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Beatrice Cazzaniga - antologia critica

Francamente non ricordo quando ho incontrato Beatrice per la prima volta, se mai l'ho incontrata una prima volta. Non ricordo neanche se qualcuno me ne ha parlato una prima volta, non ricordo se ho visto prima una sua scultura o conosciuto lei. La cosa non ha molta importanza o, forse al contrario, ne ha molta perché questa sensazione di averla sempre conosciuta fa di lei una persona speciale. In realtà non abbiamo nulla in comune, se non l'oceano che separa i nostri paesi e, ampia come questo, la passione per l'arte. Poche sono state, in molti anni. le occasioni per frequentarci, tanto rare da contarsi sulle dita di una mano, eppure, non so come ci riesca, ogni tanto compare, quasi materializzandosi dal nulla, senza preavviso e immancabilmente ci si trova, per quello strano gioco degli eventi per cui è così che doveva accadere. Sono visite fuggevoli, le sue, bisogna approfittarne, sfruttarne ogni singolo secondo, chissà quando avrà una nuova occasione di venire in Italia.... Ti abbraccia fisicamente, ti avvolge di calore, di parole, di un fiume di parole, di racconti, progetti, idee, riversati con una carica per me insolita, con un ritmo latino veloce e costante, sembra quasi che non prenda mai fiato, seguendo il flusso di una corrente forte ma ben incanalata con cui ti scuote letteralmente. Sì, perché quando penso a Beatrice, di rimando la ricordo carica di energia: un'energia che le deriva dal porsi in sintonia con la natura e dall'aver indagato profondamente se stessa, nella convinzione che il mondo è in continuo divenire, un movimento rapido in cui tutto si compone e scompone incessantemente, fatto di opposti ma concepito in una visione unitaria. "Facciamo tutti parte di un grande gioco - mi dice Beatrice - le persone, gli animali, i frutti della terra, tutti nascono, crescono, muoiono. Facciamo tutti parte di questo eterno ciclo della vita. Nulla viene disperso, tutto ritorna sotto altra forma". In effetti in questa grande avventura temporanea e terrena che condividiamo, ci accomuna solo la certezza che ogni cosa ha un inizio e una fine. Tra i due estremi scorre la vita, come un lungo sentiero su cui camminiamo e lasciamo le nostre impronte. "Non importa se poi qualcuno dopo di noi le cancella - afferma Beatrice - per un momento le abbiamo lasciate". Un concetto che è caro a chi come lei, è cresciuta in una famiglia di allevatori e agricoltori e, ancora con passione, ama prendersi cura dell'orto e del suo giardino, in terra Argentina che lei definisce "generosa, selvaggia, che tutto ti da". Un concetto che nel contempo diventa lirico, simbolico e si trasforma in narrazione nelle sue sculure, nelle impronte delle sue mani, dei suoi piedi, dei calchi del suo viso che lei affida al bronzo, non senza averli prima però deformati, stirati, dilatati... resi anonimi. In un sapiente e consolidato connubio di tecniche tradizionali e sperimentazione innovativa, Beatrice manipola la materia, (dal bronzo, al ferro, alla ceramica, alle nuove resine sintetiche... ai materiali d'uso o riciclo) scherza col fuoco e a volte si lascia prendere la mano, ne segue e asseconda i movimenti, le colature, anche le più piccole sbavature, per fissare in concreto un'idea pensata o far affiorare una forma che, in apparenza, sembra dettata dal caso ma proviene dall'inconscio. Le opere di Beatrice non sono racconti astratti ma metafore della solitudine umana, di sentimenti d'amore, di dolore, di speranza, mai esasperati, trasmessi con fermezza, senza orpelli, in modo semplice, diretto, in un rapporto empatico con gli altri, fatto di sottile capacità di comprensione. Soprattutto Beatrice ha una visione positiva dell'arte, del privilegio di fare arte, di avere in mano uno strumento straordinario e unico di comunicazione. Figura chiave dei suoi lavori è sempre l'uomo che simbolicamente, come frutto della terra, germoglia, esce dalla materia, si distacca dalla superficie lasciandovi una sagoma ritagliata nel vuoto, per conquistarsi una posizione eretta, prendere forma. I suoi personaggi sono figure essenziali, schematiche che, sole o raggruppate, affrontano la realtà contrapponendosi alla luce, dando forma ad una serie di ombre fuggevoli e irreali. L'ombra è un elemento fondamentale nella narrazione di Beatrice, è essenza sottile dell'essere, punto di orientamento, impalpabile linea di congiunzione tra cielo e terra, una sorta di seconda natura delle cose e degli esseri, proiezione della stessa anima. Ombra che Beatrice a volte materializza, sdoppiando le figure e concretizzandone la sagoma artificialmente, contrapponendo superfici lucide a opache, vetri trasparenti a satinati.... e nelle sculture monumentali, o negli interventi architettonici e paesaggistici, assecondando e modificando il terreno stesso anche sfruttando la vegetazione circostante. Le creature di Beatrice affrontano lo spazio, e la vita, in modo inadeguato, perché anatomicamente incomplete, deformate, smembrate, contaminate, corrose, senza sesso e senza età, unicamente forti della propria originalità e vitalità. Si affacciano a porte e finestre che danno su una realtà delirante per portare un messaggio di speranza. Qualunque sia la nostra storia, la nostra vita, il nostro destino, la nostra ombra/anima può funzionare come un'antenna, capace di captare, nelle profondità sconosciute dell'umano e della natura, l'essenza dell'armonia del creato.

Rosabianca Mascetti
febbraio 2003

Terra d'ombra

Dolce e vivace come lo spirito zuccherino della terra di Tucumán, Beatrice Cazzaniga coinvolge facilmente se la si interroga sulla natura e il senso delle sue sculture. Forza ed entusiasmo nutrono il suo carattere e spiazzano, incontrandola, chi abbia intravisto una visione tragica della vita nella sua espressione artistica.
Personaggi trasfigurati, anzi, prefigurati popolano l'immaginario di Beatrice Cazzaniga, interpretando ruoli dai destini inevitabili. Sono presenze anonime nella loro universalità archetipa, ricordi, ombre dai contorni imprecisi; paiono vittime di ineluttabili sofferenze. Ma il disfacimento della materia, la consunzione dei corpi, la precarietà dell'esistenza, ad un più attento esame mutano di segno preludendo un'apocatastasi piuttosto che la negatività della morte.
Lacerazioni ed ombre si rivelano ritmi e pause di un'eleganza formale quasi al limite di un superamento dei contenuti simbolici ma pur radicata in una ferma visione d'amore per la vita, un sereno distacco proiettato nella necessità del divenire.
Come l'acqua d'inverno, a cavallo fra il giorno e la notte muta natura, prima agile e liquida quindi contratta in nobili cristalli destina a rifluire liquefatti, ugualmente l'energia si raffredda nella sembianza dei corpi secondo il corso naturale degli eventi.
Beatrice così ci inganna, configurando ciò che pare svanire alla vista, i bronzi e le terrecotte richiamano a sé lo spazio, benché parimenti vi si dissolvano e procedano virtualmente dalla forza del fuoco prima e dalla solidificazione poi.
Narrazioni e personaggi sincronicamente si risolvono nella forma, senza concederci di intravederne il corretto grado di interscambiabilità o di referenza.
Tutta la virtualità della "soglia" trova rappresentazione in sinuosi e sottili diaframmi; i corpi partecipano della sua natura e nel varcarla mutano catarticamente, gettati nello spazio e nella luce che li circonda configurandoli alla vista.
Nel caso della nostra scultrice ci troviamo di fronte ad un racconto globale contemporaneamente vissuto e rappresentato, popolato di presenze plasmate dal gesto ma vivificate dal pensiero che vi si immedesima.
Si tratta di sculture ben reali e corporee, eppure si rivelano traccia di una verità ulteriore che attraverso la riflessione dell'autrice viene riconosciuta e modellata per immagini. Il soggetto non ne è difatti la condizione umana nelle sue vicende particolari, contingenti e limitate nei singoli recinti esistenziali, ma l'infinito concatenarsi di queste nel "divenire".
Con uno sforzo d'attenzione, come più banalmente nel considerare un effetto figura-sfondo, dobbiamo valutare la potenzialità dell' "essenza", vera matrice della ispirazione della Cazzaniga, luogo dell'infinito possibile.
I corpi, come la terra che ne intercetta l'ombra proiettata dalla luce, si fanno a loro volta "terra d'ombra", identità secondo i ritmi di intersezione dello spazio e del tempo. Talvolta, similmente, le nuvole ingannano doppiamente la visione umana mostrando il proprio vagare come vivo di moto proprio o, ugualmente e in senso opposto, ben realistico il precipitare di quanto di svettante si stagli in cielo.
L'occhio fallisce individuando l'azione nell'evidenza corporea, la ragione, fidando nella vista, dimentica la relatività del moto e la consistenza del vento.
Un enigma autoalimentante sta alla base della questione sollevata dalla Cazzaniga ai limiti del paradosso, portando a domandarci se la vita non sia sogno di se stessa.
In altre parole, se la matrice della concretezza non risieda nel sogno; "sogno" come dinamica sfuggente della marea delle cose e degli eventi, intercettati come infiniti "qui ed ora" ma liberi e impalpabili, come l'ombra, in tutta la sua mobilità grata alla "luce".

Michele Caldarelli
maggio 1992


Nella scultura di Beatrice Cazzaniga, se da un lato domina la materia, dall'altro è la materia che la ispira stimolandone la fantasia attraverso il variare delle possibilità espressive di un gioco in cui elementi evocativi e surreali si fondono con quelli puramente fantastici. L'anatomia delle figure, se pur presente, appare smembrata, si snoda e si contorce attraverso nervose articolazioni, brusche fenditure, tagli, lacerazioni, figure spezzate, svuotate, quasi a segnare, a graffiare la bruciante solitudine di queste figure-simboli: <copie>, <maternità>, <figure in camino>, nel loro fluttuare esistenziale, nel loro dinamico incedere verso lo spazio, conquistato attraverso forme longilinee, saettanti, sottili, grafiche. La superficie materica pungente, aspra, rugosa, acquista valore decorativo e plastico attraverso l'uso del colore e l'alternarsi delle impronte sezionate delle colate ora cilindriche, ora ellittiche, che concorrono a suggerire quest'aspetto leggero, esile, elegante, anche gioioso, rimato da questi contrasti.

Alberto Ceppi
Rivista: "Art fine". 1982 Milano, Italia



A proposito di Beatrice Cazzaniga, scultrice

"Vieni nel primo pomeriggio: parleremo un po' mentre smontiamo la Mostra". Ci eravamo lasciate cosi, Grazia Chiesa ed io, la sera prima, dopo un bella presentazione al "Lavatoio contumaciale" di Tommaso Binga dell'opera e della figura di Isabella Morra, poeta del XVI secolo, uccisa per amore e per poesia o/anche per insano senso dell'onore.
Ci eravamo lasciate cosi e cosi mi accade di conoscere Beatrice: era china su un grosso pacco, tutta presa a legare e chiudere serrare, non le sue mani magre e nervose, lo sguardo aguzzo di chi vuole accertarsi che tutto sia stato fatto a dovere. mi ha aiutato lei - disse Grazia - è qui dall'Argentina. E' una persona eccezionale: vorrei che tu la conoscessi".
Cosi, cominciammo a parlare di gelato alla frutta e gelato alle creme con/senza panna, sedute ad un tavolo di Rosati in bella vista su piazza del Popolo, tra le espressioni ammirate di Grazia per la bella "scenografia" della piazza. "Sono a Roma per un corso di specializzazione all'Istituto italiano per il Restauro: dovevo fermarmi poco tempo e invece... ho lasciato in Argentina la mia bambina." C'è nostalgia nella sua voce. "E mio marito." Alza lo sguardo dalla coppa di gelato e mi fissa dritta diritta negli occhi . "Eppure mi piace." Non so se allude al gelato. Il corso di restauro, intendo. Trattiamo soprattutto reperti archeologici antichissimi, estranei al mio percorso..." e comicia a parlare di questa esperienza con la foga di chi è innamorato del proprio lavoro e si capisce che non ha fatto che attendere a quell'arte da sempre.
Cosi comincio a conoscere Beatrice.
Più tardi, mentre sfoglio il bel catalogo che la Cassa Rurale ed Artigiana di Barlassina (suo paese natale) le ha dedicato del 1993 ed ho sotto gli occhi le riproduzioni delle sue sculture, ripenso a lei, donna essenziale nel gesto come nell'espressione; alle piccole sculture in bronzo che mi ha mostrato con semplicità, lei, scultrice affermata e docente di scultura nella Facoltà di Arte dell'Università Nazionale di Tucumàn e non posso fare a meno di compiacermi per questa dimensione umanissima del fare arte come dell'essere artista: che sia un pregio dell'esserlo al femminile?
Pure, no! Non voglio usare questo metro che potrebbe risultare, per certi versi, ghettizzante; meglio riconoscere a Beatrice le sue innegabili doti di persona ed artista in senso lato.
Beatrice Cazzaniga si cimenta nella scultura in metallo con grande destrezza e direi con la naturalezza di chi è padrone della materia: il bronzo fuso a cera persa secondo l'antica tradizione dei grandi maestri mediterranei prende forma e si piega con leggerezza seguendo la forma geometrica del cilindro che s'incurva senza tuttavia chiudersi su se stesso e lascia intravedere una zona d'ombra interna, oscura, misteriosa.
La superficie alterna fasce ruvide e lisce , incrinature, graffiti, segni appena tracciati più a suggerire forme/parole che a delimitare/stagliare; si apre improvvisa mostrando l'altra faccia, l'oltre da cui scaturiscono sagome snelle, piatte ritagliate addirittura nella lamina bronzea come sulla superficie di carta che usavamo de bambini, con il segno vuoto della figura umana che suggerisce l'ombra/l'assenza/il vuoto ma anche la presenza impalpabile, quell'essere sogno/realtà/irrealtà per cui difficilmente possiamo districarci dal turbamento, dall'ambiguità, da quella paura/desiderio di conoscenza suprema che si cela sul limitare fra ombra e luce essere e non essere, vita e morte.
Interessante è la serie che va sotto il titolo "Tutto il nostro essere (1), che comprende una serie di bronzi a cera persa le cui dimensioni vanno dai 30 ai 150 cm.; mi sono chiesta se le sue figure fossero in fieri o in exitu, se rappresentassero cioè una realtà che esce/nasce/si esterna o una sorta di sogno/allucinazione di qualcosa che si riassorbe/si ricompone/rientra nel cilindro della materia: è difficile rispondere e forse è preferibile non farlo, lasciando alle sculture della Cazzaniga propio questa loro peculiare ambiguità che le carica di valori e potenzialità infinite, quasi plasma in continuo sommovimento.
Il colore varia. Sul bronzo dorato la luce scorre e si accende dei riflessi solari; nelle rientranze scabrose, nelle piccole sceglie leggere ottenute con la pressione della mano si ferma e indugia mostrando le ombre/i bruniti/i tagli repentini della materia che si apre ferita o si dilata levitante come nel bronzo della serie "Tutto il nostro essere", 40 x 50 x 15 cm. (2); talora si fa nero impasto di forme ora aggettanti/opa appena vibranti sulla superficie cilindrica scandita da un rettangolo che si fa modulo costante/reiterato e prelude a forme in fieri o in exitu, come nel grande bronzo della serie "Resurrezione", 160 x 60 cm. (3).
Le piccole sculture che la Cazzaniga presenta in questa Mostra al Café le Folies ripropongono tutti gli elementi delle sculture di media e grande dimensione, con un regio in aggiunta: quello di riuscire a sintetizzare su una superficie limitata ma non per questo meno impegnativa, la forza, la tensione e la leggerezza del gesto con il quale l'autrice fa scaturire la forma dalla materia e dona vita e calore al freddo metallo. La presenza fra le altre della testa di un cavallo rivela l'attaccamento alla natura e il carattere simbolico di libertà che la scultrice attribuisce all'animale lo riconferma protagonista di significati profondi che vanno ben al di là della semplice citazione, come dimostra il branco di cavalli scelto dalla Cazzaniga a protagonista del grande complesso scultoreo progettato nel "monumento alla tradizione" per la Rotonda di Yerba Buena e per il quale l'autrice prevede l'uso esclusivo di materiale di riciclaggio (circa quaranta tonnellate di rottami di ferro) (4).

B. CAZZANIGA, Sculture -Disegni, Milano, 1993, figg. Pp. 33 e ss.
Op. Cit., fig. p. 35.
Op. Cit., fig. P. 34.
E. Wainzinger, in op. Cit., p. 24.

Eugenia Serafini



L'Opera di Beatrice Cazzaniga

Quest'artista, nata in Italia, vicino a Milano, ha realizzato i suoi studi superiori di arte presso l'Università Nazionale di Tucumàn, una delle più prestigiose del paese, presso cui, inoltre, è docente. Ha svolto la maggior parte della sua opera in quella provincia del Nord argentino e l'ha esposta in parecchio occasioni in diverse città del paese, a Buenos Aires, ed in Italia. Tanto nella sua vita , come nella sua opera, quest'artista manifesta la radice europea che caratterizza gli argentini, nei loro modi di vita, e nelle opere culturali. Esemplifica, cosi, una forma di miscuglio e simbiosi tra l'europeo e l'americano.
Valendosi della tecnica di fusione a cera persa per la realizzazione in bronzo, Beatrice Cazzaniga si inserisce nella tradizione scultorea argentina tra quelli che hanno saputo conciliare tradizione con innovazione. Vale a dire che bisogna valorizzare in questa decisione un'attitudine d'integrazione, di affanno, di totalità e universalità, di volontà di permanenza. La possibilità di conciliare un liguaggio di trasparenza e permanenza con i sentimenti attuali e vitali di dinamismo, trasformazione, captazione dell'esperienza inmediata.
Siamo in un'epoca in cui tutti i paradigmi di assoluto sono entrati in crisi. Non ci sono già né modelli, né situazione, né posizioni che si mostrino in stato di purezza e incontaminazione. La vita, e conseguentemente i linguaggi dell'arte, sono inquinati, sono impari e trascrivono ambiguità, duplicità, diversi indirizzi possibili.
Perciò la filiazioni e influenze che registrano oggi gli artisti nelle loro opere sono molteplici e varie. A volte, persino contraddittorie. Si integrano in nuove sintesi nelle quali appaiono trasformate e risignificate antiche posizioni assolute. Quasi nessuno sembra poter sfuggire a queste determinazioni dell'epoca.
In Cazzaniga sembrano convivere influenze diverse che passano tanto per la tradizione europea e l'origine lombarda quanto per l'attrazione per il mondo americano e in particolare quello del nord argentino. Salta, dove è vissuta nella sua gioventù, Tucumàn, dove si è educata, ma con tutto quello che ciò significa. Cioè l'amore per la terra e per la gente, per uno stile di vita legato alla natura, al senso della libertà, alla valorizzazione della povertà.
A partire di questo miscuglio esistenziale, in cui si modella la propria esperienza, l'artista ha sviluppato la sua opera. Perciò vediamo nelle sue sculture elementi di identificazione personale, espressioni che hanno tanto a che vedere con l'uomo universale quanto con l'identità personale, di elementi propri, forme ricorrenti e sviluppi di determinati concetti.
Vediamo al centro della sua opera la figura umana. Si tratta di una figura umana schematizzata da un parte e drammatizzata dell'altra. La schematizzazione corrisponde, piuttosto, ala presenza di silhouette a volte smembrate o accorciate e generalmente ritagliate sulla lastra. Non valutiamo in loro dettaglio, né la sua rappresentazione realista ma la sua condizione di figura espressiva. Non rispondono mai a una concezione statica ma le troviamo "in atto", in una prospettiva dinamica. Quel dinamismo risponde ad un'azione che potremmo chiamare gestuale da parte dell'autrice, che versa su quelle figure un'impronta vitalista. Perciò traducono una condizione drammatica. Non sono figure stilizzate che rispondono ad una idealizzazione ma progettazioni esistenziali. Alludono a un essere umano in stato vivente. Queste figure che si ritagliano sul blocco della lastra generano, a loro, volta, situazioni di vuoto dove appaiono altre figure che sono il suo doppio, il suo riflesso e cornice di riferimento. Vale a dire, che nel gioco di piani che si suscita a partire dalla dinamica del gesto, si moltiplicano figure di diversa indole.

Fermin Febre
Critico d'arte
Buenos Aires, Argentina, 1992.


La scultura di Beatrice Cazzaniga


È innegabile che il dramma esistenziale è una chiave per interpretare l'opera della scultrice Beatrice Cazzaniga.
Le sue creature "gettate nell'esistenza" come avrebbe potuto affermare Heidegegger, condannate "a vivere la propia vita" en una società e in una civiltà disumanizzata ("Apocalisse" è il titolo de una delle opere) tra una sofferenza che non finisce mai. Questa situazione alienante, tipica della nostra tecnocrazia, tende a trasformare l'essere umano in "una cosa", in un "essere senza sentimenti". L'angoscia e la solitudine sono le sublimazioni limite di questa realtà delirante. I personaggi di Beatrice Cazzaniga (sculture in bronzo e altri materiali), elevati a simboli nel significato, vivono in una coralità emblematica (i gruppi giustapposti: problematica di una "scultura ambiente" già sviluppata da lei, soprattutto, nelle grandi dimensioni) o una essenza di comunicabilità (le figure verticali isolate). La disarticolazioni volumetriche, i piani in divenire, i vuoti - strutture virtuali e la "bruttezza" espressiva, le corrosioni materiche e gli assembramenti anatomici mostrano un processo stilistico e anche le ferite umane. "Poetica del dolore", si potebbe dire, che scava nell'esistenza per darci la testimonianza di una verità viscerale.
Così, in questa drammaticità della simbologia, i suoi "esseri crocifissi" (sua Umanità crocifissa") appaiono brutalizzati, in metamorfosi, senza volto, senza identità, deformati nella loro vitale bellezza, mutilati in diverse parti del corpo: piaghe di un dolore universale che si portano dentro. La crocefissione dell'amore è la solidarietà. Per questo, Beatrice Cazzaniga simbolizza i suoi esseri come un atto d'amore disperato: la strada del calvario attraverso una catarsi tragica ineluttabilmente umana come nella tragedia greca. Lo sentiamo nelle sue "figure corali" (i gruppi) e nelle sue "Figure individuali" (le verticali). È la società senza anima in cui ci tocca vivere.
Un palpitante messaggio, il suo, che ci rivela la sua originalità, il suo forte temperamento, la sua profonda emotività.
Le sue recenti mostre in Seregno, Milano e nella capitale messicana hanno di nuovo confermato la sua passionale personalità.
La sua ricerca espressiva continua come un work in progress della genesi joiciana. Continua ad aprirsi, appunto, a nuove possibilità plastiche e linguistiche. Lo abbiamo visto dalle ultime sue immagini "Le porte" (prospettive di un futuro svilupo) e nei "Gruppi spaziali" (i più problematizzante e aperti a nuovi valori).
E evidente che Beatrice Cazzaniga ha fuso la sua radice espressionista con una semantica del simbolo. E in questo senso deve essere situata nello spazio assiologico della attuale "scultura simbolica". Una delle tendenze plastiche che si nutrono infatti, di contaminazioni espressioniste e la unisce del suo linguaggio con la pluralità del simbolo.
Questa rivisitazione di Beatrice Cazzaniga (una reinterpretazione di precedenti e importanti fonti estetiche) ci permette di collocarla en questa dimensione di valori nel "parallelismo interattivo delle ricerche", che ho definito anni fa "avanguardia ciclica" come concetto estetico filosofico della presente ciclicità dell'arte.

Pedro Fiori
Milano, Italia, 1991.
Rivista d'Arte "Guadalimar"
Madrid, Spagna


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Alla bottega
Bivista bimestrale di cultura ed arte
Anno XXXII - n. 2 marzo - aprile 1994
MOSTRE - a cura di Gianni Pre

Il Centro de Promozione Argentina di Milano ha riproposto, a distanza di tre anni, la scultrice italo - argentina Beatriz Cazzaniga. Rispetto alle acuminate e crude sculture di allora, soprattutto legate al tema "Apocalisse" di decisa aderenza alla contradditorietà della storia recente, disseminata di orrori, di genocidi, di lotte, in questi nuovi lavori la Cazzaniga si è raddolcita, si è fatta più pacata. Alle forme aguzze, dove uomo ed ambiente rimanevano fusi in un unico tessuto di pieni e di vuoti dalle connotazioni al limite dell'informe, ha sostituito modulazioni ondulate, sinuose, come nella serie delle "Porte" in cui le figure umane si presentano simili ad orme, stampi quasi, talvolta silhouettes. Ci è parso che l'artista abbia cercato di ripercorrere gli strozzati tragitti della storia dell'uomo: dalla notte dei tempi ad oggi; per ritrovare le radici ancestrali delle antiche lotte, dei soprusi, delle speranze di un'umanità che lentamente, faticosamente ha edificato la struttura del mondo in cui viviamo.
Forse è per questa ragione, che i protagonisti delle sue essenziali sculture hanno l'indistinta sembianza dei fossili mnèstici di un graffito storico collettivo. Non appartenendo all'inmanenza, non possono sprigionare più disperazione, furia, tenacia...
Sono soltanto tracce che ci fanno intuirle loro remote vicissitudini. Sta a noi, pertanto, evocare la loro sostanza vitale della quale siamo intessuti e che ci appartiene.
Beatriz Cazzaniga ha pure iniziato un ciclo di opere in terracotta dall'andamento armoniosamente astratto, ma sono ancora pezzi in via di sperimentazione, è preferiamo aspettare di vederne un numero più consistente per pronunciarci in merito.


Recensioni

Docente Universitaria al Dipartimento d'Arte dell'Università di Tucumán (argentina), la Cazzaniga, che è di origine lombarda, espone una serie di piccole sculture e disegni preparatori.
Le figure smembrate, contorte, aggrovigliate, stilizzate, danno la sensazione di trovarsi dinanzi a soggetti - simboli della solitudine dell'uomo. Un effetto sorprendente reso con sorprendente maestria dove l'elemento evocativo diventa surreale e la fantasia gioca un ruolo di primo piano.

Sebastiano Grasso
Giornale: Corriere della Sera. 27 marzo 1982.
Milano, Italia.



Generazione del 70 in Tucuman (Argentina)

La mostra intitolata "Generazione 70", recentemente inaugurata nei saloni del Museo Provinciale di Belle Arti "Timoteo Navarro", della città di Tucuman condivide a grandi linee i postulati direzionali che distinguono la produzione artistica de quella decada nel paese. È interessante nonostante la mostra non appare in un ordine sistematico o cronologico, vedervi riunite la opere di 37 artisti con lavori nel campo della pittura, del disegno, la scultura, la fotografia, l'incisione e la ceramica, abborracciati o inserti in un lasso storico di tempo che in quella decade, segna l'impronta della sue opere.
È vero che in quella decade inizia, o forse fu già iniziata qualche anno prima, più precisamente nel 1966, un periodo che avrebbe condizioni speziali per l'espressione culturale e socio - politica in generale. Anni di frustrazioni, repressioni, ingiustizie, coartazione della libertà pubbliche e individuali, ciò che è più grave, scomparsa della vita umana in innumerevoli casi. Questo basterebbe per segnare un quadro situazionale abbastanza chiaro, dove l'artista deve sopravvivere e allo stesso tempo continuare la sua opera creativa.
In quest'esposizione non potrei segnalare che, dentro il panorama dei pezzi esposti, appaia un'oppressione od un clima di torturante tensione. Mi sto riferendo alle opere lì esposte e non alla totalità dei lavori che questi artisti abbiano realizzato in quegli anni, molti dei quali non conosco.
Ciò che è evidente è che l'elemento figurativo predomina nella maggioranza dell'esposizione. Credo che quella scelta per la figurazione opera come una necessità interna di riferirsi all'essere umano ed ai suoi conflitti, in un momento speciale in cui il protagonismo di esso veniva discusso da tutto un apparato repressore. Molti di questi artisti hanno scelto lo stile emigrarono in altri paesi o si stabilirono in altre città, come Buenos Aires. Ancora oggi, parecchi continuano a sviluppare la loro opera fuori di Tucuman, preferibilmente in Europa. Questo vuole anche dire che l'allontanamento è a volte un condizionamento delle possibilità dell'intendimento. Quando prendiamo distanza, quando vediamo il teatro dei nostri spettri allontanati, solo allora possiamo incorporarli e lavorare con essi come fossero realtà.
La mostra ha una parità abbastanza accettabile, sebbene non siano tutti rappresentanti con le loro migliori opere. Questo avviene in tutte le esposizioni collettive, ma non perciò non si può apprezzare la solidità dei lavori come quelli di Anibal Fenández, Guillermo Storni, Raúl Ponce, in disegno, o di Luis Debairosmoura in disegno e pittura; di Nicolas Amoroso, Donato Grima, Vicente Ezio Medici, Dedé Chambeaud, Eugenia Juárez e, soprattutto, Ramos Gucemas, in pittura; voglio qui rivendicare il nome di Maru Coviello, in cui l'insegnamento di Timoteo Navarro, Lusnich e Linares, sono notevoli antecedenti di solidità e maturazione del colore e del clima di quelle immagini di un Tucuman riconoscibile nella sua gente e l'autenticità dei paesaggi urbani o meno.
...In incisione appaiono anche -in una sezione abbastanza pari- Lía Rojas Paz, ilustratrice molto buona, Ramón Durán, e la tecniche veramente notevole di Rosa Morant, deceduta nel 1989. È scarsa la presenza astratta, salvo Roberto Alonso o un Juan Vallejo che si presenta qui incorrendo per una figurazione di tecniche vicine al puntinismo, di rilevanti dimensionali e chiara immagine.
Finalmente, si devono mettere in rilievo per la loro indubbia fattura artistica le fotografie di Tito Mangini, o pure gli scarsi cultori nel campo della scultura, Hugo Ylian, Miguel Angel Giménez, e Beatrice Cazzangia, quest'ultima di riconosciuta fama nei saloni del paese, all'estero e nelle gallerie di Buenos Aires.
Infine, credo che quest'esposizione determina che i partecipanti della decade del '70 di Tucuman, hanno scelto la figurazione come elemento determinante delle immagini, cingendosi a conformazioni diverse di trattamento plastico e messe a fuoco tematiche da dove si osserva come preoccupazione virtuale o costante relazionale il loro interesse per l'interno e i loro abitanti.
Una necessità primordiale di ristabilimento di un umanesimo che centrasse i loro conflitti e i loro deficit di consapevolezza del vivere. Quelle carenze sembrano rimanere superate tanto quanto molte delle loro opere attuali, esiste una tendenza verso un'apertura maggiore alla forma, le linee, il colore, una scioltezza di immagini e una stimolante esporazione sensitiva. Tutti segni di una maggiore libertà e di una migliore aspirazione espressiva.

Raúl Vera Ocampo
Critico d'Arte
Conferenze en Museo Provinciale di Belle Arti "Timoteo Navarro
Tucumán, Argentina, Nov. 1992
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