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"ESTASI E RAPIMENTO SOPRA LA LUNA" 1763 di ANTONIO CAPUTI (ALIAS ARCHERIO FILOSELENO - 1737-1794) (pagina a cura di Turano Calindonio - pseud.) PREFAZIONE Al Poema dell'Estasi e Patimento sopra la Luna di ARCHERIO FILOSELENO Quello spirto gentil, che su del mio Può sol co’ cenni ad assoluto impero Disporre a suo piacer, esso comanda, Ch’ or io la penna tempri, e lira accordi, Per far’agli uditori, ed agli assenti, Ed oltre ancor’alle future genti Note avventure portentose, e strane D’altro mortal non vide, nè giammai Sognate almen, o pur cadute in mente; Ma si veraci, e di provato effetto. Ch’ormai convinti ammirali quei, che pria A detti miei per io stupor de i fatti La pia credenza lor tenean sospesa. Dando esso legge, a me resta obbedire. Nulla badando a quel, che possa dirne Chi ascolta i miei Rapporti, o legge i carmi. Debbo obbedir, e l’accidente è tale, E tale il mio dover verso chi devo Non quanto posso sol, ma quanto vaglio; Ed anzi quant’a sporre ora m’accingo Di sovrumane cose, con sua guida, Occulte a noi , su della Luna appresi, Tutto debbo rischiar, purché allAmico Servizio renda di maggior rilievo Di quel, ch’a me per ridondar ne fosse Di scorno, o laude vana. E fammi ardito Il di lui caso di pietate degno, E l'esser’ a me sol l’arcano noto La sicurezza di poterlo estrarre Dal foco ardente, in cui per fedi molti Angoscioso si trova; ed in me solo Aver la fua salvezza confidata. Qual dunque idea ne formi il basso Mondo Circa il talento mio, ch’espongo i fatti, Mi basta esporre il ver, e bada a lui Soltanto ciò per conseguir l’effetto. E sappi ogn’uno ancor, ch’egli anzi femmi Divieto espresso di cantare in rime Comporle con forzate desinenze. Per ragion, qual mi disse, e da maestro, Affinchè i versi più femplici, e sciolti Qual scender vedi dal suo fonte l’acqua Limpida, e pura ad irrigare gli orti, Scorresser tali, come il ver l’ efigge Non come quella, che forzata ad arte In Tusculano fa giochi, e zampilli. Somiglia a questa quel cantar legato Con obbligate desinenze uguali. Alle Canzoni è tale stil dovuto, Da’nostri Italiani porto in uso Per dar ad esse un più grato concento. E perchè al Volgo piacque, ed agli Saggi, Passò pur a i Poemi; e fu permesso Con grande applauso allor, quando fi volle Col falso, e non col ver, freggiar le carte; Far promesse fastose, e poi mentirle; Cantar carole, e canzonar l’istoria. Ma a te, che narri il ver, e non già sogni, Non convien, che licenza tale ammetta, Anch’affin d’evitar, che non s’apprenda Da i Saggi, e dagl’indotti, che tu vogli In quert’Estali tua, ch’è tutta santa. Intrecciar fole, come gli altri han fatto, Molcendo il gusto altrui con dolci rime. Più torto imita quegli antichi Lumi Quali, fur già, Marone, e ’l grande Omero, E Nason , che solea sempre per vezzo Camminar ne’ suoi versi quasi zoppo, Usandone un più lungo, ed un più corto, Che appajò i piedi , e libero poi corse, Allor ch’efpofe i gentileschi dogmi, E gli uomini cangiati in varie forme. E’l grande Autor delle Canzoni Flacco Non cangiò stil, e allor’usò lo sciolto Quando si volse a regolar Poeti ? Anzi ei si discusò con Mecenate Di cantar l’ aspra guerra col feroce Annibal colle sue strofe legate, Modulate a trattar cose giocose. Perchè inetti a trattar i fatti grandi Fur fempre al Cantor saggio i versi molli. Quando il soggetto è serioso, e grave. Tale convien, che sia la rima, e’l verso. Tali Maestr’io di seguir t’impongo In ciò che scriverai comune ad ambi. Allor’ io dissi. Ma tu Mastro mio. Che cantarti di cose, e gravi, e fante, Perchè stil si legato in tutte l’opre Usar volesti? Perchè? Egli rifpose, Molte fole intrecciai, e molti sogni, Anche nocivi altrui. Deh falli miei, Che mi ancidete! ( e tu il gran mal saprai. Di che cagion mi fur, e tu l’effetto Ne sanerai) e per cattar credenza Da chi leggesse, o pur’ udisse i carmi. Blandir lor sensi convenia col dolce. Lusingati così l’udito, e gli occhi, Proponesser’ al cor per vero il falso. Si fatto stile non conviene all’Opra A cui t’accingi. Non bisognan lisci Per adornarla, o pur colori fìnti; E sono sorprendenti, e sono veri, Gran vantaggio per te quei, che tu narri; Nè sono avvenimenti forastieri: Son proprj tuoi. Perciò Cesare imita Nella franchezza di spiegare i fatti Ne i Commentarj, in cui il suo cor si legge Come pensava, ed eseguia l’imprese. Lochè non puote, chi scriver l’altrui Imprende, se ben d’oro sia la penna. Scorra franco il concetto, al quale il verso Sia servo, e non gia’l tuo pensier, la rima, Per melodia svegliar, strozzùle affoghi; Per si ghermirti dalla dura forza Di torcere, o smarrir del ver le vie. Il ver tuo scopo sia; lo stile sciolto. L’assunto da se grave, e serioso Qual è l’Estafi tua, per suo decoro Non canzonato, ma gir franco esigge. Se ti piace imitar lo stile mio, Ch’in terra piacque, e piace ancor’a molti Usalo pur, ma nel cantar tutt’altro; Ti vieto sol, che in quella istoria l’usi. Che ad ambi noi comun, tu scriver dei. Renditi alla ragione, e a detti miei. ALLA VERGINE CONCETTA SENZA MACCHIA, Nella Vigilia della di cui Festa, seguì l'Estasi con esser rapito l'Autore fin sopra la Luna. ... segue...! ![]() |