Animali simbolici
di: Fabio Gabrielli
Il mondo animale, grazie al potente simbolismo a cui rinvia e alla
forza metaforica che incarna, ha costituito da sempre un privilegiato
terreno d’indagine per il discorso filosofico.
Mi limito a tre esemplificazioni:
1) Platone: il mito delle cicale
Nel Fedro (258 E-259 D), Platone c’invita, con uno dei suoi
bellissimi e plastici miti, ad affrontare in modo critico i testi
che leggiamo, senza dipenderne interamente quasi come schiavi.
Leggiamo insieme, allora, il mito delle cicale, assaporando
la forte simbolica che trasmette:
«E inoltre mi sembra che in questa soffocante
calura le cicale, sopra le nostre teste, cantando e discorrendo
tra di loro guardino anche noi. Se, allora, vedessero che anche
noi due, come la maggior parte della gente nel mezzogiorno, non
discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per
pigrizia del nostro pensiero, ci deriderebbero giustamente considerandoci
degli schiavi venuti da loro per dormire in questo rifugio, come
delle pecore che trascorrono il pomeriggio presso una fonte. Invece,
se ci vedono discorrere e navigare, passando davanti alle Sirene
non ammaliati, forse ci ammireranno e ci daranno quel dono che gli
dèi possono fare agli uomini […] Si dice che le cicale un tempo
fossero uomini, di quelli che vissero prima che nascessero le Muse.
Ma una volta che nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni degli
uomini di quel tempo, furono colpiti dal piacere al tal punto che,
continuando a cantare, trascuravano cibi e bevande, e senza accorgersene
morivano. Da loro nacque, in seguito a questo, la stirpe delle cicale,
che dalle Muse ricevette il dono di non aver bisogno di cibo fin
dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo e senza
bevanda, e così fino alla morte e, dopo, di andare dalle Muse ad
annunciare chi degli uomini di quaggiù le onori e quale di loro
onori[…] Alla più anziana, Calliope, e a quella che viene dopo di
lei, Urania, portano notizia di quelli che trascorrono la vita nella
filosofia e rendono onore alla musica che è loro propria. Sono queste
che, più di tutte le Muse, avendo cura del cielo e dei discorsi
divini ed umani, mandano un bellissimo suono di voce.
Dunque, per molte ragioni, nel mezzogiorno bisogna parlare e non
dormire».
Ecco il significato del mito: le cicale, profetesse delle
Muse, provano ammirazione per coloro che non si lasciano incantare
dal “canto”, a volte delizioso, della pagina letta, ma la affrontano
in modo vigile, critico, accettandola o rifiutandola non in base
al nome, spesso famoso, che l’ha scritta, bensì al suo effettivo
valore o a quello che può trasmettere per arricchire il lettore.
2) Platone e la bestia dalla forma eteroclita.
Alla fine del nono libro della Repubblica, Platone ci
offre una visione dell’uomo nel quale si sovrappongono la bestia
eteroclita, il leone, l’uomo interiore, offrendoci l’immagine di
un unico individuo, che è tale, però, solo dall’esterno; in realtà,
nasconde una componente inconscia, mostruosa, che Platone fa emergere
con toni davvero drammatici.
«Bene, ripresi: poiché siamo giunti a questo
punto del nostro discorso, riprendiamo gli argomenti trattati per
primi, che ci hanno condotti fin qui. Si diceva allora, se non erro,
che commettere ingiustizia giova a chi è perfettamente ingiusto,
ma passa per giusto. Non s'è detto così? - Così, appunto. - Ebbene,
continuai, con chi sostiene questa teoria possiamo discutere, ora
che ci siamo messi d'accordo su che cosa posano, rispettivamente,
l'azione ingiusta e l'azione giusta. - Come?, chiese. - Foggiando,
con le parole, un'immagine dell'anima, affinché chi teneva quel
discorso sappia che cosa diceva. - Che immagine?, fece lui. - Una
di quelle, risposi, quali, se stiamo ai racconti mitici, erano proprie
di certe antiche nature: quella della Chimera, di Scilla, di Cerbero
e di parecchie altre forme che, come si dice, per nascita insieme
confuse, costituivano. pur essendo molte, un essere solo. - Lo si
dice, sì. - Foggia dunque un'unica forma di bestia eteroclita, a
molte teste: abbia essa attorno al corpo teste di animali domestici
e selvaggi, e sia capace di trasformarsi e di generare da sé tutte
queste mostruosità. L’opera, disse, richiede un abile foggiatore.
Tuttavia, poiché la parola si può foggiare meglio della cera e di
simili sostanze, consideriamo quell'opera bell'e foggiata. - Foggia
poi un'altra forma, di leone, e una terza, di uomo. La prima sia
di gran lunga la maggiore e la seconda venga per seconda. - Questo
è più facile, disse; ecco, è già foggiata. - Ora connetti questi
tre elementi in un unico insieme, sì che in certo modo si fondano.
- Eccoli già connessi, rispose. - Applica ora tutt'intorno a loro,
all'esterno, l'immagine di un unico essere, quella dell'uomo. E
così chi non è capace di vedere gli elementi interni, ma vede solamente
l'involucro, crederà di vedere un unico essere, un uomo. -
Già è applicata, disse. - Ora, se c'è chi dice che a quest'uomo
giova commettere ingiustizia e non è utile agire giustamente, diciamogli
pure che la sua affermazione significa soltanto questo: gli è utile,
pascendola ben bene, rendere vigorosa la bestia dalle forme infinite,
e Così .pure
il leone e ciò che si riconnette al leone;.e far morire
di fame e infiacchire l'uomo, sì che può essere trascinato dovunque
uno degli altri due lo meni; e gli è utile poi non creare tra loro
né confidenza né amicizia, ma lasciare che si mordano e combattendosi
si divorino l'un l'altro. Sì, ammise, chi loda l'ingiustizia dirà
senz'altro così. - Chi invece sostiene l'utilità della giustizia
non dirà che occorre fare e dire ciò che permetterà all'uomo interiore
di esercitare assoluto dominio sull'individuo umano di aver cura
della creatura policefala? e questo dopo avere stretto alleanza
con la natura leonina, come fa un agricoltore che alleva e coltiva
le piante domestiche, impedendo alle selvatiche di crescere?
E non alleverà questi vari elementi curandoli tutti ?insieme
e rendendoli amici tra loro e a sé? - Sì, chi loda la giustizia
parla esattamente così» (Repubblica IX, 588 B - 589 B).
3) Unamuno e i dermatoscheletrici.
In questo intenso passo, tratto da Solitudine, in La tragedia
del vivere umano, Unamuno evoca immagini davvero suggestive
sulla condizione umana:
« Triste è il dover constatare che
se ci atteniamo, se ci basiamo sulla sola esperienza quotidiana,
questi urti, lungi dal romper le croste, le induriscono, le ispessiscono
ancor più. Siamo come i calli che con lo sfregamento, con la compressione
diventano più grandi e più duri[…]. È molto triste che noi
uomini non si possa comunicare che al tatto, se non per mezzo del
duro guscio che ci isola, ci stacca gli uni dagli altri. [Del resto:][…]
oggi come oggi siamo condannati a vivere ciascuno nel suo guscio,
e senza manco la possibilità di romperlo, poiché, ed è triste doverlo
constatare, questi gusci non possono rompersi che dal di fuori,
non dall’interno. Non siamo come i pulcini che, sentendo a un dato
momento necessità dell’aria libera, rompono il guscio che li rinserra
ed escono a respirare, a vivere; abbiamo piuttosto bisogno che qualcuno
rompa dal di fuori la nostra prigione e ci restituisca la libertà».
Per Unamuno siamo come dei “dermatoscheletrici”, cioè crostacei
con la carne dentro e le ossa al posto della pelle, “poveri granchi
rinchiusi nel duro carcere di una dura crosta”.
Ebbene, l’isolamento - o la solitudine inautentica - di molti nostri
giovani evoca la potente e disperata immagine di Unamuno! Occorre,
perciò, qualcuno che “rompa dal di fuori” il guscio del loro isolamento,
del loro mutismo relazionale: per questo è necessaria un’umanità
adulta che gridi anche di fronte al deserto degli sguardi dei
loro figli, perché, in fondo, il deserto ascolta le voci che prorompono
dal cuore, accoglie gli orizzonti di senso che si cercano di modellare
o rimodellare all’interno dei paradossi, delle fluttuazioni, delle
intermittenze, delle certezze e delle speranze disilluse di questi
stessi giovani.