Archivio Attivo Arte Contemporanea
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Labirinti
metafore della conoscenza
Biblioteca Comunale di Como
5 luglio - 26 agosto 2014

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Irene Malfatto: Viaggiatori in Oriente nel medioevo, tra realtà e mito

Tema di questo incontro è il labirinto come metafora della conoscenza. Parlerò in questo senso di conoscenze che si intrecciano, che si sovrappongono, che fanno perdere l'orientamento anche dal punto di vista spazio-temporale. Se nell'epoca attuale il labirinto per eccellenza è quello della rete, in cui una enorme massa di dati si squaderna davanti al lettore/fruitore senza nessun tipo di controllo, per altri periodi storici possiamo tuttavia parlare, a buon diritto, di un labirinto di carta, un labirinto libresco. Mi riferisco in primo luogo al Medioevo, epoca in cui la diffusione delle conoscenze era affidata al libro manoscritto, sul quale non pesava alcun tipo di logica editoriale o di "diritto d'autore": le idee si copiavano, ricopiavano, modificavano, riassumevano, tagliavano, incollavano e sovrapponevano senza alcun controllo e creavano nelle menti dei lettori, già usi a una lettura del cosmo in senso simbolico, un vero e proprio labirinto di informazioni. Per questo incontro ho scelto di parlare di un tema in particolare, che ben esemplifica questo modulo conoscitivo: la conoscenza dell'Oriente nel medioevo. Prima che si rendesse possibile, davvero, viaggiare materialmente in quelle terre lontane, all'uomo del medioevo la conoscenza dell'Oriente arriva mediata da una serie di fonti letterarie, che nell'insieme costituiscono un vero e proprio groviglio/labirinto di dati. In primo luogo, ci sono i testi che derivavano dall'Antichità: un ruolo importante è quello della Naturalis Historia del nostro concittadino Plinio il Vecchio, vera e propria enciclopedia, che traeva le sue informazioni sul continente asiatico da resoconti di viaggiatori antichi più o meno attendibili, tra cui quelli che lui chiama "compagni di viaggio" di Alessandro Magno (personaggio che per tutta l'antichità romana e il medioevo rimarrà una figura emblematica di "viaggiatore" in Oriente: su di lui fioriranno tutta una serie di leggende). Plinio arriva al Medioevo a sua volta mediato da un'enciclopedia tardoantica, i Collectanea Rerum Memorabilium (raccolta di cose meravigliose) di Gaio Giulio Solino, che riassume e condensa il contenuto della Naturalis Historia e di altri testi. Un'altra fonte di primo piano, poi, è costituita dalla Bibbia, che ambienta le storie dell'Antico testamento nel vicino Oriente e colloca lo stesso Paradiso terrestre, secondo il testo della Genesi, a Oriente. La prima grande enciclopedia medievale in cui queste conoscenze confluiscono sono le Etimologie di Isidoro di Siviglia (VII secolo), vero e proprio testo "di consultazione" che sarà utilizzato a piene mani da tutti gli intellettuali medievali fino al XIII secolo e oltre. Ma di che conoscenza si tratta? In primo luogo, l'Oriente è visto, come ebbe a dire il grande storico Jacques Le Goff, come un "orizzonte onirico": un luogo lontano e misterioso, in cui gli europei proiettano una serie di sogni e fantasie, ma anche di incubi. L'Asia (l'India in particolare), oltre che il luogo d'origine delle spezie, è una terra ricca di meraviglie naturali (fiumi di pietre preziose, manna che piove dal cielo ecc.) e, soprattutto, di razze umane mostruose e deformi. Sono le creature che si vedono talvolta raffigurate sui capitelli romanici o, per fare un esempio, sul bassorilievo raffigurante il Giudizio universale che sormonta il portone centrale della basilica di Vézelay, in Borgogna. Tra questi "popoli", che secondo l'autorità del De Civitate Dei di S. Agostino erano da considerarsi tutti, a buon diritto, "discendenti di Adamo", possiamo citare i cinocefali, uomini con la testa di cane, i panotii (pan-otii= tutti orecchie), con enormi orecchie nelle quali si potevano avvolgere, gli astomi, uomini senza bocca che si nutrivano di profumi, i blemmi, esseri senza testa ma con bocca e occhi sul torace, gli sciapodi, dotati di un unico enorme piede con cui correvano velocissimo e all'occorrenza potevano, da sdraiati, ripararsi dal sole. Dalle enciclopedie, presto, la materia orientale comincia a spostarsi nei testi letterari: già un secolo prima di Isidoro si diffonde in Europa una Lettera all'imperatore Adriano sulle meraviglie dell'Asia, chiaramente fittizia, più nota con il titolo De rebus in Oriente mirabilibus (Le meraviglie dell'Oriente). Dello stesso periodo è anche un'altra lettera fittizia, ancora più incredibile: una Lettera di Alessandro Magno ad Aristotele, suo maestro, sulle meraviglie dell'India. Circola anche un trattato, sotto il titolo di Liber Monstrorum, vero e proprio prontuario delle creature mostruose d'Oriente. Chiaramente opere come queste si nutrono di un collage di fonti, miste a elementi totalmente di fantasia, e contribuiscono a rendere ancora più confusa la percezione di quelle terre lontane. Coerentemente, si comincia ad intrecciare a queste leggende anche la storia biblica: se nell'Apocalisse si dice che, al tempo dell'Anticristo, verranno liberate le terribili popolazioni di Gog e Magog, queste ultime vengono senza dubbio collocate in Oriente, ma rinchiuse dietro un'alta muraglia costruita, a suo tempo, da Alessandro Magno. Dalla formazione di questa leggenda si vede bene la sovrapposizione di tradizioni che sta alla base della conoscenza medievale dell'Oriente. La vera summa di tutte queste meraviglie, mostri e leggende è un testo anonimo del XII secolo, la Lettera del Prete Gianni. Per sistemare in qualche modo tutto il materiale leggendario sull'Oriente si era formata, nel corso dell'XI e XII secolo, la convinzione che in Asia esistesse un gigantesco regno, serbatoio di tutte le meraviglie. Questo regno era governato da un potente sovrano che, però, era di religione cristiana. Effettivamente in Asia centrale esistevano delle comunità cristiane, che dal medio Oriente si erano diffuse sempre più a est e praticavano il cristianesimo nella versione dell'eresia Nestoriana. Nell'epoca delle crociate, la possibilità di avere degli alleati al di là della Terra Santa, che potessero dare man forte ai cavalieri europei nella liberazione del Santo sepolcro dalle mani degli infedeli, assume la concreta fisionomia del Prete Gianni e del suo regno, che quindi assolve una doppia funzione "rassicurante": i mostri sono in qualche modo "circoscritti" e con l'Oriente si intreccia un legame dal punto di vista religioso. Così nel 1165 un anonimo scrittore, fingendosi il Prete Gianni in persona, diffonde in Europa una lettera che ha come destinatari i sovrani occidentali, lettera che immediatamente viene copiata e ricopiata in centinaia di copie manoscritte. Se in tale testo, in origine, prevale l'intento "diplomatico", ossia la presentazione della potenza e della fede cristiana del potenziale alleato dei crociati, nel corso degli anni (venendo anche meno l'obiettivo e lo spirito della crociata) la Lettera si trasforma in una vera e propria raccolta di mirabilia: nei manoscritti si aggiungono sistematicamente nuove parti di testo, che collocano nel regno del Prete Gianni sempre nuove meraviglie e nuovi mostri. Oltre che nelle enciclopedie e nei testi letterari, poi, questa confusa mole di dati viene rappresentata anche nelle prime carte geografiche dell'ecumene: le mappae mundi, di cui vedete un esempio alle mie spalle (mappa di Ebstorf, del XIII secolo - questa è una riproduzione, l'originale è andata distrutta nel corso della II guerra mondiale). Disegni come questi rappresentano bene dal punto di vista visuale il carattere labirintico della conoscenza del mondo: nella rappresentazione dell'oriente, che in questo caso si trova in alto, convergono elementi biblici come il paradiso terrestre, la torre di Babele e l'arca di Noè arenata sul monte Ararat, ma anche Alessandro Magno e i popoli descritti da Plinio e Solino. La situazione ha una svolta drastica a metà del XIII secolo. Nel 1241 irrompe nell'Europa dell'est l'esercito dei Mongoli che, riuniti da Gengis Khan, con lui e i suoi immediati successori si sono lanciati alla conquista del mondo. Subito gli occidentali collocano in qualche modo i mongoli nella loro precostituita immagine dell'Oriente: sicuramente si tratta di quei leggendari popoli di Gog e Magog, che sono stati liberati per annunciare la fine dei tempi. L'angoscia apocalittica lascia però presto il posto a una consapevolezza più lucida: una volta che l'esercito mongolo si è allontanato, gli europei si rendono conto che la loro conoscenza libresca dell'oriente non basta: soprattutto, i libri non bastano a respingere la concreta minaccia di un popolo bellicoso in armi. E così cominciano i primi viaggi in Oriente, non più letterari ma reali, dettati dalla volontà di "spiare" le abitudini dei mongoli così come dallo spirito missionario. E con i primi viaggi cominciano anche le prime difficoltà nel conciliare realtà e letteratura: i viaggiatori, in Oriente, non trovano nessun mostro e nessun regno del Prete Gianni e reagiscono in vario modo a questo senso di disorientamento e di perdita delle loro certezze. Il primo a partire, nel 1245, è un frate francescano, Giovanni di Pian di Carpine. Nel suo resoconto di viaggio, ricco di dettagli del tutto reali sulle usanze e sui costumi dei Mongoli, non mancano i riferimenti ai mirabilia: solo Giovanni si cautela, dicendo che ne ha "sentito parlare". È questo il sistema più usato dai viaggiatori per poter continuare a tramandare ai lettori dei loro racconti l'immagine dell'Oriente che si aspettavano, e per poter continuare, loro stessi, a crederci. E così leggiamo passaggi di questo tipo: "Nel territorio del Tibet […] gli abitanti hanno un'abitudine straordinaria, anzi miserevole, perché, quando qualcuno paga il suo debito con la natura umana, riuniscono tutti i congiunti e lo mangiano, come ci è stato detto con certezza". Oppure: "I Parossiti hanno stomachi e bocche piccolissime, come ci è stato riferito, e non mangiano carne, ma la cuociono e, dopo cotta, si siedono accanto alla pentola e ne aspirano il fumo: soltanto di questo si nutrono". Giovanni riferisce poi delle tribù mostruose con le quali Gengis Khan ha dovuto scontrarsi per consolidare il suo grande impero: qui la cautela è doppia, perché al "sentito dire" si aggiunge il tempo passato. "In un territorio che si affaccia sull'Oceano trovarono dei mostri, come ci è stato detto con certezza, che in tutto avevano aspetto umano, ma i cui piedi terminavano in zoccoli bovini e che avevano la testa di uomo e il volto di cane". Oppure: "Trovarono altri mostri che, come ci è stato assicurato, avevano aspetto umano ma avevano un solo braccio con la mano in mezzo al torace e un solo piede; in due scagliavano frecce con un solo arco e correvano così velocemente che i cavalli non potevano raggiungerli. Infatti correvano saltando su quell'unico piede e, quando si stancavano di camminare così, si muovevano sulla mano e sul piede, rigirandosi quasi come una ruota". Simile anche il racconto di Odorico da Pordenone, che partì per l'Oriente verso il 1318. Un'altra tecnica che Odorico usa per lasciare intatte le "meraviglie" orientali è la reticenza: "Le donne di quel popolo si radono il viso e la barba, mentre gli uomini no. E così potrei dire di molte altre loro abitudini, mirabili e bestiali, che però preferisco tralasciare". Oppure: "Esistono genti crudeli e pessime, che si nutrono di carne umana come qui ci nutriamo di quella bovina […]. In questo paese arrivano mercanti da molto lontano, che portano con sé dei bambini e li vendono a quegli infedeli, i quali li comprano, li uccidono e li mangiano. E si fanno molte altre cose, mirabili e orribili, di cui non scrivo". Oppure, ancora, il "sentito dire": "Posso anche parlare di un'altra cosa davvero meravigliosa, che però non vidi di persona, ma appresi da persone degne di fede. Si dice che […] ci sono dei monti chiamati Capei, dove nascono dei meloni tanto grandi che, quando sono maturi, si aprono e ci si trova dentro una bestiola, grande come un piccolo agnello". Comincia però ad affacciarsi la disillusione: "Passando per molte città e molte terre arrivai alla terra del Prete Gianni, del quale non è vera neanche la centesima parte di di quello che si dice di lui. La capitale del suo regno è chiamata Cassan, della quale potresti dire che Vicenza è più bella". Più razionale invece l'atteggiamento di un'altro missionario francescano, Guglielmo di Rubruk, che parte per l'Oriente prima di Odorico, nel 1253. Degli abitanti del Tibet dice: "Essi avevano l'uso di mangiare i loro genitori, quando morivano […]. Ai nostri giorni hanno abbandonato questa pratica, perché erano considerati abominevoli da tutti gli altri popoli". O ancora, significativamente: "Molto ho chiesto anche dei mostri e degli uomini mostruosi di cui parlano Plinio e Solino; mi hanno risposto di non aver mai visto cose simili, e sarei molto sorpreso se esistessero davvero". Subito dopo, però, Gugliemo sente parlare un sacerdote cinese di "creature che hanno in tutto aspetto umano, tranne che per il fatto che non possono piegare le ginocchia e si muovono, non so come, saltando; sono alti non più di un cubito, hanno tutto il corpo ricoperto di peli e abitano in grotte inaccessibili". Ma poi ritorna allo scetticismo: "Mi hanno raccontato che oltre il Catai c'è una regione in cui non si invecchia, ma uno rimane della stessa età che ha quando vi arriva. Mi hanno assicurato che è vero, ma io non ci credo". Analogo l'atteggiamento di Giovanni da Montecorvino, il primo Arcivescovo di Pechino (dal 1308), che in una delle lettere che manda in Europa spiega: "Delli omini da maravigliare, cioè chontrafatti da gli altri, e delli animali, e del paradizo terrestro, molto adimandai e cierchai; alchuna chosa trovar none potti". L'ultimo viaggiatore di cui intendo parlare è Giovanni de' Marignolli (partito nel 1338), l'ultimo a recarsi in Cina prima che l'impero mongolo cada e subentri la dinastia Ming, che impedirà per lungo tempo ogni tipo di contatto con gli occidentali. Come già Rubruk e Montecorvino, Giovanni spiega di aver cercato i mostri ma di non averli trovati, ma si spinge oltre: "Ho attraversato le principali province della terra, e sono stato là dove si concentrano i mercanti di ogni paese […], ma non sono mai riuscito a scoprire davvero se i popoli mostruosi esistano o meno in qualche parte nel mondo: anzi, erano a volte gli stessi mercanti a chiedere a me se i mostri esistessero. Ne concludo che non esistono popolazioni fatte di mostri […] e neanche coloro che sono descritti farsi ombra con un unico piede, nemmeno loro sono una popolazione: semplicemente, gli indiani girano comunemente nudi, e portano sempre in mano un piccolo ombrello […] e lo usano quando vogliono per ripararsi dal sole e dalla pioggia. Questo oggetto i poeti hanno fantasticato che fosse un piede". Nonostante questo estremo tentativo di "razionalizzare" il mostro, il viaggiatore non abbandona comunque l'atteggiamento "meravigliato" dei suoi colleghi: nell'isola di Ceylon (Sri Lanka) è assolutamente convinto, anche se non lo può dimostrare, di trovarsi a un passo dal paradiso terrestre: "Gli abitanti del luogo sostengono […] che da lì al paradiso ci sono quaranta miglia: esso è tanto vicino che, come dicono, si può udire il suono delle fonti d'acqua che vi sgorgano". Abbiamo visto, da parte di questi personaggi, diversi modi di trovare una strada da percorrere entro il labirinto della conoscenza dell'Oriente. Si va da chi si lascia sedurre dal vortice dei "mirabilia", pur tenendo un piede fuori con la scusa del "sentito dire" a chi si mostra sconvolto e disorientato dal non aver trovato quello che si aspettava. Infine si ha il riconoscimento della finzione letteraria, e la trasformazione della "meraviglia" in un atteggiamento mentale: non meraviglie effettive dunque, ma oggetti guardati con l'occhio della meraviglia. Perché dal labirinto creato dalla letteratura non si esce così facilmente: il labirinto letterario si trasforma in labirinto mentale, griglia di riferimento attraverso cui guardare il mondo, vera "metafora della conoscenza" dunque.

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