ICAROMENIPPO
o IL PASSANUVOLI di LUCIANO DI SAMOSATA II SECOLO Traduzione
di Luigi Settembrini - 1862 (pagina a cura di Michele Caldarelli)
Menippo
ed un Amico
Menippo.
Dunque eran tremila stadii dalla terra sino alla luna,
dove ho fatta la prima posata: di là fino al sole un cinquecento parasanghe;
e dal sole per salir sino al cielo ed alla
rocca di Giove ci può essere una buona giornata di aquila. Amico.
Deh, che vai strolagando fra te, o Menippo, e misurando
gli astri? Da un pezzo ti seguo, e t’odo borbottare di
sole e di luna, e con certe parolacce forestiere di posate e di
parasanghe.
Menippo.
Non ti maravigliare, o amico, se io parlo di cose
celesti ed aeree: facevo tra me il conto d’ un fresco viaggio.
Amico.
E, come i Fenicii, tu dal corso degli astri misuravi il cammino? Menippo.
No, per Giove: io ho fatto un viaggio proprio negli astri.
Amico.
Per Ercole, hai fatto un sogno ben lungo, se hai dormito
per tante parasanghe senza avvedertene. Menippo.
Credi eh’ io ti conti un sogno, se io torno or ora da Giove? Amico.
Come dici? Menippo ci viene da Giove, c’è piovuto dal cielo? Menippo.
Io si, vengo da Giove appunto adesso, ed ho udite
e vedute coso inestimabili. Se non credi, ci ho più gusto: cosi
ho avuta una incredibile ventura. Amico.
E come, o divino e celeste Menippo, io mortale e
terrestre potrei non credere ad un uomo che ha passalo i nuvoli
ed è, per dirla con Omero, uno degli abitatori del cielo?
Ma dimmi come se’ montato lassù, e dove hai trovata una
scala cosi lunga? Tu non mi hai il visino di quel bel frigio, si
che io possa credere che anche tu se’ stato rapito dall’aquila e
fatto coppiere. Menippo.
Vedo cho mi canzoni. Ma io non mi maraviglio che,
dicendoti una si nuova cosa, la ti paia una favola. Eppure per
salire lassù non ho avuto bisogno nè di scale, nè di visino
baciato dall’aquila; chè io ci son volato con le penne mie. Amico.
Oh! cotesta é più gran cosa di quella che fece Dedalo,
ed io non sapevo che d’uomo se’ divenuto nibbio o cornacchia. Menippo.
Bene, tu quasi t’apponi, o amico. Quell’ingegno delle
ali di Dedalo T’ho adoperato anch’ io. Amico.
E non hai temuto, o gran temerario, di cadere in
mare anche tu, e farci dire il mar Menippeo, come diciamo l’
Icario? Menippo.
Niente. Perchè Icaro s’appiccò le ali con la cera,
che al sole tosto si liquefece, ed ei rimasto spennacchiato dovette
cadere : ma le mie brave ali non avevano cera. Amico.
Come va cotesto? Oh, tu a poco a poco mi farai creder
vero ciò che mi dici. Menippo.
Ecco come. Presi una grande aquila, ed un forte
avoltoio, e tagliate loro le ali.... Ma è meglio raccontarti da
capo tutta questa invenzione, se vuoi udirmi. Amico.
Ben voglio. Già mi levo alto anch’ io dietro al tuo discorso,
e t’odo a bocca aperta. Pel Dio dell’ Amicizia, comincia il
racconto, non tenermi più sospeso con gli orecchi. Menippo.
Odi adunque: chè non saria un bello spettacolo lasciare
un amico con la bocca aperta e sospeso dagli oreechi, come
tu dici. Tosto che io feci un po’ di riflessione sulla vita
umana, trovai che le ricchezze, le signorie, le grandezze sono
instabili, ridevoli, meschine assai : onde sprezzandole, e tenendole
come un impaccio a conseguire altre cose veramente serie,
io tentai di levar gli occhi in su, e di rimirar l’universo. Ma
in prima io tutto mi confusi a contemplar questo che
da’savii chiamasi mondo: non sapevo capacitarmi come è
nato, chi l’ha fatto, se ha avuto principio, se avrà fine. E poi
considerandone le parti, più cresceva la mia confusione: miravo
le stelle disseminate pel cielo, miravo il sole, e mi struggevo
di sapere che cosa ei fosse: e massime quel che fa la
luna mi pareva una strana e mirabile cosa, e non vedevo perchè
ella muta sempre facce; e la folgore così rapida, il tuono cosi
fragoroso, la pioggia, la neve, la gragnuola così veemente, tutte
queste cose non potevo spiegarmele, né trovarne la cagione. Vedendomi
adunque così smarrito, i’ pensai che avrei potuto
apprender tutto dai filosofi; perchè credevo che essi dovessero
sapere e dirmi la verità. E però avendo scelti i migliori
tra essi, a quei segni ch’io vedevo, all’austerezza dell’aspetto,
alla pallidezza del volto, e alla profondezza della barba
(parendomi uomini che parlavano sublimo linguaggio, e
conoscevano il cielo); io mi misi nelle mani loro; e mediante una
buona somma di danari, che parte anticipai, parto promisi
dare quando m’ avesser fatto filosofo , credetti dover imparare
e ragionare di tutte le cose celesti , e dell’ordine dell’universo. Fattostà
invece di sciogliermi da quella mia ignoranza, mi
ravvilupparono in maggiori incertezze , empiendomi il
capo ogni giorno di principii, di fini, di atomi, di vuoto, di materia,
d’idee, e di altre frasche. E per mio maggior tormento, l’uno
diceva l’opposto dell’altro, erano un sacco di gatti,
e ciascuno voleva persuadermi e tirarmi dalla sua. Amico.
È strano questo che mi dici : uomini sapienti contendevano tra
loro di cose esistenti, e su la cosa stessa non avevano
la stessa opinione. Menippo.
Tu rideresti davvero, o amico mio, se udissi le
loro iattanze, e le imposture che spacciano. Essi che han camminato
sempre su la terra, che non han niente più di noi che
su la terra camminiamo, non hanno la vista più acuta degli
altri, anzi essendo vecchi o loschi ci vedono pochissimo, eppure
essi affermano di aver vedute le colonne che sostengono il
cielo, aver misurato il sole, aver camminato per gli spazi
, che sono sopra la luna , e come se fosser caduti dagli astri
ne descrivono la grandezza e la figura. Spesso accade che
ei non sanno bene quanti stadii ci ha da Megara ad Atene, ed
osan dire quanti cubiti è distante la luna dal sole, e quanto l’una
e l’altro son grandi, che altezza ha l’aria, che profondità il
mare, misurano e dividono la circonferenza della terra; e
poi descrivendo cerchi, disegnando triangoli, quadrati e sfere,
danno a credere che misurano il cielo. Quel che prova la
loro superba ignoranza è che ragionano di queste cose oscure
non per congettura, ma con asseveranza, e s’incaponiscono, e
non soffrono che altri ne dubiti, e quasi giurano che il
sole è una palla di ferro rovente, che la luna è abitata, che le
stelle bevono i vapori che il sole quasi con una fune attigne dal
mare e li dispensa a bere a ciascuna. Quanto poi sono contrarii
nelle loro opinioni puoi vederlo facilmente: e vedi, per
Giove, se una dottrina s’avvicina ad un’altra, o se non cozza
con essa. Primamente intorno a questo mondo ciascun d’essi
ha 1’opinion sua: chi vuole che sia increato ed indestruttibile; chi
dice che ha avuto un Creatore, e pretende di sapere
anche come è stato creato : altri , che mi facevano più maravigliare,
parlano di un certo iddio artefice di tutte le cose,
ma non dicono donde era venuto e dove egli stava quando
fabbricava il mondo: perchè prima che fosse la terra e
l’ universo è impossibile concepire tempo e luogo. Amico.
Che uomini temerarii ed impudenti son costoro, o Menippo. Menippo.
E che diresti, o amico mio, se tu udissi le loro pappolate
su le idee, e le cose incorporee, le loro saccenterie sul
finito e sull’infinito? chè sempre fresco è il battagliare di questo
tra coloro che diffiniscono un termine all’universo, e coloro
che suppongono che ei non finirà mai. Alcuni ancora vogliono
dimostrare che i mondi sono moltissimi, e sfatano chi
sostiene che ve n’é uno. Un altro poi (ei non era uomo di
pace) credeva che la guerra sia madre di tutte le cose. Intorno agli
Dei chi ti può dire quante ne contano? Per alcuni la
divinità era un numero; altri giuravano pe’ cani, por le ocbe,
pe’ platani. Questi davan lo sfratto a tutti gl’iddii, o ponevano
uno solo in signoria del tutto : onde a me s’ impoveriva l’
animo udendo che c’ era si gran carestia di dei : ma altri
per contrario liberalissimi ne ammettevano molti, li dividevano in
classi, chiamavano uno primo iddio, e davano agli
altri il secondo o terzo grado di divinità. E di più alcuni credevano
che gl’iddìi non han nè corpo nè figura ; od altri li
concepivano con certi corpi. Che gli dei badano agli affari di
quaggiù, non tutti 1’affermavano: ma vi era chi levava loro questo
incomodo, come noi sgraviamo i vecchi dai pubblici negozi,
e non li faceva entrar per niente in commedia, come fosser
comparse sul teatro. Altri finalmente mandando a monte ogni
cosa, e dei, e non dei, credevano che il mondo senza signore
e senza guida vada cosi a caso. Udendo tutte queste cose,
io non m’attentava di negar fede ad uomini che avevano una
voce e una barba mirabile; ma ripensando ai loro discorsi
io non sapevo come non trovarvi errori molti e contraddizioni. Onde
m’interveniva proprio come dice Omero: spesso
mi sforzai di credere a qualcuno di loro, ma un altro pensier
mi tratteneva. Tra tutti questi dubbi, disperando di poter
sapere la verità su la terra, mi persuasi che una sola via
vi sarebbe per uscire di quell’affanno, se io stesso volando andassi
in cielo. E mi dava qualche speranza il gran desiderio
che n’avevo, ed Esopo che nelle sue favole ci conta
come aquile e scarafaggi e camelli ancora seppero trovare
per dove si va in cielo. Ma perchè vedevo che l’ ali non
mi nascerebbero mai, pensai di appiccarmi le ali d’ un avoltoio
o di un’aquila, le sole proporzionate al corpo d’un uomo,
e così tentare una pruova. Presi adunque questi uccelli, e
tagliai accuratamente l’ala destra dell’aquila e la sinistra
dell’ avoltoio, le congiunsi, me le attaccai agli omeri con
forti corregge, adattai alle punte un ingegno per tenerle con
lo mani, e feci la prima pruova, saltellando ed aiutandomi con
le mani, e come le oche che appena si levan di terra,
io andavo su le punte de’ piedi e dibattevo l’ali. Accortomi che
riuscivo, divenni più ardito , e montato su la cittadella mi
diedi in giù, e venni fin sopra il teatro. Fatto questo
volo senza pericolo, ne tentai altri più lontani e più alti
: e spiccatomi dal Parneto o dall’Imetto andavo librato fino
al Geranio; e di là sopra l' Acrocorinto ; e poi sul Foloe, sull’
Erimanto sino al Taigete. L’ esercizio mi crebbe 1’ardire, e
l’arte , e la forza di montare più su , e far altri voli che
questi da pulcini: onde montato su l’Olimpo, leggiero quanto
più potevo, con un po’ di provvisione, mi levai diritto al
cielo. In prima 1’altezza grande m’aggirava il capo, ma dipoi
mi vi adusai facilmente. Avvicinandomi alla luna, e lasciate
molto indietro lo nuvole, mi sentivo stanco, massimo nell’ala
sinistra, quella dell’ avoltoio: però arrivato in essa, e
sedutomi, mi riposavo, guardando giù su la terra come il Giove
di Omero, e gettando lo sguardo or su la Tracia altrice di
cavalli, or su la Mesia ; e poi a mio talento su la Grecia, su
la Persia, su l’India; e quella gran vista mi empiva di diletto maraviglioso. Amico.
Narrami ogni cosa, o Menippo, ogni cosa del tuo viaggio
e quante maraviglie vi hai vedute , chè io desidero saperle.
Già m’aspetto di udirne non poche ; e che vista ti faceva
la terra, e quello che è su di essa, a riguardarla di lassù. Menippo.
Ben dicesti non poche: epperò, o amico, monta su
la luna con la tua immaginativa, viaggia dietro le mie parole e
riguarda con me tutte le cose come son disposte su la terra.
E primamente parvemi molto piccola veder la terra, assai più
piccola della luna ; per modo che a un tratto volgendomi in
giù, non sapevo più dove fossero questi monti e questo si gran
mare, e se non avessi scorto il colosso di Rodi e la torre del
Faro, la mi saria interamente sfuggita. Ma queste due moli altissime,
e 1’Oceano che tranquillo rifletteva i raggi del sole, mi
fecero accorto che io vedevo la terra. E come vi ficcai gli occhi
attenti mi si parò innanzi tutta la vita umana, non pure le
nazioni e le città , ma gli uomini stessi , chi navigava , chi guerreggiava,
chi coltivava i campi, chi piativa; e le donne, e
le bestie, e tutto quello che l’ almo seno della terra nutrisce. Amico.
Tu mi di’ cose incredibili e contradittorie. Poco fa,
o Menippo, tu non sbirciavi la terra tanto rappicciolita per
la lontananza, che se non era il colosso, tu non l’avresti veduta;
ed ora come subito divieni un Linceo, e scorgi tutte le
cose che essa contiene, e gli uomini , e gli animali e, per poco
non dicesti, anche le uova di moscherini! Menippo.
Oh, a proposito, me l’hai ricordato: dovevo dirti
una cosa, e l’ho tralasciata non so come. Quando adunque io
mi accorsi di vedere la terra, ma di non poter discernere altro
per la gran lontananza, per la quale appena vi giungeva
l’occhio, io mi sentii tutto contristato e smarrito. E
stando in questo affanno, e quasi spuntandomi le lagrime, ecco
da dietro le spalle mi viene innanzi il filosofo Empedocle, nero
come un carbonaio, e incenerato, e mezzo abbrustolato. Come
io vidi costui, ti dico il vero, mi sconturbai, e lo
credetti un qualche genio lunare. Ma egli: Non temere, o Menippo,
disse; io non sono un iddio; perchè mi pareggi agl'immortali? Io
sono il fisico Empedocle. Poiché mi gettai nei crateri dell’Etna,
da un vortice di fumo fui portato qui nella luna,
dove ora abito, e vo passeggiando per l’aere e mi cibo di
rugiada. Vengo a cavarti di questo impaccio e di questo sgomento
che hai per non vedere quel che è sulla terra. O generoso Empedocle,
diss’io, tu mi fai un gran benefizio: e tosto
eh’ io rivolerò giù in Grecia, non dimenticherò di mandarti pel
fumaiuolo del mio focolare il fumo d’una libazione, e
quando è luna piena aprir tre volte la bocca verso di lei e farti
una preghiera. — No, per Endimione, rispose, non ci son venuto
per aver ricompensa, ma mi dolse di te, vedendoti cotanto
affannato. Sai che devi fare per rischiarare ed aguzzare la
vista?— No, dissi, se tu non mi togli questa caligine dagli
occhi, chè me li sento come chiusi da molte cispe. —Non
hai affatto bisogno di me : tu hai portato da terra ciò che te la
può rischiarare. — E che è? io noi so. — Non sai che t’ hai legata
l’ ala destra di un’ aquila?—Si: ma che ha che far l’ala con
l’occhio?— L'aquila fra tutti gli uccelli ha la vista più acuta,
e solo essa può riguardare nel sole : e in questo si riconosce 1’
aquila regale e legittima, se non batte le palpebre ai
raggi del sole.—Cosi dicono: ed io mi pento che nel venir qui
non mi ho mosso un paio d’ occhi d’aquila . e non m’ho cavati
i miei: io non ci ho portato niente di regale io, e son
come un bastardo e diseredato. — Eppure a te sta l’aver
tosto l'un occhio d’aquila reale. Se tu, sollevandoti un
po’, tieni ferma l’ala dell’avoltoio, ed agiti solo l’altra, per
ragione dell’ala l’ occhio destro acquisterà vista acutissima: l’altro
deve averla corta, perchè ò della parte meno nobile.
— Mi basta, risposi, che il destro solo mi diventi aquilino
: non ci vedrei meglio con due : e mi ricorda che spesso
i falegnami con l’un occhio meglio sguardano se un legno
è ben diritto e spianato. Detto questo feci come m’aveva detto
Empedocle : il quale indi a poco allontanandosi svanì in
fumo. Non sì tosto io battei l’ ala , che subito una luce grandissima
mi sfolgorò d’ intorno, e mi mostrò tutte le cose fino
allora nascoste. Volsi giù lo sguardo alla terra, e vidi chiaramente le
città, gli uomini, e tutto ciò che essi facevano non pure
a cielo scoperto, ma nelle case dove credono che nessuno li
vegga. Tolomeo giacersi con la sorella; Lisimaco insidiato dal
figliuolo; Antioco figliuol di Seleuco che faceva d’occhio alla
madrigna Stratonica; Alessandro il tessalo ucciso dalla moglie;
Antigono svergognar la moglie del figliuolo; il figliuolo di
Attalo che gli porgo un veleno: da un’altra banda Arsace uccider
la sua donna, e l’eunuco Arbace tirar la spada contro Arsace;
e Spatino il Medo fuor del convito da’ suoi satelliti strascinato
per un piede, e con un ciglio spaccato da una tazza
d’oro. Simili cose io vedeva in Libia, fra gli Sciti, fra i
Traci: nei regali palagi stuprare, scannare, insidiare, rapire, spergiurare,
temere, e i più intimi tradire. Questo spettacolo mi
davano i re: i privati poi mi facevano ridere. Io vedevo Ermodoro
l’Epicureo spergiurare per mille dramme, Agatocle lo
stoico litigar col discepolo pel salario, Clinia il retore rubare una
coppa dal tempio di Esculapio, ed il cinico Enofilo dormire
in un chiasso. Che potrei dirti degli altri?, chi rubava, chi
scassinava, chi litigava, chi prestava, chi ripeteva. Ingomma era
uno svariatissimo e larghissimo spettacolo. Amico.
Fammene un po’ di descrizione, o Menippo. Parmi che
tu non ci avesti poco diletto. Menippo.
Raccontarti tutte le cose per filo è impossibile, o
amico mio, quando m’era fatica anche il vederle. Le principali eran
come quelle che Omero descrive rappresentate su lo
scudo d’Achille: qua nozze e conviti, là tribunali ed adunanze; in
un luogo si faceva sagrifizi, in un altro si piangeva un
morto. Gettavo lo sguardo nella Gotica, e vedeva i Geti guerreggiare;
più in là su gli Sciti, e li vedeva erranti su le loro
carrette; volgevo l’occhio un po’ dall’altra banda e miravo gli
Egiziani coltivare la terra, i Fenicii trafficare, i Cilicii pirateggiare,
gli Spartani farsi flagellare, gli Ateniesi piatire. Da
tutte queste cose che accadevano nello stesso tempo considera
tu che guazzabuglio pareva. Egli era come se uno prendesse
molti coristi, o meglio molti cori, e comandasse a ciascun
cantore di non badare ad accordo, ma cantare ciascuno il
suo verso: gareggiando questi tra loro, seguitando ciascuno
il verso suo, e volendo soverchiar la voce dell’altro, intendi
tu, per Giove, che nuovo canto saria cotesto? Amico.
Cosa da cani, o Menippo, e da riderne assai. Menippo.
Ebbene, o amico mio, tutti su la terra sono come
quei coristi, di questa confusione è composta la vita umana;
gli uomini non pure parlano in diverso tuono, ma vestono
in diverse fogge, si muovono in diverso modo, e pensano con
diversi capi , finché il maestro che batte il tempo li scaccia
ad uno ad uno dalla scena, dicendo che non bisognano più:
allora tutti diventano simili, zittiscono, e non cantano più quella
confusa e discorde canzona. Insomma tutte le cose svariatissime che
si rappresentano su questo gran teatro mi parevano ridicolezze:
e specialmente mi facevan ridere coloro che contendono
per un pezzo di terra, che superbiscono di coltivare le
pianure di Sicione, o di possedere quella di Maratona presso
il monte Enoe, ovvero mille,iugeri in Acarnania; perchè tutta
la Grecia , di lassù, non mi pareva di quattro dita, e in
paragone l’Attica non era più che un punto. Onde io pensavo quanta
è la parte che ne hanno i ricchi che ne menano tanta
superbia : chi di essi possiede più iugeri mi pareva che coltivasse
uno degli atomi di Epicuro. Gettando gli occhi sul Peloponneso,
e vedendo la Cinosuria, mi ricordai quanti Argivi e
Lacedemoni caddero in un sol giorno per una particella di
terreno non più larga di una lenticchia d’Egitto. E so ve- devo
qualche ricco tutto gonfio e pettoruto per avere otto anelli e
quattro coppe d’oro, quanto meno ridevo; perchè il Pargeo con
tutte le mine, non era più d’un granello di miglio! Amico.
O fortunato Menippo, che vedesti si maraviglioso spettacolo.
Ma e le città e gli uomini quanto ti parevano di lassù? Menippo.
Certo hai veduto talvolta un mucchio di formiche; quali
entrano, quali escono, quali vanno attorno il formicaio; una
caccia fuori le lordure, un’altra, afferrato un guscio di
fava o un mezzo granello , corre portandolo in bocca: e
paro che anche tra esse ci sieno ed architetti, e capipopoli, e
magistrati, e musici, e filosofi. Le città adunque con gli uomini
mi parevano formicai. E se il paragone tra gli uomini e
le formiche ti par troppo piccolo, cerca le antiche favole de’
Tessali, e troverai che i Mirmidoni, gente bellicosissima, di
formiche diventarono uomini. Ma poiché fui sazio di vedere e
di ridere, scossi l’ale, e dirizzai il volo a
la magione dell’ Egioco Giove E
degli altri immortali. Non
m’era levato uno stadio, e la Luna, con una vocina di donna:
O Menippo, disse, fa’ buon viaggio, e portami un’ambasciata a
Giove. Di’ pure, risposi, un’ ambasciata non pesa a portarla.
L’ambasciata è facile, disse, è una preghiera che da parte
mia presenterai a Giove. Io sono stucca, o Menippo, di udire
i filosofi che ne dicon tante e poi tante di me, e non hanno
altro pensiero che d’impacciarsi de’fatti miei, chi son io,
e quanto son grande, e perchè ora sono scema ed ora son piena:
chi dice che sono abitata, e chi che son come uno specchio pendente
sul mare, ed ogni sciocchezza che pensano l’appiccano a
me. Han detto finanche che questa luce non è mia, ma
è roba rubata, e me l’ho presa dal Sole; e non la finiscono, e
per questo mi faran bisticciare e venire alle brutte con mio fratello;
non essendo contenti di sparlare del Sole, che è una pietra,
e una palla di ferro rovente. Eppure io so molti dei fatti loro,
e quante vergogne e sporcizie fanno la notte questi che il
giorno paion santoni all’aspetto ed alle vesti, e gittano la polvere
agli occhi degl’ignoranti. Io vedo tutto, e taccio, per- ché
credo che uon mi conviene a me illuminare le loro tresche notturne,
e svelar quasi su la scena i fatti di ciascun di loro: anzi
se ne vedo qualcuno che commette adulterio, o furto, o altra
ribalderia che vuole il più fitto buio, io subito prendo una
nuvola e me ne ricopro, per non mostrare agli uomini questi
vecchi che svergognano la barba e la virtù. Eppure non la
voglion finire, e parlan sempre male di me, e mi dicono ogni
maniera d’ingiurie. Onde io, giuro alla Notte, molte volto volevo
proprio andarmene di qui, fuggire il più lontano da essi per
non sentirmi più tagliare da quelle male lingue. Ricordati di
dirgliele tutte queste cose a Giove, e aggiungivi ancora che qui
non ci posso star più, se egli non fulmini tutti quei fisici, non
imbavagli i dialettici, non rovesci il Portico, non bruci l’Accademia,
e non faccia finir le dispute nel Peripato: ché solo
cosi potrò stare un po’ cheta, e non essere ogni giorno misurata.
— Farò ogni cosa, io risposi, e mi levai sublime verso il cielo Dove
orma non appar delle fatiche Degli
uomini e dei buoi. Indi
a poco la Luna mi parve piccolissima, e non vidi più la terra:
e prendendo a destra del Sole, e volando in mezzo agli astri,
il terzo di m’avvicinai al cielo. In prima disegnai di entrar diritto
dentro, credendo che nessuno mi baderebbe, perchè essendo
io mezzo aquila, sapevo che l’aquila è tutta cosa di
Giove. Ma poi ripensai che subito saria stato scoverto per l’altra
ala dell’ avoltoio. Onde per non mettermi a nessun pe- ricolo,
mi feci alla porta, e picchiai. Mercurio udì, dimandò chi
era, e subito portò l’ambasciata a Giove: tosto fui messo dentro
tutto spaurito e tremante, e te li trovo tutti uniti e seduti, e
non senza cura, ma taciti e impensieriti per quel mio maraviglioso
viaggio, quasi attendendo ad ora ad ora che tutti
gli uomini ci venissero volando per simil modo. Ma Giove, voltami
una guardatura in torto e stranamente terribile, disse: Chi
se’ tu, di che gente , che paese? Chi
furo i maggior tuoi ? All’udir
queste parole per poco i’ non morii di paura, rimasi con
la bocca aperta, e intronato da quel vocione. Ma dipoi tornatimi
gli spiriti, raccontai alla semplice ogni cosa per filo, come
io mi struggeva di conoscere le cose celesti, corno andai dai
filosofi, come ne udii dire cose oppostissime, come quello contraddizioni
mi fecero disperare: poi quel mio pensiero, e le
ali, e tutto il resto, sino al cielo: infine aggiunsi ancora l’
ambasciata della Luna. Allora Giove sorridendo un cotal poco
e spianando le sopracciglia: Che maraviglia più di Oto e di Efialte,
disse, quando Menippo ha ardito di salire in cielo? Ma pure
ora ti vogliamo ospitare; e dimani, data risposta a quel che
ci sei venuto a dimandare, ti rimanderemo. Cosi disse, e levatosi
in piedi, s’ incamminò verso un luogo che è come l’orecchio
del cielo; perché già era ora di udir le preghiere. Cammin
facendo mi dimandò di molte cose della terra, o primamente quanto
costa ora il grano in Grecia, se il verno passato è
stato troppo rigido, e se i cavoli vogliono maggiori piogge:
dipoi se ci vive ancora alcuno de’ discendenti di Fidia, per
qual cagione gli Ateniesi non gli fanno più la festa da tant’anni;
se hanno intenzione di finirgli il tempio Olimpio, e
se sono stati presi i ladri che gli han rubato il tempio di Dodona.
Poiché io risposi a ciascuna di queste dimando: dimmi, o
Menippo, dissemi, che opinione di me hanno gli uomini? Che
opinione, io risposi, o signore? Tutti ti rispettano e t’
adorano come re di tutti gli Dei. Bah , tu mi canzoni , disse: io
so bene quant’essi son vaghi di novità, ancorché turni dica
di no. Fu un tempo quando io ero per loro e profeta, e medico,
e tutto; allora ogni piazza, ogni via, piena di Giove; Dodona
e Pisa erano illustri e celebrate, e il fumo de’sagrifizii mi
toglieva il vedere. Ma da che Apollo ha messo bottega di
profezia in Delfo, ed Esculapio di medicina in Pergamo, ed
altre botteghe Bendi in Tracia, Anubi in Egitto e Diana in
Efeso, tutti corrono là, e vi fanno le gran feste, e vi portano le
ecatombe: e a me, che sono già uscito di moda, credono di
farmi onore bastante con un po’ di sacrifizio ogni cinque anni
in Olimpia: onde a vedere i miei altari ei son più freddi delle
leggi di Platone e dei sillogismi di Crisippo. — Cosi
ragionando giungemmo al luogo dove egli doveva sedere, ed
ascoltare le preghiere degli uomini. V’erano in fila alcune botole, simili
a bocche di pozzi, con loro cataratte: e presso a ciascuna stava
un seggio d’oro. Giove sedutosi sul primo seggio, e
levata la cataratta , si pose ad ascoltar le preghiere. Si pregava da
tutte le parti della terra in tante lingue e in tanti modi
diversi: origliai anch’io, e intesi alcune preghiere cosiffatte: O
Giove, fammi diventar re! O Giove, mi vengano bene
le cipolle od i porri e Dei, muoia presto mio padre! Altri
diceva: O fossi erede di mia moglie! O non si scoprisse il
laccio che tendo a mio fratello! Vincessi questo piato! Fossi coronalo
in Olimpia! Dei naviganti chi pregava soffiasse Borea, chi
Noto: gli agricoltori cercavan la pioggia, le lavandaie il
sole. Udiva Giove, e considerando ciascuna preghiera attontamente, non
le accoglieva tutte. Ma il padre degli Dei ne concedeva alcuna,
ed alcun’altra ne negava. Le
preghiere giuste le faceva montar sino alla botola, le prendeva, e
se le poneva a parte destra; le scellerate le scacciava subito
giù con un soffio, perchè neppure si avvicinassero al cielo.
Ma ad una certa preghiera io lo vidi bene impacciato. Due
uomini dimandavano due cose opposte, ma promettevano lo
stesso sacrifizio: ond’egli non sapeva chi dei due contentare; stava
tra il si e il no degli Accademici, non sapeva uscir di
quell’ imbroglio, e come Pirrone, dubitava e considerava. Sbrigatosi
di questa faccenda delle preghiere, passò al seggio ed
alla botola seguente , fe’ capolino, e attese ai giuramenti ed ai
giuratori. Spacciatosi anche da questi, e fulminato l’Epicureo Ermodoro,
sedè sovra un altro seggio, e badò alle divinazioni, alle
voci che corrono, agli augurii. Di là passò alla botola
donde sale il fumo de’sagrifizi, e il fumo dice a Giove Il
nome di chi l’ha offerti. Spedite tutte queste faccende, comandò ai
venti ed al tempo quel ch’era da fare : Oggi piova in
Scizia, tuoni in Libia, nevighi in Grecia: tu, o Borea, soffia in
Lidia, tu, o Noto, sta’ cheto, e tu, o Zefiro, sconvolgi l'Adriatico:
mille medinni di grandine si spandano sulla Cappadocia. —
Regolato
cosi ogni cosa, andammo al convito, essendo già
l’ ora del banchettare : Mercurio mi allogò vicino a Pane,
ai Coribanti, ad Ati, a Sabazio , e a cotali altri forestieri ed
incerti Dei. Cerere ci forni del pane, Bacco del vino, Ercole
delle carni, Venere de’ mirtilli, e Nettuno delle menole. gustai
ancora, ma di soppiatto, l’ambrosia ed il nèttare; ché il
buon Ganimede , che vuol tanto bene agli uomini, quando vedeva
Giove voltar gli occhi altrove, versò una o due ciotole di
nettare e me le porse. Gli Dei, come dice Omero, che certo
vide come me ogni cosa lassù , non mangian pane nè bevon
nereggiante vino, ma si cibano di ambrosia, e s’inebbriano di
nèttare, e sono ghiottissimi del fumo e dell’ odore delle carni
arrostite ne’sagrifizi, e del sangue delle vittime versato intorno
le are dai sagrificatori. Durante il banchetto Apollo sonò
la cetera, Sileno ballò un ballonchio lascivo, e le Muse ritte
in piedi cantarono la Teogonia d’Esiodo, e la prima delle odi
di Pindaro. Poiché venne la sazietà, ci levammo, e ciascuno era
alticcio. Dormian
tutti gli Dei ed i guerrieri Per
l’alta notte ma
su me non venne La
dolcezza del sonno, mi
frullavano pel capo tanti pensieri ; e specialmente come Apollo
da tanto tempo non avesse ancor messo le calugini; come
si fa notte in cielo, che c’è sempre il sole, anzi aveva banchettato
con noi. Infine, allora aveva preso un po’di sonno, che
Giove levatosi per tempissimo, fe’ chiamar parlamento. E
convenuti tutti, egli incominciò: L’ospite che venne ieri mi muove
a qui radunarvi : e già io volevo tener consiglio con voi
intorno ai filosofi , ma ora specialmente per le doglianze della
Luna mi son risoluto di non più indugiare a finir questa faccenda.
Sono costoro una razza d’ uomini venuti su da poco tempo,
oziosi, accattabrighe, vanitosi, stizzosi, ghiotti, inetti, superbi,
pronti ad oltraggiar chicchessia, e, per dirla con Omero,
inutile peso alla terra. Divisi per vari sistemi , e per diversi
laberinti di ragionamenti da loro escogitati, si chia- mano
e Stoici, ed Academici , ed Epicurei, e Peripatetici , e con
altri nomi molto più ridicoli di questi. Vestiti del venerando nome
della virtù, con le ciglia aggrottate, con la barba sciorinata,
coprono col finto aspetto i loro sozzi costumi, e son similissimi
all’istrione, cui se togli la maschera e il vestimento ricamato
d’oro, resta un ridicolo omiciattolo che per sette dramme
rappresenta una parte. Eppure costoro hanno in dispregio tutti
gli uomini, degli Dei parlano a sproposito, e radunando giovani
sori declamano tragicamente certe pappolate su
la virtù , e non insegnano che que’ loro ribaldi andirivieni di
parole. Innanzi ai discepoli lodano a cielo la temperanza e la
modestia, e sputano le ricchezze e i piaceri, ma quando son soli,
chi può dirvi come banchettano, quanto son lussuriosi, e
come leccano l’untume dell’obolo? E il peggio è che non essendo
buoni a nulla nè per il comune nè per sè , essendo proprio
inutili e soverchi, Inabili
alla guerra ed ai consigli, ei
riprendono gli altri con parole aspre e villane, e fanno il mestiere
di censurare, sgridare, ingiuriar la gente che gli avvicina. E
chi tra loro grida più forte, e dice più male parole, ed
ha la fronte più dura, è tenuto più valente. Se dimandassi a
costui che tanto si sbraccia a gridare e ad accusar gli altri: Ma
tu che sai fare, o valentuomo? che bene arrechi tu alla vita
comune? ti risponderebbe, se volesse dire il giusto ed il vero:
Io tengo per inutile la navigazione, l’agricoltura, la milizia,
ed ogni arte: fo il mestiere di schiamazzare, di lavarmi con
acqua fredda , di andar tutto sozzo e scalzo nel verno,
e, come Momo, di calunniare tutti i fatti altrui. Se un ricco
sfoggia in cene, o si tiene un’amica, questo è un affar che
m’ importa, e gli scarico in capo un sacco di villanie: ma so
un amico o un compagno giace a letto ammalato ed ha bisogno di
aiuto e di cura, non me ne importa un fico. Ecco, o Dei,
che care gioie d’ uomini! Quelli che si chiamano Epicurei sono
i più arroganti, ci assalgono più furiosi, dicendo che gli
Dei non si brigano affatto delle coso umane, e non gettano neppure
uno sguardo su quel che accade laggiù. Pensateci bene
adunque, perchè se costoro potran persuadere gli uomi- ni,
voi ci starete bene a stecchetto: chè, chi mai vi farà più sacrifizi,
non aspettando niente da voi? Le doglianze della Luna
voi le avete udite, espostevi ieri dal forestiere. Prendete ora
il partito più utile per gli uomini, più sicuro per voi. Dicendo
cosi Giove , tutta l’ adunanza romoreggiò , e tosto scoppiarono
in un grido: Fulmini , fuoco, sterminio, nel baratro, nel
Tartaro , come i giganti. Ma Giove impose silenzio un’altra
volta, e disse: Si, sarà, come volete: saranno sterminati essi
e la dialettica loro. Ma per ora non è lecito punire nessuno,
perchè, come sapete, sono le feste de’ quattro mesi, ed
io già ho annunziata la tregua sacra. Ma 1’anno venturo, al
cominciar di primavera ve li sfolgorerò tutti con questa terribil
folgore. Sì
disse il Salurnide, e confermollo Aggrottando
le nere sovracciglia. Per
Menippo, soggiunse, io penso che sia spogliato dell’ali, affinchè
non ci torni un’altra volta, e sia riposto da Mercurio
sulla terra oggi stesso. Cosi detto, sciolse l’adunanza: e
Mercurio, presomi per l’orecchio destro, iersera mi posò nel Ceramico.
T’ho narrato tutto il mio viaggio celeste, o amico. Ora
vo nel Pecile a contarlo ancora a quei filosofi che vi passeggiano. |