tra natura ed artificio,
tra essere ed assenza, tra stasi e dinamismo. Questo binomio, questa
dualità sono in perpetuo, delicato e precario equilibrio. Della
classicità si avverte la necessità di strutturare, di
dar ordine, persino talora, il calcolo matematico e prospettico delle
forze in tensione; il timore della rottura irreparabile, dello sbilanciarsi
a favore di una soluzione sull'altra. Il controllo della forma è
anche autocontrollo delle emozioni, delle energie psichiche, non ammettere
esplosione, gesti irreparabili. E' controllo ed equilibrio formale,
esaltazione dell'operazione estetica non vissuta come individuale viaggio
nell'indicibile, ma come dialogo, confronto con chi guarda, colloquio
su ciò che accomuna più che separare e dividere.
Mediterraneo di Girolamo è anche per il valore che la luce ha
nelle sue opere, che proprio sulla atmosfera, sulla luminosità
costruiscono e costituiscono una sottile, persistente e significativa
riflessione. Luce interiore, ma anche naturale armoniosità del
colore.
Riccardo Notte, Di Girolamo, ritmo e musica
in pittura, "Roma", 5 maggio 1992
[…] Ma per quei casi ineluttabili che designano col nome di "destino",
di Girolamo divenne medico chirurgo, conservando soltanto nel segreto
del suo studio i segni dell'innata passione; in solitudine l'artista
passò dai primi tentativi figurativi a raffigurazioni di impianto
sintetista fino a quando la maturità espressiva non gli svelò
il fascino delle pure forme astratte.
"Quando avrò detto che molte tele di Antonio di Girolamo hanno
titoli mutuati da componimenti o movimenti musicali - toccata e fuga,
pavane, presto con fuoco, andante mosso, andante maestoso eccetera -
avrò spiegato meglio la singolare suggestione che me ne derivò".
Così Michele Prisco nella prefazione al catalogo. E non a caso.
La recente produzione del pittore si può facilmente accostare
alle esuberanze musicali di un Ciurlionis o, ancor più, ai primo-novecentisti
"stati d'animo disegnati" di Giuseppe Steiner, senza citare i tanti
noti artisti che dai trasporti aerei della musica hanno tratto materia
d'ispirazione.
Di Girolamo dipinge oggi reticoli caotici prevalentemente impostati
sui ritmi, curvilinei e spiraliformi, secondo un dichiarato antiplatonismo
che anche in questo caso affonda le sue radici lontano; e basti pensare
all'impennata di un Boccioni, il quale, introducendo la bergsoniana
"durata", disarticolò l'intellettualistica impostazione spaziale
dei cubisti.
Dunque, durata e musica, dinamica del contrappunto e vita nel suo eterno
travolgimento, in queste opere del pittore napoletano Antonio di Girolamo,
outsider dei grandi circuiti dell'arte ma sincero interprete della sua
interiorità.
Angelo Trimarco, Di Girolamo il fitto intrico
dei colori, "Il Mattino", 10 novembre 1992
[…] La pittura come pratica di vita. Sembra un luogo comune, ma per
alcuni è un bisogno, una necessità, un desiderio. Certamente
lo è (lo è diventato sempre più con il tempo) per
Antonio di Girolamo. Un esercizio che offre ora risultati credibili,
come dimostra la sua personale al Maschio Angioino.
Conosco il suo lavoro da quando, con molta determinazione, dopo un paziente
tirocinio, ha provato a raccontare il suo teso rapporto con le cose,
le gioie e le sofferenze, affidandosi quasi esclusivamente al colore,
ai grovigli di materia, all'infinito intrattenimento del bianco e del
nero, del rosso e del viola, del giallo e del blu.
Pittura materica, superfici di grandi dimensioni attraversate da un
fitto intrico di segni, di filamenti che si avvolgono per sciogliersi
subito dopo in altri segmenti e pezzi di storia: certo, è questo
il discorso che l'artista napoletano propone con sottigliezza e rigore,
senza eccitazioni e allarmi, senza gesti oltre la linea. Invece, "per
evocare di volta in volta un momento interiore in chiave lirica", come
suggerisce Michele Prisco nel testo di accompagnamento.
Donatella Ariotti, Antonio di Girolamo, "Terzo
Occhio", marzo 1992
[…] di Girolamo, nel suo fare artistico, ha toccato vari aspetti dell'espressione
pittorica, dall'informale all'espressionismo astratto, aspetti sentiti
ed elaborati intimamente e non quindi ripercorsi secondo una prassi
"citazionista" o culturale. Così, anche la produzione che fa
immediatamente pensare al dripping pollockiano o alle fiamme
di vibrante colore spatolato che connotano i quadri dai titoli di ispirazione
musicale (Andante maestoso, Presto con fuoco, Finale) va
vista come necessità non più rimandabile di liberare un'esuberanza
artistica troppo a lungo repressa. "Ho vissuto attraverso microscopiche
lesioni della mia crosta, come vulcano attivo privo del suo cono di
eruzione", afferma di Girolamo nel catalogo per la mostra all'"Art &
Image" di Napoli, e le sue parole sono una dichiarazione magistralmente
rivelatrice.
Dal '91, in seguito a sofferte vicende personali, all'esplosione vitale
precedente di Girolamo sovrappone quasi una "griglia contenitiva" (tracce
ora monocromatiche, più spesso nere ragnatele) che viene a velare,
a volte a negare disperatamente l'illusione dell'esistere umano, che,
bruciando, tramuta ciò che tocca in cenere. Questa "griglia"
costituisce la cifra stilistica di di Girolamo e presenta difficoltà
ad essere semanticamente definita. E' un groviglio, un vortice? Sono
spirali di galassie in formazione? O sfregi che cancellano il "quadro"
sottostante? A volte è la voluta di fumo del falò che
incendia le speranze terrene, in altri casi si fa schermo e filtro,
assumendo forse lo funzione della siepe dell'infinito leopardiano.
Certo è che quando la cifra stilistica, allentandosi, si fa meno
compatta, il colore può diventare puro respiro luminoso e lanciarsi
verso l'alto quasi a sforare la tela nel tentativo di recuperare la
speranza e divenirle cantico di ringraziamento.
Giorgio Agnisola, Antonio di Girolamo,
"Terzo Occhio", dicembre 1992
Senza nascondere ascendenze e debiti, I'arte di Antonio di Girolamo
possiede una sua autonoma valenza, un suo rigoroso e coerente registro
di soluzioni intuitive e visive, che è doveroso testimoniare,
partendo dalle radici della sua ricerca e dalle motivazioni psicologiche
ed emotive che ad essa sono connesse e sottese.
C'è, innanzitutto, nel progetto espressivo di di Girolamo, la
suggestione della misura nitida e finita dell'immagine segnica e visiva:
una misura che corrisponde ad una cifra simbolica, ad una metafora che
supera il bilancio propriamente emotivo dell'immagine, sebbene il dato
sensibile, la risonanza del contesto visivo in termini emozionali, sia
alla base del suo dettato espressivo.
Ciò spiega che l'arte del pittore napoletano è, sì,
derivata da un coacervo di sensazioni estetiche, da una sensitività
diffusa, vibrante che determina una disposizione creativa al ritrovamento,
piuttosto che alla interpretazione, ovvero alla investigazione in attesa
dell'evento che è l'arte nel suo svelarsi, nel suo corrispondere
alla sensibilità e all'intelligenza, ma anche e direi soprattutto,
legata ad una soluzione espressiva d'ordine progettuale, ad un'esperienza
propriamente intellettuale. All'interno di questa fisionomia stilistica,
di questo spazio prospettico, si direbbe che di Girolamo recupera una
trama pittorica fatta di espressioni segniche variamente addensate,
quasi sempre avvolgenti a ritmo largo o serrato, cromatiche o meno,
che restituiscono all'occhio una soluzione di spazi lievitati, morbidi,
sensuali, musicali, solo in parte penetrabili e tuttavia calibrati nello
sguardo d'assieme, rigorosi si direbbe, rigidamente e nitidamente raccolti
all'interno di una circostanziata, definita, geometrica area visiva.
Ada Patrizia Fiorillo, Necessità della
ricerca nell'opera di Antonio di Girolamo, "lmages Art & Life",
aprile 1992
[…] Che fosse poi solo un passaggio e mai una forma di epigonismo indotto
quel suo apparentarsi alle matrici di un linguaggio informale lo si
vede oggi alla luce di una raggiunta cifra stilistica che ha moderato
in parte le incursioni di una prorompente carica emotiva a vantaggio
di una nuova griglia rappresentativa. Ai convulsi andamenti cromatici,
di Girolamo ha sostituito campiture di segni che giocano su una forte
riduzione tonale il più delle volte affidandosi al contrasto
morbidamente e sommessamente dichiarato di una bicromia percettiva.
Attraverso segni accelerati che danzano in uno spazio virtuale abitato
dai colori del giorno e della notte, della luce e delle tenebre, gli
ultimi lavori dell'artista, che datano tutti al 1991, hanno certo varcato
la soglia di una cosciente misura rappresentativa. Privilegiando questo
nuovo espediente formale fatto di segniche gestualità, ora prodotte
però ad una temperatura abbassata, queste opere scandiscono infatti
i tempi e le pause di un processo mentale che racchiude i vuoti e la
memoria, il presente e la storia, l'essere e l'esistere. Un segno mobile,
flessuoso, ritmico, che non cede mai alla piacevolezza di una cifra
puramente decorativa, si fa medium dialogativo tra il sopra e il sotto,
tra ciò che si mostra e ciò che si nasconde, tra ciò
che si è percorso e ciò che si percorre. Superficie e
profondità rappresentano, infatti, in questa nuova fase operativa,
i due termini estremi contro i quali di Girolamo fa confluire il suo
ductus pittorico, fatto di trame intricatamente tessute, tanto
che a dipanarle difficilmente si troverebbe il capo. E' perché
del resto, se il gioco dell'artista è tutto lì in quello
scambio osmotico tra piano e fondo, tra l'animosità serpentina
dei segni e il pacato affiorare di tracce remote, ma anche tra un alto
e un basso e cioè tra un positivo e un negativo che si dà
nella divisione di opposte riduzioni cromatiche. Un gioco quindi condotto
nell'obiettivo di un ricercato equilibrio che nella formula di una raggiunta
eleganza formale, è pertanto difesa dei gesti, dei pensieri,
delle emozioni che abitano la nuova dimora a lui nota. L'artista ha
infatti equilibrato le composizioni ma non ha esaurito l'esigenza del
dire e del fare, né quella del cercare; quest'ultimo forse l'ideale
più bello e più vero di di Girolamo: lo riguadagna al
tempo perduto.
Michele Prisco, Le spirali di Antonio di Girolamo,
catalogo della mostra alla Sala Carlo V del Maschio Angioino, Napoli,
ottobre 1992
S'è trattato d'un caso o d'una semplice coincidenza? Oppure d'una
sorta di segreto influsso tanto involontario quanto altrettanto allusivo?
O, addirittura, di una specie (per me) di premonizione? Un fatto è
certo: ad accompagnarmi per la prima volta a vedere la produzione di
Antonio di Girolamo è stata una sensibilissima musicista: pianista,
per la precisione. E quando avrò detto che molte tele di Antonio
di Girolamo hanno titoli mutuati da componimenti o movimenti musicali
- toccata e fuga, pavone, presto con fuoco, andante mosso, andante maestoso,
eccetera - avrò spiegato meglio la singolare suggestione che
me ne derivò. Non voglio dire con questo che la pittura di Antonio
di Girolamo tenda ad esprimere - o realizzare - attraverso la concatenazione
dei colori la concatenazione (e l'organizzazione) dei suoni propria
della musica; voglio dire che i ritmi compositivi dei quadri di Antonio
di Girolamo partecipano di una loro latente - ma non troppo - musicalità.
Astrattismo onirico si potrebbe definire il modo di far pittura di Antonio
di Girolamo: e certamente quello che più colpisce, nei lavori
dell'artista, è quel giuoco di reticoli che coprono la tela e
separano e al tempo stesso accompagnano il colore distendendosi entro
gli stretti spazi ottenuti dall'aggrovigliarsi dei segni con una loro
a volte drammatica luminosità. All'apparenza queste tele sembrano
dei monocromi, o al più realizzate con due colori (il nero sul
bianco, il bianco sul nero, il nero sul verde, il verde sul giallo,
il giallo sull'azzurro o sul blu, l'azzurro o il blu sul rosso, il rosso
sul viola, il viola sul nero, e così via, come in un fantasmagorico
girotondo); ma ad osservarle meglio, quale e quanto (e quanto prezioso)
brulichio di toni vien fuori dal libero impiego di queste spirali che
s'incurvano, s'infittiscono, si sovrappongono, si scontrano, si sfuggono,
obbedendo - nonostante tutto - a una loro intima razionalità.
E insomma spazio e colore, in di Girolamo, risentono di una vitalità
metodica e intuitiva al tempo stesso, riflettono in altre parole le
situazioni di una fantasia che nasce come l'unica maniera di reagire
ai fatti della vita. Così che se volessimo dare un nome al discorso
interno che ne guida la ricerca espressiva potremmo definire la pittura
di Antonio di Girolamo "l'organizzazione dello spazio".
Perché spazio e colore, c'è da aggiungere, sono in lui
termini coincidenti modulati per evocare di volta in volta un momento
interiore in chiave lirica, ma d'un lirismo che non esclude, e anzi
molto spesso stimola, il brivido di sottili inquietudini. La sapienza
cromatica di di Girolamo, infatti, si è affinata, nel corso di
un assiduo intenso lavoro, sino all'elaborazione di stesure vibranti
per magiche effusioni luministiche, che concorrono a precisare la molla
iniziale che ha sollecitato l'artista all'avvio di ogni singola opera,
e in tal modo il sistema astratto delle forme comunica con assoluta
limpidezza e incisività.
Non solo; ma si ha l'impressione, di fronte a queste tele, che di Girolamo
dipinga con assoluta libertà, quasi senza elementi ordinatori
del quadro, raggiungendone la simmetria unicamente nell'impiego e nell'apporto
del colore e abbandonando del tutto la sinopia del disegno o in ogni
caso riducendola alla presenza d'un groviglio di segmenti quasi sempre
curvilinei, che rappresentano solo un passaggio (o una pausa, se preferite)
da un accostamento di colore a un altro, e restituendoci in tal modo
un "ordine" di immagini visive che costituiscono per noi il supporto
per una lettura più razionale del suo mondo interiore o diciamo,
più semplicemente, per una ricognizione della e sulla realtà.
Anche per questo le sue tele così cariche di silenzio e ricche
di una straordinaria unità di ritmi e di strutture finiscono
col coinvolgerci e trasmetterci quell'emozione che solo un'arte matura
e consapevole oggi riesce o comunicarci.
Luigi Lambertini, Il segno-colore di Antonio
di Girolamo, catalogo della mostra alla galleria "Gnaccarini", Bologna,
gennaio 1994.
[…] Lasciatesi alle spalle tele di particolare risonanza come Nel vento
del futuro in cui il rosso violento e il nero creano una dialettica
d'insieme densa e profonda ad un tempo, Ritmi e antitesi, formato
da due tele accostate - e non è certo la prima volta che di Girolamo
ricorre ad una simile contrapposizione o separata integrazione - il
cui dialogo è costituito da un sottile e sensibile rimando fra
positivo e negativo che porta automaticamente ad uscire dagli spazi
di ciascun dipinto, ci troviamo di fronte nell'anno successivo ad una
serie di opere con le quali il pittore ha definitivamente mostrato di
volere superare, ed in maniera oggettiva, i confini della bidimensionalità,
sia pure aperta verso ulteriori realtà tramite il pluralismo
di prospettive mentalmente suggerite e provocate. Infatti, dopo la serie
concatenata delle Espansioni (1-2-3-4-5) in cui i colori timbrici
hanno come ceduto il passo a tonalità più soffuse e distese,
egli è venuto via via costruendo quelle che ha chiamato Composizioni
modulari e in un secondo momento vere e proprie Installazioni.
Si tratta nell'un caso come nell'altro della disponibilità
che viene offerta al fruitore di comporre a piacimento l'opera modificando
la disposizione e la collocazione dei singoli moduli da cui essa è
stata costituita. Il primo degli esempi, che è il caso di proporre,
è la Composizione Modulare n.1 (1993) formata da cinque
moduli rettangolari che possono essere, a seconda dei casi, accostati
a mo' di quinta, sovrapposti quasi a formare una specie di ziqqurat
oppure intercalati gli uni agli altri a seconda che si preferisca questo
o quell'abbinamento. I colori e le forme allora vengono ad integrarsi
ed anche a contrapporsi in modo vario e tale da provocare, a seconda
delle disposizioni scelte, sempre rinnovate suggestioni e sollecitazioni
poetiche.
La campitura di ciascuna superficie entra in relazione con le altre
ed i colori, che siano timbrici o tonali, proprio da tali rapporti acquistano
una carica diversa ed i loro ritmi vengono percorsi da nuove vibrazioni.
Quella dinamica già individuata pertanto, trova una carica che
prima non si poteva certo prevedere. Lo dimostra appieno la Composizione
Modulare n.4, grazie ai suoi sei moduli triangolari. La forma, una
volta di più, in questo caso - meglio, la variazione delle forme
che si possono ottenere - ha un peso determinante; è il presupposto
di immagini dal carattere per certi riguardi di natura visionaria, presupposti
che posseggono, se si vuole, una forza fantastico-concettuale che altrove,
ed in special modo nelle Installazioni, come quella A/93 o
quell'altra op. 16/93, risalta proprio per quello spazio ambientale
cui alludono.
Il segno-colore di di Girolamo allora acquisisce nuovi spessori e nuovi
rimandi. Se prima, sulla tela, quale parte di un suo proprio universo,
la somma di queste aggrovigliate spirali, nate dall'istinto quali espressioni
puramente concettuali di un modo di essere, si aprivano ad ambiti che
andavano al di là della superficie stessa, adesso questo accumularsi
di realtà oggettuali e plastiche ad un tempo rendono veramente
concreta tale specificità moltiplicandola in un divenire la cui
origine è coerentemente riferibile a quelle premesse dalle quali
hanno preso le mosse per essere, per l'appunto, ricreate con nuove e
sempre più dialettiche e suggestive riproposizioni.
Nino d'Antonio, Espressività e suggestione
nella pittura di Antonio di Girolamo, catalogo della mostra alla
galleria "Gnaccarini", Bologna, gennaio 1994.
[…] Il più recente approdo di una ricerca tanto inquieta non
è più l'opera d'arte tout court: nel senso che
il quadro supera i confini imposti dalla tela per dilagare in una serie
di tavole (con relativo supporto o contenitore), le quali si offrono
a loro volta a molteplici usi e collocazioni. Se il termine non generasse
equivoci, direi che la pittura viene a porsi come insolito complemento
di un improbabile arredo, tutto da inventare. Si tratta infatti di tavole
di varia misura, interamente dipinte su entrambe le facce, da disporre
a binario o da comporre a macchia, in verticale o a zoccolo, al muro
o in piano. Il tutto all'insegna della provvisorietà, o meglio
di una collocazione e di una composizione obbedienti solo alle spinte
e ai bisogni del momento, pronte a essere modificate, rifatte, trasferite
altrove.
Riaffiora l'antica anarchia del primo di Girolamo, qui distribuita in
tavole dal destino indefinibile? O il quadro, come spazio concluso,
è diventato insufficiente all'ossessiva presenza del segno? O
ancora l'umanità dolente del pittore, compressa in un calligrafismo
tanto esasperato, ha cercato la complicità e il conforto di un
altro uomo? Mi pare questa l'ipotesi più attendibile: perché
si tratta di opere che hanno bisogno di un secondo intervento, di qualcuno
che scopra o inventi un loro possibile utilizzo, che si accosti ad esse
con la confidenza necessaria per disporle a proprio piacimento, anche
al di là di quello che i segni e il colore possono suggerire.
E in quest'ottica vanno viste le opere più recenti: dalla teca
in plexiglass e supporto anche in plexiglass, con tavola a colorazione
differenziata sulle due facce (un eventuale piano d'appoggio e un elemento
polivalente?), ad un incerto separé a tre pannelli animati
da figure geometriche forate lungo il perimetro; ad una serie di moduli,
sempre in plexiglass, quadrati e a misure scalari posti l'uno sull'altro
variamente orientati e con le facce di ciascun modulo diversamente dipinte,
alla fuga di triangoli variamente colorati, che sovrapposti e sfalsati
traducono una spinta verso l'alto, una sorta di decollo che forma e
colore continuano a suggerire.
Una stagione imprevedibile, in cui di Girolamo dà vita a una
serie di proposte (è così che le definisce), destinate
ad ogni possibile intervento da parte del fruitore: un coinvolgimento
ineludibile e personalissimo, necessario a che l'opera, imperfetta nel
suo destino, cominci a trovare la prima delle sue molteplici ragion
d'essere.
Intanto, questa manualità certamente più costruttiva e
intrigante sembra dare all'artista una pausa rasserenante: direi una
quiete del fare che di Girolamo sta vivendo con la freschezza e l'ingenuità
di un fanciullo, e alla quale tuttavia si accosta come a una sorta di
divertissement, consapevole com'è che il gioco non durerà
a lungo.
Giorgio Di Genova, A proposito del segnismo
gestuale di di Girolamo e dei suoi ultimi sviluppi, catalogo della
mostra all'"Atelier Arti Visive" di Carrara, marzo 1995.
[…] Per intendere appieno il discorso che di Girolamo va facendo da
alcuni anni, va costantemente tenuto presente che la sua pittura è
un parlare dello spirito. Un parlare che si esprime a segni e colori,
i quali, appunto perché prendono linfa dall'incessante ritmo
del respiro, sostanziano il discorso di una più che manifesta
coazione a ripetere lo stesso gesto nell'ambito dello stesso sguardo.
Per questo il pittore napoletano predilige il monocromo che meglio restituisce,
seppur marcato nella vibratilità del "graffio" segnico, lo stato
d'animo dell'accumulo ritmico in tessiture che non di rado si contrappongono
e creano antitesi, né più ne meno di ciò che avviene
nell'esistenza quotidiana, dove la notte ed il giorno si alternano (e
certo per assonanza a tali alternanze così spesso il pittore
napoletano ama giostrare le sue orchestrazioni segniche in bianco e
nero).
In definitiva l'esercizio pittorico per di Girolamo è una sorta
di rito in cui egli inietta le profonde componenti mistiche del suo
sentire. I suoi dipinti sono una sorta di preghiere fatte con i colori,
sono una specie di tavole dell'estasi mistica su cui con un alfabeto
personalissimo, che può comprendere solo chi nella lettura si
affida alle risonanze coscienzali e non alla mens concettuale,
vengono scritte le sensazioni dell'io dell'artista.
Per tutti questi motivi, allorché egli non si lascia tentare
dalle metafore fenomeniche, insorge la difficoltà di riferire
attraverso i titoli i momenti dello spirito, per cui il dettato dello
pneuma non può essere segnalato, come faceva l'autore
nel 1991, quando ancora non aveva fatto ricorso all'uso della metafora
nei titoli, che con la semplice indicazione del colore usato quale medium
espressivo di un sentimento che sfugge a qualsiasi descrizione (Rosso
su viola, Nero su porpora, Nero su blu, Nero su giallo, Bianco e nero
n.3). Era d'altronde quello che faceva un altro mistico della pittura,
dico Mark Rothko, il quale, tuttavia, anziché al colore-segno,
aveva affidato il suo dire al colore-luce. Negli ultimi due anni dall'humus
arato dai segni dell'alfabeto gestuale è cominciata a germogliare
una nuova esigenza: l'esigenza della forma conclusa. E' così
che nel 1993 di Girolamo ha cominciato a utilizzare le sue tele come
moduli per determinare variazioni del corpus stesso della sua
pittura, variazioni di libera praticabilità, com'era Composizione
modulare n.1, che in diversi accostamenti di opere di varia cromia
potevano passare dalla "catasta" sovrapposta ad una sorta di profilature
afferenti all'idea di zigurat.
Con tale esperimento di Girolamo infrangeva con un sol colpo due gabbie
del suo fare: quella del monocromatismo e quella dell'aniconismo assoluto.
Infatti nel 1993 insorgeva da un lato l'esigenza del contrasto di campi
cromatici differenti e dall'altro lato il bisogno di costruire figure,
certo ancora geometricamente ideate (ad esempio quella stellare di Composizione
modulare n. 4, che si presta anche a forme irradianti o a dentature
irregolari, oppure quella a "cascatella" di rettangoli di Arpeggi
in rosso, per non dire della composizione plurialata Decollo
'93): si affermava così la necessità di un ritorno
alla realtà, o meglio al traslato di essa nell'ambito di una
concezione pitto-plastica che a mio avviso ha raggiunto il massimo risultato
in quella sorta di piccolo agglomerato urbano che è Dimensione,
colore e uomo del '93, a cui si sono collateralmente accompagnati
tavoli in plexiglas col piano costituito da un dipinto in tessuto dalle
trame segnico-gestuali tipiche del discorso di di Girolamo.
A tali esperienze è seguita un'ulteriore reificazione della pittura
che, dopo la traduzione di quella zigurat, già precedentemente
"disegnata" dalle tele di differente formato e cromia, nel tutto tondo
di Colonne verdi, ha voluto cimentarsi nella pluralità
delle forme turrite ordinate nello spazio calpestabile, com'è
per Composizione in blu, sempre del '93, opera la quale allude
ancora ad effetti urbanistici, questa volta costituiti dai grattacieli
pitto-plastici dell'immaginario monocromo proprio di di Girolamo. Ed
è piuttosto palese che tali grattacieli blu, intricati con la
volta celeste, oltre che per il colore, sin nello stesso termine che
li definisce, vanno considerati gli incunaboli di quel trittico di svettanti
parallelepipedi che l'artista nel 1994 ha inteso individuare come i
Pilastri del cielo.
Risulta chiaro già da queste poche note che di Girolamo è
un irrequieto sperimentatore sempre alla ricerca di soluzioni altre
e nuove, pur senza tradire l'assunto di base del suo gestualismo segnico.
Sull'onda ditale spinta interiore egli nel 1994 ha saggiato morfologie
espressive, ora ricorrendo alla dialettica tra tache e segno
in una serie di opere (Rosso e blu, Blu e turchese, Verde e verde),
tra cui la più suggestiva e, a mio avviso, maggiormente fertile
di futuro è Evanescenza, ed ora attuando come una sottrazione
di quell'accumulo cromo-segnico congenito dell'ottica dell'horror vacui,
tipica di di Girolamo.
Ne è sortito un discorso di segnismo minimo, per certi aspetti
calligrafico, che, dopo un primo approccio in negativo (mi riferisco
alle ancor fitte tessiture svirgolate dei segni bianchi su fondo nero
di Tornado), è sfociato nei lacerti (e stavo per dire
sfilacciati) delle serrate ritmiche di un tempo, dove il segno, che
sa anche raggiungere ritmi ariosi, com'è in Maturità,
torna a farsi mera traccia in uno spazio neutro, in quanto non più
intriso di colore. Tale diradazione delle ritmiche più che ad
una sobrietà espressiva, certamente presente, attinge ad un nuovo
scarto determinato dall'insorgenza della figura, a lungo preparata dalle
precedenti esperienze del "figurare" geometrico. Insomma la dilatazione
delle trame segniche ha obbedito ad una accresciuta pressione di un
imperativo interiore: quello del recupero dell'immagine, ovverosia di
un'immagine che solo di tra le brume segnico-gestuali potesse, seppur
timidamente, riaggallare. E con Scomposizione '94, con Maschera,
con Stupore, con Incontro, con Composizione '94
ed altri lavori del genere di Girolamo ha soddisfatto questa nuova esigenza,
nella quale va rintracciata un'intenzionalità di recuperare l'uomo.
Senza tuttavia rinnegare il segnismo gestuale. Ed è per quest'ultimo
motivo che ai lacerti della tessitura segnica si mescolano lacerti figurativi,
vere e proprie apparizioni intraviste che qua e là timidamente
si affacciano tra le pieghe della cortina formata dalla grafia curvilinea,
quasi stessero ben attente a non valicare le soglie dell'infinito, sostando
nei regni del detto e non detto, che non vanno superati, per evitare
il pericolo di cadere in un'incongrua figurazione che, come ben sa di
Girolamo, lo farebbe improvvisamente regredire ad un passato dalle cui
spire egli si è faticosamente liberato appunto con l'approccio
al segnismo gestuale che era riuscito a trasformare quelle spire soffocanti
in ritmati respiri di libertà e di stile.
Infatti, già nelle ultime opere del 1994, di Girolamo ha ripreso
a tessere i suoi "campi" segnico-cromatici con una nuova attenzione
alle atmosfere liriche della sua pittura, che continua ad essere risultato
di quel serrato e ritmato colloquiare con il proprio io, che restituisce
le indefinite varianti delle risonanze coscienziali attraverso tali
brezze segniche, o, se si preferisce, tali marezzature cromatiche. E,
alla stregua del poeta, dolce gli è il naufragar in questo mare.
Vitaliano Corbi, Antonio di Girolamo: tra i
segni della pittura, in V. Corbi, G. Di Genova, Antonio di Girolamo,
Edizioni Bora, Bologna 1996
[…] Ma il caso più interessante di questa irrequieta sperimentazione
- che, come si sarà capito, è la faccia opposta a quella
della ricerca di coerenza, cui è tuttavia sempre indissolubilmente
legata - è costituito da una serie di composizioni modulari in
cui di Girolamo non si limita a dipingere su pannelli componibili, ma
trasporta la pittura su strutture tridimensionali installate nello spazio
ambientale. Talvolta questi lavori fanno pensare ad un genere, abbastanza
divulgato alcuni anni fa, che si suole designare col nome di 'pittoscultura',
dove la pittura diventa la seducente pelle colorata della scultura.
In realtà, quella di di Girolamo voleva essere un'esperienza
molto più complessa ed ambiziosa. Se, infatti, da una parte si
apriva a suggestioni figurali cariche di fascino, come in Dimensione,
colore, uomo, del '93, particolarmente intrigante per il suo rimanere
sospeso, con i suoi settantotto moduli variamente componibili, tra le
sollecitazioni di un oggetto ludico 'praticabile' - qualcosa di non
molto lontano da ciò che proprio a Napoli era stato fatto negli
anni sessanta da alcuni objectmakers come Enrico Bugli e Salvatore
Paladino - e la proposta di un fantasioso microcosmo metropolitano,
dall'altra con un gruppo di opere, sempre dello stesso anno, essa tentava
di fuoriuscire non solo dalla dimensione del quadro, ma da quella stessa
dei luoghi deputati dell'arte, inseguendo forse il sogno, che era già
stato delle avanguardie, di un'esteticità diffusa nella vita
per il tramite di una produzione in serie o almeno di esemplari unici
ma caratterizzati da una larga disponibilità di uso e di veri
e propri mobili ed oggetti d'arredamento.
Non è azzardato pensare che la constatazione dell'impraticabilità
di questo progetto abbia provocato un ritorno al 'quadro' con una maggiore
carica emotiva. Accanto ad alcuni saggi di accentuato sapore grafico,
come Maschera e Incontro, in cui par di scorgere qualche
traccia di figura umana, accanto al felice risultato di Crocefixio,
che traduce la tensione spirituale già affiorata in Infinito
luce in ritmi meno declamati, facendo riassorbire l'esaltata effusione
luminosa nel raccolto mistero dell'oscurità del fondo, di Girolamo
dipinge nel '94 Profondo luce e Macchie di luce, Lacerazioni
rosse e Lacerazioni verdi: tele d'una vitalità tagliente
e persino aggressiva nell'asprezza dei timbri cromatici e nelle irritazioni
che lacerano il tessuto segnico; un gruppo fortemente unitario, che
anticipa, come già era accaduto con altre opere del '91, esiti
più recenti. Ciò può far apparire alcune tele del
'95, soprattutto la sequenza di Luci ed ombre nel rosso, Luci
ed ombre nel grigio e Luci ed ombre nel blu, costruite con
una vaporosa e delicata tramatura segnica, come una parentesi felice,
ma più sul versante della memoria che dell'annuncio di nuovi
sviluppi. In verità, si tratta di opere che insieme con Trasparenze,
Arcipelago verde e Ceppi, sempre dello stesso anno, fanno
pensare al bisogno di rivisitare un territorio che si sta per lasciare,
ma da cui pare di sentire risuonare voci familiari. Ancora una volta
si ha la conferma del procedimento caratteristico della ricerca di di
Girolamo, che si potrebbe definire nei termini del duplice movimento
husserliano della 'protensione' e della 'ritenzione'. Che è poi
un modo di muovere verso nuovi orizzonti, ma conservando sempre una
certa memoria del passato. Esemplare, in questo senso, è la serie
di Ritmi e bande (nelle varianti rosse, verdi,
blu, gialle e viola), dove su un impianto compositivo
a larghe fasce, che modulano di volta in volta il colore indicato dal
titolo dell'opera, si agita una folla di piccoli segni. Essi si direbbero
provenire da quel tessuto che prima aveva un ruolo portante e che qui,
al contrario, appare spezzato irrimediabilmente nelle sue maglie, frantumato
e quasi ridotto a fremente pulviscolo grigio, sospeso in un fascio di
luce che passa tra noi e la solida geometria delle bande colorate. Circumvoluzioni
e bande nere, severo ed insieme gioioso nel rapporto tra i neri
vellutati del fondo e la danza dei rossi e dei gialli, dei blu e dei
verdi, proviene indubbiamente da questa serie. Ma se ne stacca energicamente,
poiché qui il rapporto è capovolto a vantaggio dei segni,
ricaricati d'una energia gestuale che restituisce loro, insieme con
l'esuberante vitalità cromatica, anche la capacità di
dominare lo spazio. E altrettanto naturale risulterà il passaggio
successivo compiuto con Segno rosso e Segno verde, fermati
in un sorprendente equilibrio tra la bellezza esibita del segno e la
sua fluidità gestuale, in un incredibile incontro tra la citazione
quasi letterale e la spontaneità inventiva che s'avverte nello
scatto dell'immaginazione visiva. […]
Giorgio Di Genova, I ritmi della vita e dell'anima
nel segno, in V. Corbi, G. Di Genova, Antonio di Girolamo,
Edizioni Bora, Bologna 1996
[…] E' questo un momento molto suggestivo della produzione digirolamiana,
che mette in pratica una personale declinazione del concetto di "opera
aperta", proposto da Umberto Eco negli anni di egemonia dell'Informale.
In questa fase della sua produzione non solo si sbizzarrisce con ricchezza
di inflessioni l'inventività dell'artista napoletano, ma in talune
opere si tramuta in religione la ragione di vita del far arte, all'inizio
considerata. Infatti in questo periodo viene letteralmente edificata
quell'aspirazione spirituale del suo essere che si è anche esplicitata
in un fare che, al di là delle illuminations che accendono
il centro di tanti quadri, esprime quel genuino sentimento di religiosità
per cui di Girolamo è stato chiamato in mostre d'arte sacra,
ottenendo pure che il suo dipinto del '94 Crocefixio fosse sistemato
nella Cappella Palatina di Palazzo Reale di Portici. In questa opera
l'affiato mistico, insito in gran parte del discorso di di Girolamo,
si affidava nuovamente alle vibrazioni delle luci e delle ombre segnico-pittoriche,
o meglio ai tremori cromatici suggeriti all'artista dalla Passione,
e per questo l'opera ha per colore base il rosso. Ed ho detto nuovamente,
perché già nelle reificazioni pittoplastiche del '93 l'aspirazione
al cielo s'era manifestata nella possibile zigurat che poteva scaturire
da Composizione 3 e più marcatamente nei colonnati in
verde e azzurro (Colonne verdi, Colonne in blu), che avevano
preparato la celeste e celestiale composizione I Pilastri del cielo
(1994), che, dopo essere stata esposta in una chiesa, ora aspetta
di illuminare la sala dedicata alla generazione dei nati negli anni
Venti del Museo delle generazioni italiane del '900 "Giulio Bargellini"
in Pieve di Cento, al quale è stata donata dall'artista.
Come rovescio della medaglia di questo momento plastico-architettonico,
dalle forti valenze fisiche, anche tattili, c'è la serie di dipinti
in cui di Girolamo, quasi per l'insorgenza di un complesso di colpa
emerso nei confronti del suo essere pittore, ha diradato la tessitura
del suo segnismo fino a renderlo bacillare (e qui è probabile
che la sua formazione scientifica inconsciamente abbia avuto un suo
ruolo). In opere del '94, quali la quadruplicata Maschera. Maturità.
Stupore. Incontro o il dittico Astrazione in rosso. Astrazione
in blu, come pure in Scomposizione '94 e Composizione
'94, di Girolamo ha messo in coltura i suoi segni, quasi a volerne
studiare i comportamenti, e per meglio renderli visibili è ricorso
a metafore dei metodi utilizzati nei laboratori di analisi, tipo la
fotosintesi (Lacerazioni rosse) e l'inoculamento nel brodo delle
colture di liquidi che rendessero fosforescenti i segni-bacilli (Lacerazioni
verdi). E in qualche caso il risultato è stato una specie
di tatuaggio della superficie della tela, tatuaggio sincopato dai singulti
segnici, come stanno a testimoniare Voli e vortici del '95 e
Colpo di vento del '96.
In questa accanita ricerca della differenziazione nell'identico, imposto
dalla coazione a ripetere, di Girolamo in continuazione non fa che cercare
esiti, traendoli dal fondo dell'ormai acquisita sapienza e maestria
del suo automatismo ben registrato e oliato dalla pratica quotidiana
e dall'esercizio di anni attraverso cui s'è dotato di una grammatica
del pittorico sua propria, nella quale colore, luce e segno costituiscono
i sostantivi, gli aggettivi e i verbi, tutti concorrenti a creare una
sintassi sempre più e meglio connotata in stile autonomo. E qui
che s'evidenzia la natura, tutto sommato, sperimentalistica dovuta all'insaziabile
irrequietezza di di Girolamo, che gli impedisce di adagiarsi sugli allori
del risultato raggiunto. Ciò spiega le variazioni, profonde nonostante
siano interne ad una fondamentale unitarietà espressiva a cui
di Girolamo ha sottoposto la sua ricerca in una periodizzazione che
è stata scandita dagli anni, quasi anno dopo anno, e che talvolta
l'ha tentato ad un ritorno all'immagine in taluni dipinti, nei quali
tra la fitta rete dei segni apparivano discutibili Sindoni, appunto.
Forse, l'artista pensava, dopo aver felicemente pescato con la rete
del suo segnismo l'oggettività nel mare magnum della pittura,
di poter ripetere la pesca nei confronti dell'immagine, imbrigliandola
con successo alla tramatura segnica come nel '93 era riuscito a fare
nel felice connubio di fisicità e spazialità.
Anche questa passeggera tentazione doveva passare, per dar luogo e spazio
ad un personale ritorno all'ordine segnico, connotativo del discorso
avviato nel 1990. A questa sorta di rappel à l'ordre
appartiene gran parte delle opere del '95, tra cui Ceppi, nonché
le citate Trasparenze, La mia luce, Luci ed ombre nel blu, Luci ed
ombre nel rosso, Luci e ombre nel grigio. Ma poteva nel 1996 un
irrequieto sperimentale come Antonio di Girolamo proseguire pedissequamente
sulle strade intraprese in precedenza? La sete di novità lo attanagliava
nuovamente, per sfuggire alla meccanicità di un modo espressivo
ormai dominato e codificato.
Già in Obelisco e in Steccato del '95 egli azzardava
nuove morfologie. Nel '96 questa sete di novità tuttavia, finiva
con l'investire ora il cromatismo (Dall'ombra alla luce, Intrecci
di memoria), ora lo spazio nelle battute bipartite e quadripartite
di Ritmi verticali e di Quattro tempi, il cui titolo rivela
una volontà di temporalizzazione del quadro, soprattutto nella
sua fruizione. Tutto doveva essere rimesso in discussione. E così
di Girolamo sentiva dovesse essere. Se all'improvviso sembra determinarsi
un recupero della diastole e della sistole, preparato dal blow up
segnico di Acquamarina sul blu, ecco, invece, un nuovo scarto,
simile a quanto col passare degli anni fece anche Capogrossi. Un segno
tra i segni comincia ad ingigantirsi, proponendosi come iperbole del
fondamento della stessa pittura digirolamiana in primo piano con la
sua svirgolatura rossa o verde (Segno rosso, Segno verde). Insomma,
un segno-bacillo ha fagocitato tutti gli altri suoi simili divenendo
il padrone assoluto della scena. Così, dopo aver parafrasato
in versione curvilinea il formicolante segnismo di Tobey e dopo aver
tradotto segnicamente i colori-luce di Rothko, di Girolamo ha reso bacillare
il segno gestuale di Hartung. L'iperbole non rimane mai fine a se stessa.
Ha bisogno di nuovi sviluppi. Ed infatti il bacillo-segno ingigantito
si fa primo passo verso le conformazioni amebiche di Oltre il rosso
ed Oltre il blu, dove una cellula intessuta di segni è
nettamente ritagliata sulla trama seguica del fondo.
Lo sperimentalismo di Antonio di Girolamo continua a non adagiarsi sugli
allori del déjà trouvé. È sempre
e senza sosta alla ricerca di un'altra soluzione, dopo la soluzione
appena trovata. E il nostro pittore certamente non ha esaurito la sua
vena inventiva. Anzi, ha ancora nella faretra della sua creatività
molte frecce da scoccare col suo arco segnico, come anche queste ultime
prove stanno a dimostrare.
Arianna Di Genova, "Antonio di Girolamo. Quelle
scatole cinesi, "Arte In", giugno 1996
[…] I percorsi di segni che s'attorcigliano sulle sue opere in apparenza
casuali, in realtà inventano uno spazio ritmico che nello stesso
tempo rimanda a una traccia, una memoria umana, una "matrice" posta
all'origine del linguaggio e quindi dell'espressione.
All'inizio c'è la brutalità del gesto informale, poi,
nasce la "lettera", quell'anello della catena che, congiunto con gli
altri genera il senso e si apre al mondo della comunicazione. Le parole
e le possibili combinazioni del linguaggio sono infinite. Da qui parte
di Girolamo e subito sceglie di percorrere all'inverso la via dell'Informale:
dall'impulso esistenziale alla costruzione di un gesto-matrice. Pochi
elementi (segni colori, luce) incastrati per un puzzle dalle mille soluzioni.
Con la serie delle Composizioni modulari del '93 I'artista disegna
un alfabeto non solo visivo ma anche spaziale. Quattro o più
tele, separatamente dipinte, vengono accostate e strutturate secondo
diverse possibilità: a scatole cinesi, una dentro l'altra, in
progressione di grandezza, oppure seguendo uno schema piramidale. Ma
le varianti non si esauriscono qui.
Le Composizioni modulari possono giacere a terra, montate su
guide scorrevoli o essere attaccate alle pareti, come tradizionali quadri.
Infine, possono nascere su una base cromatica e quindi combinarsi in
merito alle sue modificazioni (blu di differenti intensità, colori
complementari, infiltrazioni improvvise di luce) e alla sua percezione
(dallo sgranato effetto flou all'accesa vibrazione della tonalità
più alta). Insomma, di Girolamo trasforma anche la rigidità
della struttura portante - la superficie e l'intelaiatura del supporto
- in un evento, in una performance. L'aut-aut della scelta è
sostituito da una scansione temporale.
Non esiste un ordine geometrico a priori, non una tessitura, neppure
a trame larghe, che possa accogliere le varianti del pensiero e delle
emozioni una volta per tutte.
Ogni segno, seppure astratto, si "macchia" di storia, contiene e riassume
in sé le due diramazioni della vita stessa: un'orma di esperienza
personale e uno spessore universale.
L'accadere, lo scorrere del tempo, nelle opere di di Girolamo è
affidato al colore, al suo espandersi e mutare in relazione alla luce.
Tra gli ultimi lavori dell'artista, alcune composizioni monocrome in
blu rimandano alla notte, ai principi nativi del caos, alla sospensione
della coscienza in virtù di un evento spirituale. In altre, torna
il rosso (anche mescolato al colore terrestre per eccellenza, pulsante,
centrifugo, come a coniare uno sprofondare del rigore nelle sponde dell'Informale.
E l'informale ricompare - pura citazione di una tecnica ormai abbandonata
- come momento di respiro dell'occhio che si allontana dalla fitta griglia
del pensiero. E' una pausa, un intervallo del ritmo un improvviso silenzio
di segni. E' proprio di di Girolamo un metodo di lavoro che unisce la
filosofia Zen (la capacità dell'attesa, la non forzatura dei
significati delle cose, il lasciar fluire il senso dell'evento stesso)
a una pittura anche calligrafica.
Al riguardo, è illuminante conoscere le radici di di Girolamo:
l'artista ha assaporato le prime esperienze creative nello studio del
padre restauratore e decoratore. Lì, tra gli odori di vernici,
di colle e le luci soffuse e polverose ha potuto osservare il lavoro
certosino di ricomposizione, le pazienti ricostruzioni di dipinti e
mobili "in stile". Ha coltivato l'artifex che aveva dentro e
anche quella curiosità ludica e infantile che è una premessa
necessaria affinché scaturiscano inconsuete combinazioni e inediti
alfabeti tra le righe dell'ordine già dato.
Ugo Piscopo, Pittura come schermo di autoanalisi,
catalogo della mostra alla galleria MA, Napoli, novembre 1996
La chiave d'ingresso nell'opera pittorica di Antonio di Girolamo è
in un folgorante appunto di diario dell'artista stesso, là dove
egli ci consegna la confidenza che la sua attività è impegnata
allo spasimo a intercettare la 'visualizzazione dell'invisibile tramite
immagini, forme che nulla hanno a che vedere col concetto tradizionale
di immagini".
L'attesa, però, e la contattazione della dimensione che si cela
dietro la facciata del quotidiano si attestano non su un terreno di
ontologiche consistenze di etimo, di proiezione e di sperimentazione
mistici o di descrizioni storiche, ma su un'ontica appercezione, nel
senso heideggeriano, dell'essere nell'Esserci. In effetti, non si può
non raccogliere la suggestiva indicazione data, con una discrezione
a punta di matita, da Luigi Lambertini in una nota di due anni fa, riguardo
alla tensione esistenziale che investe e intride i dipinti di di Girolamo
e li fa diventare documenti vividi dei sobbalzi e delle trepidazioni
che si generano nello sprofondare ovvero nell'essere risucchiati tra
i gorghi delle fenomenologie del Dasein.
Sembrerebbe configurarsi, così, un reticolo ideale affine
a quello che è fondamento della pittura informale. Queste premesse,
invece, sono solo sullo sfondo dell'inventio di di Girolamo,
il quale si impegna a operare non per prendersi cura del tempo, tanto
per servirci ancora di un'immagine di Heidegger, né per dimostrare
teoremi di nuova investigazione del reale sotto l'aspetto dell'esserci.
Piuttosto l'artista affonda nel suo fare, confidando in ultimo di ritrovare
ed esaminare tracce di un vasto, profondo enigma che parla attraverso
parole incomprensibili, che si manifesta attraverso forme irriconoscibili.
E questa incomprensibilità e questa irriconoscibilità
risiedono innanzitutto in noi, nel nostro verificarci sul filo della
meraviglia, dell'angoscia, dello sbalordimento. Entro tale curvatura
di esperienze, non si fanno sconti a inventari economici e plausibili,
a linguaggi ordinari.
Di Girolamo agisce (o è agito?) in un paesaggio (la giorno dopo
dì tutti i linguaggi, in mezzo a rovine, macerie, brandelli di
linguaggio, non più rappatumabili o riciclabili. Ma tale è
l'amore che egli porta alla vita, tale è la persuasione che un
linguaggio non può comunque non esserci, non può infine
non essere configurato e tentato, che egli prende a interrogare geroglifici,
sismogrammi, brani di ecografie, a filtrarli attraverso schermi color
amaranto, di cobalto, di lattescenze all'onice, ad agi tarli, a scuoterli,
ad auscultarne le vibrazioni, per cercare se per caso non possano rinviare
ad altre circostanze linguistiche, non accennino a probabili indicazioni.
Ma, affondando lo sguardo in questi rinvii e in questi accenni, l'artista
si accorge che anch'essi si sfaldano, si dissolvono e così liberano
altri possibili percorsi verso l'inattingibile, verso ciò che
e visibile unicamente nell'invisibile e nell'inenarrabile.
In una prima fase, di Girolamo procedeva per accumuli di tensioni, per
esplosioni segniche, per rabbiosi avvolgimenti entro tessiture inconciliabilmente
antitetiche.
In questa nuova fase che sembra aver imboccato, come ci propongono tutto
un filone dell'ultima produzione e complessivamente le opere che sono
in esposizione, ma che già puntualmente vari addetti ai lavori
avevano cominciato a segnalare (Di Genova, Corbi, D'Antonio), di Girolamo
sottopone come a decantazione il cinetismo e il dinamismo segnico, un
po' da dripping, un po' da happening post-futurisra,
perchè l'attenzione possa assorbirsi più intensamente
su squarci monocromatici e monotematici, su rispecchiamenti dell'invisibile
dove si raggrumano messaggi che tendono non alla componibilità
e al rasserenamento, ma all'emblematicità e all'essenzialità.
In questa nuova organizzazione e impaginazione del linguaggio, sulla
deflagrazione fa aggio il silenzio, sui referenti di superficie fanno
aggio quelli segreti. In questo momento, di Girolamo sta apprendendo
e insegnando agli altri ad apprendere che scegliere sé stessi
nella latenza, nella profondità, nell'enigmaticità è
un dono rivelatore, proprio come dice Kierkegaard. Il quale, in Aut-aut
scrive: "Quando tutto è silenzio intorno a noi, [...] quando
l'anima si trova sola in mezzo al mondo, di fronte ad essa appare non
un uomo ragguardevole, ma l'eterna potenza stessa, [...] l'io sceglie
sé stesso, anzi riceve sé stesso".
Lucio Solli, Antonio di Girolamo, "Terzo
Occhio", dicembre 1996
[…] Anche quando questi segni allentano la loro morsa distanziandosi
e frammentandosi in modo da non generare più questa problematica
gravosa si può risalire da essi al dramma del groviglio. Ma in
ogni caso il dramma trova una risoluzione, un riscatto, una sublimazione
anche se, facendo scorrere lo sguardo su tutte le tele, ci si accorge
che in alcune di esse è nascosto oppure marginale, ma presente.
Il primo incontro, entrando nella galleria, avviene da una parte con
Decollo in cui i segni tracciati su di una costruzione in legno
di moduli triangolari, rimangono sospesi tra l'evocazione di una religiosità
gotica e il colorato dinamismo di una segnaletica metropolitana; dall'altra
parte con Infinito luce, una grande tela nella quale i colori,
contendendosi i grovigli, si equilibrano con essi trasfigurando il tutto
in una dolce apparizione mistica. E così di Girolamo continua:
in altre tele i grovigli trasfigurano sé stessi: si distanziano
e si frammentano, levitando con grazia; la quale si accorda con i fondi
formati da bande contigue verticali, che modulano diverse tonalità
dello stesso colore, altrove si distanziano senza frammentarsi, con
un lieto chiarore, su fondi omogenei scuri; oppure scuri su fondi chiari,
frammisti a forme fluttuanti, vorticando in accordo con esse, con levità.
Al centro della galleria un lillipuziano agglomerato urbano, Dimensione,
colore uomo, ripete il drammatico delle tele con il labirinto di
strade soffocate tra una folla di piccole costruzioni, riscattato però
dall'aspetto ludico dell'insieme, cui contribuisce la vivacità
dei colori e dei segni.
Ma il dramma riaffiora sempre: in certe tele i grovigli si affacciano
sì gioiosi, ma su certi squarci provocati dalla rottura di pareti
come cartacee; altrove sono illuminati nella parte centrale, mentre
intorno rimangono nell'ombra, insieme ai fondi. E mentre di Girolamo
sembra aver superato il dramma dei grovigli in quelle tele dove questi
si riducono a pochi e grandi, o addirittura ad uno, lanciati in un dinamismo
gestuale con una carica di cinetismo futurista, accade a volte che essi
si mostrano dai colori vivaci ma altre volte grevi, e si muovono su
fondi altrettanto grevi; e dietro ad essi è quasi nascosto un
altro fondo, mosso e tormentato: il dramma incombe. Se riemergerà
imponente, è prevedibile che in qualche modo l'arte di di Girolamo
lo riscatterà nuovamente
Guglielmo Gigliotti, Il G. A. D. a Venezia,
catalogo mostra galleria S.Gregorio, Venezia, aprile1998
[…] L'approdo a tale essenziale sigla grafica poteva sortire in autocompiacimenti
sterili di chi, avendo trovato, non cerca più, un po' come avvenne
per Capogrossi a partire dalla metà degli anni Cinquanta. Ma
per di Girolamo non è stato così. Il grafico incurvato,
nel pittore napoletano, si risolve in traccia minima quanto gravida
di soluzioni linguistico-impaginative sempre nuove e sempre inaspettate.
La tramatura segnica ingabbia soavemente il piano, senza mai soffocarlo;
la polidirezionalità nella disposizione dei ciuffi lineari non
induce mai a lettura confusionale, quanto a una costante e dinamica
sollecitazione psico-visiva del fruitore; e la sinuosa eleganza insita
nel tessuto ondulatorio rimane sempre nei limiti di una vigilata sensualità,
che fa morbidamente corpo con la problematica strutturale dell'immagine,
senza mai sommergerla. Il trionfo di un segnismo autosufficiente e sintatticamente
articolato è tuttavia effetto di un'ulteriore conquista degli
anni Novanta: la determinazione del valore autonomo della superficie.
I gorghi filamentosi che carezzano il piano, infatti, non dialogano
mai con improbabili profondità, non scavano mai illusorie tridimensionalità,
ma investigano, per fitta scansione modulare, lo spazio concretamente
artificioso del piano pittorico.
L'ultimo biennio, tuttavia, registra un interessante giro di boa nello
sviluppo del discorso segnico del napoletano, una svolta che mira a
decostruire l'impianto densamente reticolare delle composizioni precedenti,
negando il continuum fluttuante e assottigliando la valenza strutturante
dell'incastro curvilineo, attraverso lo sfibrarsi della compattezza
segnica e lo sfrangiarsi, fin quasi a dissolversi, del telaio grafico.
L'evento segnico, giunge, così talvolta a raddensarsi al centro
del piano talaltra ad incarnarsi perentoriamente in un unico grande
uncino, o ellissi interrotta che dir si voglia, integrando lo status
di tracciato con quello di "figura" o di icona.
Eduardo Alamaro, Foulard di Napoli, "Artigianato",
anno VII n. 29, 1998
Gli artisti, pittori e scultori, hanno sempre "fatto" - a latere della
loro attività principale - felici oggetti d'uso con arte, nei
quali hanno riversato la loro cifra stilistica. Ho sempre pensato che
tale cifra "industriosa" rivesta una sua particolare originalità
di applicazione in arte e/o di design artistico, e tutto ciò
andrebbe meglio indagato con apposite iniziative editoriali e di mostre,
ad esempio per la zona campana. In questa felice evenienza, della quale
vado ponendo le basi, un posto di rilievo avranno i foulard di Antonio
di Girolamo (Napoli, 1928), un pittore dell'area aniconica italiana
particolarmente seguito da Giorgio di Genova, che parla di lui quale
"portatore di un segnismo gestuale", e da Vitaliano Corbi ("l'astrazione,
... la pittura quale limite estremo, originario").
I foulards di di Girolamo, di seta, formato 90x90 cm., sono realizzati
su appositi telai costruiti dall'artista e dipinti con speciali colori:
i più semplici sono bicromatici i più ricchi arrivano
a cinque colori; vere e proprie pitture da mettere addosso, sono stati
esposti al palazzo Lomellini di Carmagnola (TO) in una mostra collettiva
tenutasi nel mese di febbraio.
Giorgio Di Genova, Di Pasquale Di Fabio e del
GAD d'oggi, catalogo mostra Palazzo Mediceo, Seravezza, maggio 1999
[…] Il viatico al fare aniconico a di Girolamo è stato dato dalla
musica, linguaggio che nei suoi testi teorici, Lo spirituale nell'arte
e soprattutto nel successivo Punto e linea sulla superficie,
il russo Kandinsky, come accennato in precedenza, aveva accomunato ai
colori e alle forme della pittura, riportando alla luce dell'analisi
tecnica ciò che da secoli era già radicato nello spirito
umano: non per caso si utilizzano termini musicali, quali "semitono",
"armonia", "variazione", "modulazione", "contrappunto" ecc., per la
pittura e, viceversa, termini attinenti alla pittura per la musica,
in cui si parla di "colore dei suoni", di "chiaroscuro sonoro", per
non dire che le note stesse, suddividendosi in crome, biscrome e semicrome,
portano nel grembo stesso del loro semantema la nozione di colore.
Tuttavia Kandinsky prevalentemente si riferiva a forme geometriche ed
a linee rettilinee e curvilinee, anche se in qualche caso introduceva
la spirale, mentre di Girolamo, artista dominato da un'ossessiva connotazione
legata alla coazione a ripetere, si affida alle svirgolature ed alle
loro giustapposizioni e sovrapposizioni per ricavare variazioni cromatiche
sul campo così "arato" dalla punta del pennello, variazioni che
in ipso corpore della pittura traggono bagliori e ombre.
La sensibilità di di Girolamo, nonostante egli spesso nel pettinare
le superfici della sua pittura con svirgolature ora più chiare
rispetto al fondo più scuro, ora di diverso colore rispetto al
colore di base, è tendenzialmente monocromatica. Il che non significa
che nella sua produzione, accanto a quadri prevalentemente rossi, verdi,
azzurri, neri, non compaiano opere impostate sul contrasto di due ed
anche più colori. Anzi, proprio questo aspetto, a mio avviso,
ribadisce l'insopprimibile tensione monocromatica del temperamento del
nostro artista, il quale non fonde i colori ma li unisce a contrasto.
Dopo una totale immersione in questo universo totalmente pittografico,
a lui abbastanza congeniale, come sta ad attestare il suo attaccamento
alle opere in bianco nero o in grigio e nero, che appunto risultano
le più grafiche di tutte, di Girolamo deve aver avvertito che
la sua coazione a ripetere rischiava la monotonia, finendo per rendere
la sua pittura troppo "scritta" ed in quanto tale defisicizzata in una
aspazialità percettivistica che penalizzava la visione. E' così
accaduto che ad un certo punto della sua ricerca egli ha cominciato
a costruire opere modulari in modo che, da un canto, potesse ovviare
alla monotonia del suo discorso, pur basato su dinamizzate svirgolature,
attraverso la diversa possibilità compositiva degli elementi
(si veda, al proposito, la serie delle Composizioni modulari
del '93) e, dall'altro canto, potesse ridare fisicità alle opere
e far loro riconquistare lo spazio reale, com'è nelle opere a
pilastri e a colonne quadrate ed altre di variata oggettivazione, tra
le quali, a mio parere, insuperata è rimasta quella sorta di
veduta urbana, o meglio di "orizzonte" metropolitano, che è Dimensione
colore, uomo del '93.
La volontà di uscire dalla ripetizione troppo ossessiva degli
schemi in altri lavori ha spinto di Girolamo a iperbolizzare in positivo
la low up il suo pattern espressivo, ora utilizzato in intrecci
a girandola di pochi elementi ed ora reso protagonista singolarmente,
per la verità, in quest'ultimo caso, con risultati non sempre
del tutto convincenti per uno scarso dominio dell'esecuzione, cosa che
invece è riuscito a ben calibrare quando li ha dipinti, con un
procedimento degno di un certosino, su seta per ottenere suggestivi
e stupendi foulard (ed era un passo quasi obbligato che, dopo tanto
tessere segni sulla tela, egli trasferisse il suo fare su veri tessuti).
Tuttavia quest'esperienza, per un intimo corto circuito con l'oggettivazione
delle opere modulari da comporre nello spazio fisico, ha funzionato
per la visione di di Girolamo da scuola, propiziando nuovi tentativi,
tipo quelli giostrati sull'accostamento di frammenti delle tessiture
della sua pittura ritmo-segnica, frammenti che, guarda caso, sono nati
in concomitanza con i suoi foulard, quasi per effetto di una sorta di
boomerang espressivo. Ed era palese la smania di procedere nel rinnovamento
del suo tipico discorso, smania che in altri momenti ha spinto il napoletano
a nette dimidiazioni o sovrapposizioni sul consueto campo dell'opera,
di parti dai definiti confini rettilinei e da oscuramenti cromatici,
talvolta fino al nero compatto.
Tuttavia, nonostante l'afflato aniconico che permea tutte le sue opere
di Girolamo è rimasto sempre emotivamente legato al sentimento
della natura, che riaffiora sia nei quadri rossi, in cui in filigrana
si possono intravvedere suggestioni delle colate di lava del Vesuvio,
sia nei quadri verdi, in cui sono memorie dei prati a riemergere, e
sia in taluni dipinti azzurri, in cui è il mare del Golfo di
Napoli a spumeggiare. E in tal senso
rivelatori sono i lavori intitolati Colonne di fuoco, Risveglio,
La pelle del bosco e Burrasca.
Nicola Micieli, Il fluire vitale dell'energia
creativa, catalogo mostra Padiglione Pompeiano, Villa Comunale, Napoli,
febbraio 2000.
[…]Ma all'iniziale impeto tellurico già nel '90 si alterna e
in breve si sostituisce un più mirato intervento gestuale: l'automatismo
del dripping stende una rete di colature grumose e filamenti sulle masse
informi dei rossi e dei gialli eruttivi, mentre compaiono le prime ramezzature
segniche "cavate" a grattage nel corpo della materia e articolate ritmicamente,
come sovente suggeriscono i titoli stessi attinti ai tempi e ai movimenti
musicali. L'indizio più significativo del mutamento di clima
espressivo è tuttavia la comparsa di strisce o modanature o cornici
a stesura che delimitano campi segnici simulando frammenti aggregabili
in nuove composizioni, con una logica modulare la cui più compiuta
applicazione sarà raggiunta nella splendida serie delle Partiture
spaziali realizzate nel '99, da annoverarsi tra le più interessanti
prove di astrazione tra geometrica e lirica, su base ritmica, della
ricerca italiana contemporanea.
Si direbbero inoltre citazioni di uno spazio agito nello spazio
convenzionale della pura astrazione, quei frammenti strettamente correlati
alle modanature che li contengono e li qualificano: quadri nel quadro,
e dunque elementi indicativi di una sorta di metalinguaggio che rappresenta
l'insorgere di un'esigenza ordinativa, questa volta non antitetica,
sibbene dialettica alla componente pulsionale.
La quale rimarrà fondamentale nel seguito della ricerca d'ora
in avanti davvero ispirata alla pienezza espressiva, condotta con libertà
sensibile ed estroversa; e nell'assoluto rigore formale, si succederanno
e si alterneranno campiture totali di vibratili textures sia monocrome
sia versicolori, proiezioni immaginarie nella dimensione cosmica, cui
corrispondono ricognizioni ravvicinate e persino radiografiche della
materia su un ventaglio inesauribile di patterns e di preziose cromie.
La superficie pittorica diverrà pelle del bosco, del cielo, del
mare, del crepuscolo, dell'autunno, dell'ombra, della terra, come una
francescana lode al Signore dell'Universo elevata nel segno della bellezza
creata, di cui si specchiano gli elementi e gli esseri, nella parola
sonora delle creature, poiché davvero un canto di letizia, una
panica sinfonia appare oggi la spiegata sonorità della pittura
di di Girolamo. E per altro verso essa ricorda la solenne ampiezza di
una cattedrale, trasparente per le immense vetrate che rifrangono la
luce a rendere simile al cielo la casa dell'uomo.Per la gioia e la serenità
dello spirito.
Vitaliano Corbi, I segni della vita e dell'Arte,
catalogo mostra Padiglione Pompeiano, Villa Comunale, Pompeiano,VillaComunale,
Napoli, febbraio 2000.
[...]La serie delle Pelli nel complesso della produzione artistica di
di Girolamo occupa una posizione un po' appartata, al riparo dal calore
di infuocate stagioni espressive. Si può supporre che un giorno
del 1998 l'artista, fermatosi a riguardare alcuni suoi lavori degli
anni precedenti, abbia sentito la voglia di rimetterli a nuovo e che,
dopo qualche comprensibile incertezza, si sia deciso per un intervento
non troppo avventuroso, che non mettesse a rischio la delicata qualità
della pittura, ma anzi la valorizzasse, eliminando qualche effetto di
ridondanza. Si è limitato perciò a coprire di bianco alcune
zone della tela, facendo in modo che le altre, lasciate assolutamente
intatte nella loro configurazione interna, si stagliassero con maggiore
evidenza sul candido fondo. In realtà I'intervento ha provocato
la totale ristrutturazione dei dipinti. Basta infatti uno sguardo per
capire che questi, nella nuova versione, non si reggono più sull'ininterrotta
continuità della tessitura segnica. La densa stesura dei bianchi,
ritagliando il profilo delle superstiti isole pittoriche, ancora folte
di segni e di colore, non solo offre un solido piano d'appoggio alle
"pelli", ma stabilisce la partitura spaziale dell'intera opera. La pittura
segnica non trova più libero corso sulla superficie del quadro,
la sua estensione non coincide più con l'estensione di questo,
ma si presenta come "citazione" e frammento superstite di un'opera perduta.
Di Girolamo ha chiamato questi ritagli di superfici dipinte La pelle
del cielo, La pelle della terra, La pelle del bosco ecc., suggerendo
l'idea di un'assonanza, in chiave vagamente fenomenica e memoriale,
con le spoglie della natura, con le impronte visive dei suoi luoghi
e delle sue luci. Ma egli sa che quelli da lui così salvati sono
innanzitutto, e letteralmente, brandelli di pittura e forse l'aspetto
più significativo di quest'operazione di recupero sta nel fatto
che di Girolamo con un semplice intervento di cancellazione abbia messo
in moto quel processo autoriflessivo, di ritorno critico della pittura
su se stessa, che, pur essendo stato tematizzato da alcune correnti
con un'insistenza sprofondata nella noia di presunti modelli tautologici,
in realtà attraversa tutta l'esperienza artistica contemporanea,
dalle avanguardie storiche in poi.
Le Pelli avviano, dunque, un processo che il Ciclo del fuoco ha poi
portato avanti con qualche rilevante novità iconografica e con
una metrica compositiva certo meno vistosa che nelle Pelli, ma più
accattivante e insieme più rigorosamente scandita dal gioco della
cornice proiettata nel quadro a restringere l'area fiammeggiante della
pittura e dei segni, a spostarla lateralmente facendole perdere il privilegio
della centralità. Nicola Micieli ha avvertito in pieno l'importanza
di questo processo. Soffermandosi sulla fase immediatamente successiva
della ricerca di di Girolamo, quella delle partiture spaziali, egli
ha parlato di "una sorta di metalinguaggio" e vi ha visto affiorare
un consapevole dialogo tra "un'esigenza ordinativa" e una "componente
pulsionale". Che sia proprio cosi appare indiscutibile dagli esiti delle
ultime Partiture, dove la scrittura segnica, consegnata entro qualche
raro interstizio, contrappunta vivacemente la pacata diffusione delle
luci sull'architettura dei piani colorati. E si comprenderà come
l'andamento autoriflessivo della ricerca non sospenda le immagini nel
vuoto della pura specularità mentale, ma, disponendole più
sensibilmente ad accogliere sulla propria pelle le tracce del mondo,
confonda con dolce e consapevole amicizia i segni della vita con quelli
dell'arte.
Maria Corbi, Antonio di Girolamo. Partiture.
"Terzo Occhio", giugno 2000.
Le " Partiture spaziali " di Antonio di Girolamo rappresentano,
in un percorso espositivo di straordinaria eleganza, il momento conclusivo
di una ricerca attraversata dall'esigenza di comporre la fluidità
della tessitura segnica nell'equilibrio di armoniose strutture spaziali.
[…] Questo ciclo sugella l'irreversibilità del processo di contenimento
del campo segnico e ne annuncia il decentramento compositivo mediante
l'introduzione di bande scure laterali che lo fanno slittare verso uno
dei bordi del quadro. Il passaggio decisivo avviene l'anno successivo
con le "Partiture spaziali", che danno il titolo all'intera mostra.
Qui la musicalità, un tratto della pittura di Antonio di Girolamo
rilevato unanimamente dalla critica, non s'affida più all'andamento
corsivo dei segni, alla loro incalzante, incontenibile e persino ossessiva
diffusione, ma al movimento di molteplici, piccoli e ben delimitati
campi, alla distribuzione ritmata di tasselli di segni e di luce che
sembrano richiamarsi l'un l'altro e spostarsi armoniosamente lungo gli
assi ortogonali che scandiscono la superficie del quadro.
Giuseppe Siano,"Flussioni" di
mondi curvilinei e manifestazione di mondi"caotici" nel geometrismo
astratto-infinetisimale di Antonio di Girolamo. "Terzo Occhio", dicembre
2000. […] La pittura di di Girolamo sottolinea come l'universo
sia considerato oggi una indivisibile e temporanea unità formata da
organizzazione di pure energie in costante e mutua trasformazione. Egli
fa esplodere il contenuto. Seziona la forma, le rende astratta, la infinitesimalizza,
liberandola dalla rigida assolutezza della sua organizzazione macroscopica
nello spazio; ma questa non rinasce né sotto una suggestiva vitalità,
quale poteva essere il segno magico primitivo, e neppure si ricicla
sotto il segno dell'arabesco romantico. L'unica cosa che egli rinviene
nei propri frammenti infinitesimali sono delle striscioline [o aree]
caotiche. In esse si può rilevare la proposta di una recuperata vitalità
dell'astratto creata da pure energie insite nella forma e nel colore
e nella reciproca relatività. Forma e colore, dell'astratto geometrico
e dell'astratto informale, sottolineano le continue fratture, tra ordine
e disordine, sia nella organizzazione di di Girolamo che in quella organizzazione
che scaturisce dalle teorie scientifiche sulla nuova costituzione del
cosmo.
Vitaliano Corbi, I percorsi dell'astrazione a
Napoli tra progettualità estetica e soggettività precategoriale, in"
CHIAROscuro", anno I°, n°1, (pagg. 12-14), Nocera Inferiore (SA) 2001.
[...] Quella dell'astrazione a Napoli è, dunque, un'area molto
ampia e variegata, nella quale s'incontrano numerose personalità, tutte
operanti entro un comune orizzonte di ricerca non figurativa, ma ciascuna
con un proprio nucleo d'ispirazione e una propria cultura visiva. E
voglio chiudere queste note soffermandomi su due casi particolarmente
sintomatici della vitalità della ricerca astratta a Napoli. Il primo
è quello di Antonio di Girolamo. [...] Al primato del segno si lega,
dunque, quello della superficie pittorica che tuttavia non comporta,
per di Girolamo, la totale rinuncia ai valori di profondità. La superficie
su cui segno e colore tessono il loro fitto dialogo è piuttosto un approdo
, che si porta dietro un un alone di spessori, un eco di vari luoghi
, in un modo che sembra far nascere l'immagine pittorica da una musicalità
interiore. …
Vitaliano Corbi, Le nostre Vele, catalogo esposizione
Vele d'Artista, Lungomare Caracciolo ( a cura di V. Corbi e G. Segato
), Napoli, maggio 2001. […] Su questa stessa linea, ma più incline
ad accogliere l'esigenza di una ricomposizione segnica dell'energia
cromatica, si colloca il lavoro di Antonio di Girolamo. Il suo triangolo,
rigorosamente inscritto nel perimetro bianco della vela, stringe a sua
volta, nel proprio spazio, il tracciato fitto ed incurvato dei blu e
dei rossi, frenando l'andamento espansivo dei segni nella salda geometria
della composzione.
|
|