Archivio Attivo Arte Contemporanea
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Galleria d'Arte Il Salotto via Carloni 5/c 22100 Como
ANIMA-LI

mostra tematica interdisciplinare
21 febbraio al 1 aprile 2004

Animali simbolici
di: Fabio Gabrielli

Il mondo animale, grazie al potente simbolismo a cui rinvia e alla forza metaforica che incarna, ha costituito da sempre un privilegiato terreno d’indagine per il discorso filosofico.
Mi limito a tre esemplificazioni:

1) Platone: il mito delle cicale

Nel Fedro (258 E-259 D), Platone c’invita, con uno dei suoi bellissimi e plastici miti, ad affrontare in modo critico i testi che leggiamo, senza dipenderne interamente quasi come schiavi.
Leggiamo insieme, allora, il mito delle cicale, assaporando la forte simbolica che trasmette:

 «E inoltre mi sembra che in questa soffocante calura le cicale, sopra le nostre teste, cantando e discorrendo tra di loro guardino anche noi. Se, allora, vedessero che anche noi due, come la maggior parte della gente nel mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia del nostro pensiero, ci deriderebbero giustamente considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in questo rifugio, come delle pecore che trascorrono il pomeriggio presso una fonte. Invece, se ci vedono discorrere e navigare, passando davanti alle Sirene non ammaliati, forse ci ammireranno e ci daranno quel dono che gli dèi possono fare agli uomini […] Si dice che le cicale un tempo fossero uomini, di quelli che vissero prima che nascessero le Muse. Ma una volta che nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni degli uomini di quel tempo, furono colpiti dal piacere al tal punto che, continuando a cantare, trascuravano cibi e bevande, e senza accorgersene morivano. Da loro nacque, in seguito a questo, la stirpe delle cicale, che dalle Muse ricevette il dono di non aver bisogno di cibo fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo e senza bevanda, e così fino alla morte e, dopo, di andare dalle Muse ad annunciare chi degli uomini di quaggiù le onori e quale di loro onori[…] Alla più anziana, Calliope, e a quella che viene dopo di lei, Urania, portano notizia di quelli che trascorrono la vita nella filosofia e rendono onore alla musica che è loro propria. Sono queste che, più di tutte le Muse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini ed umani, mandano un bellissimo suono di voce.
Dunque, per molte ragioni, nel mezzogiorno bisogna parlare e non dormire
».

Ecco il significato del mito: le cicale, profetesse delle Muse, provano ammirazione per coloro che non si lasciano incantare dal “canto”, a volte delizioso, della pagina letta, ma la affrontano in modo vigile, critico, accettandola o rifiutandola non in base al nome, spesso famoso, che l’ha scritta, bensì al suo effettivo valore o a quello che può trasmettere per arricchire il lettore.

2) Platone e la bestia dalla forma eteroclita.

Alla fine del nono libro della Repubblica, Platone ci offre una visione  dell’uomo nel quale si sovrappongono la bestia eteroclita, il leone, l’uomo interiore, offrendoci l’immagine di un unico individuo, che è tale, però, solo dall’esterno; in realtà, nasconde una componente inconscia, mostruosa, che Platone fa emergere con toni davvero drammatici.

«Bene, ripresi: poiché siamo giunti a questo punto del nostro discorso, riprendiamo gli argomenti trattati per primi, che ci hanno condotti fin qui. Si diceva allora, se non erro, che commettere ingiustizia giova a chi è perfettamente ingiusto, ma passa per giusto. Non s'è detto così? - Così, appunto. - Ebbene, continuai, con chi sostiene questa teoria possiamo discutere, ora che ci siamo messi d'accordo su che cosa posano, rispet­tivamente, l'azione ingiusta e l'azione giusta. - Come?, chiese. - Foggiando, con le parole, un'immagine dell'anima, affinché chi teneva quel discorso sappia che cosa diceva. - Che immagine?, fece lui. - Una di quelle, risposi, quali, se stiamo ai racconti mitici, erano proprie di certe antiche nature: quella della Chimera, di Scilla, di Cerbero e di parecchie altre forme che, come si dice, per nascita insieme confuse, costituivano. pur essendo molte, un essere solo. - Lo si dice, sì. - Foggia dunque un'unica forma di bestia eteroclita, a molte teste: abbia essa attorno al corpo teste di animali domestici e selvaggi, e sia capace di trasformarsi e di generare da sé tutte queste mostruosità. L’opera, disse, richiede un abile foggiatore. Tuttavia, poiché la parola si può foggiare meglio della cera e di simili sostanze, consideriamo quell'opera bell'e foggiata. - Foggia poi un'altra forma, di leone, e una terza, di uomo. La prima sia di gran lunga la maggiore e la seconda venga per seconda. - Questo è più facile, disse; ecco, è già foggiata. - Ora connetti questi tre elementi in un unico insieme, sì che in certo modo si fondano. - Eccoli già connessi, rispose. - Applica ora tutt'intorno a loro, all'esterno, l'immagine di un unico essere, quella dell'uomo. E così chi non è capace di vedere gli elementi interni, ma vede solamente l'involucro, crederà di vedere un unico essere, un uomo. - Già è applicata, disse. - Ora, se c'è chi dice che a quest'uomo giova commet­tere ingiustizia e non è utile agire giustamente, diciamogli pure che la sua affermazione significa soltanto questo: gli è utile, pascendola ben bene, rendere vigorosa la bestia dalle forme infinite, e
Così .pure il leone e ciò che si riconnette al leone;.e far morire di fame e infiacchire l'uomo, sì che può essere trascinato dovunque uno degli altri due lo meni; e gli è utile poi non creare tra loro né confidenza né amicizia, ma lasciare che si mordano e combattendosi si divorino l'un l'altro. Sì, ammise, chi loda l'ingiustizia dirà senz'altro così. - Chi invece sostiene l'utilità della giustizia non dirà che occorre fare e dire ciò che permetterà all'uomo interiore di esercitare assoluto dominio sull'individuo umano di aver cura della creatura policefala? e questo dopo avere stretto alleanza con la natura leonina, come fa un agricoltore che alleva e coltiva le piante domestiche, impedendo alle selvatiche di crescere? E non alleverà questi vari elementi curandoli tutti ?insieme e rendendoli amici tra loro e a sé? - Sì, chi loda la giustizia parla esattamente così» (Repubblica IX, 588 B - 589 B).

3) Unamuno e i dermatoscheletrici.

In questo intenso passo, tratto da Solitudine, in La tragedia del vivere umano, Unamuno evoca immagini davvero suggestive sulla condizione umana:
 
« Triste è il dover constatare che se ci atteniamo, se ci basiamo sulla sola esperienza quotidiana, questi urti, lungi dal romper le croste, le induriscono, le ispessiscono ancor più. Siamo come i calli che con lo sfregamento, con la compressione diventano più grandi e più duri[…].  È molto triste che noi uomini non si possa comunicare che al tatto, se non per mezzo del duro guscio che ci isola, ci stacca gli uni dagli altri. [Del resto:][…] oggi come oggi siamo condannati a vivere ciascuno nel suo guscio, e senza manco la possibilità di romperlo, poiché, ed è triste doverlo constatare, questi gusci non possono rompersi che dal di fuori, non dall’interno. Non siamo come i pulcini che, sentendo a un dato momento necessità dell’aria libera, rompono il guscio che li rinserra ed escono a respirare, a vivere; abbiamo piuttosto bisogno che qualcuno rompa dal di fuori la nostra prigione e ci restituisca la libertà».

Per Unamuno siamo come dei “dermatoscheletrici”, cioè crostacei con la carne dentro e le ossa al posto della pelle, “poveri granchi rinchiusi nel duro carcere di una dura crosta”.
Ebbene, l’isolamento - o la solitudine inautentica - di molti nostri giovani evoca la potente e disperata immagine di Unamuno! Occorre, perciò, qualcuno che “rompa dal di fuori” il guscio del loro isolamento, del loro mutismo relazionale: per questo è necessaria un’umanità adulta che gridi anche di fronte al deserto degli sguardi dei loro figli, perché, in fondo, il deserto ascolta le voci che prorompono dal cuore, accoglie gli orizzonti di senso che si cercano di modellare o rimodellare all’interno dei paradossi, delle fluttuazioni, delle intermittenze, delle certezze e delle speranze disilluse di questi stessi giovani.

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