LE PSICODELIZIE DELLA MEMORIA
Lettera ad Augusto Concato sui ritratti probabili,
I luoghi impossibili e le ombre vere dei sogni.*
Caro Concato, sto cercando di radunare e, possibilmente, districare
le molte sensazioni che ho accumulato da quando (era giugno di quest'anno,
credo) mi hai annunciato questo nuovo progetto che oggi si è
materializzato in una installazione pronta per l'apertura al pubblico.
Siamo ad ottobre e in mezzo c'è stata una caldissima estate
nel corso della quale non mi hai fatto mancare notizie del tuo procedere
incessante. In tutto sono passati quattro mesi, cioè un quasi-niente
per te che ti sei imposto pause di anni in solitaria e pervicace contestazione
di quel sistema dell'arte al quale hai partecipato con malcelata insofferenza,
sfociata poi in un netto rifiuto.
Vedere l'ombra scodinzolante di un cane finto.
Dunque, ho pensato, era di nuovo scoccata la voglia e, pur non riuscendo
a nasconderti la mia gioia per questa fiammata del ritorno, mi sono
imposta di non aggiungere I miei assilli alle tue trepidazioni. Ti
conosco da troppi anni (quanti? Non ho il coraggio di calcolarne il
numero, per evitare di intristirmi sulle ferite che mi ha lasciato
il tempo), per non sapere quanto ti pesa sentirti ingabbiato nelle
altrui pretese di porti limiti e freni dall'esterno. Ho però
capito subito che tutto si sarebbe svolto in modo fulmineo, come se
avessi demolito le chiuse di una diga troppo gonfia.
Come pulci del cosmo che saltano di stella
in stella.
Così è stato, infatti, perchè ancora una
volta mi stavi permettendo di passeggiare sulla punta di un iceberg
formatosi in tempi e luoghi (mentali) molto lontani, pronto ad ogni
collisione, alla inevitabile deflagrazione. Nulla di nuovo, mi sono
detta all'inizio, ma in seguito ho dovuto riflettere che da quando
hai iniziato come giovane-artista-giovane (non è una ripetizione,
è il segno di una condizione nei preistorici anni
settanta, hai modificato la tua visione dell'arte depurandola da preconcetti
concettualistici, ottenendone un fluire secondo pulsioni più
intime, forse, ma certamente più libere e gioiose.
L'interpretazione è la vendetta del
critico sull'arte.
Non voglio dire che la fase progettuale abbia perso d'importanza,
ma si sviluppa ora attorno ad una intuizione poetica che da sola giustifica
la decisione di affrontare la fatica realizzativa. Non una rinuncia,
non un impoverimento, ma al contrario l'esigenza di navigare più
liberamente nell'oceano degli stimoli mutuati dalla poesia e dalla
musica, dal cinema e dalla pubblicità, senza rinunciare alle
riminiscenze dell'arte: tutta l'arte, non una corrente preferenziale,
non un'epoca definita.
Quante parole genera il silenzio, quante
immagini!
Più di una volta ho tentato di definire razionalmente il senso
del tuo lavoro, ma sempre mi sono bloccata alla soglia di una complessità
labirintica, che mi portava in zone oscure, dalle quali si diramavano
altre e impercettibili tortuosità. Ora però ho deciso
di azzardare il termine psicodelizie, che mi soddisfa più
di altri per il suo sottintendere quell'impasto di razionale e irrazionale,
di ansia e di allegria, che ti è confacente. Il tuo affondare
lo sguardo diritto nelle paludi dell'inconscio e della memoria ha
il duplice scopo di tenerti discosto dalla quotidianità più
maligna e di impedirti la frammentazione della tua immagine. Per respirare
più profondo, mi hai detto una volta, ma anche per metterti
di
sbieco di fronte alle luci intermittenti della cronaca e non perdere
tutti I possibili segnali altri provenienti dal profondo.
Il problema è saper leggere le cose
non dette, non scritte.
Questa tua posizione poteva sembrare una eccentricità capricciosa,
negli anni dell'impegno urlato, ma quando tutte le utopie si
frantumarono, polverizzando ai quattro venti I cocci dell'ideologia,
la tua posizione si è chiarita di colpo, permettendoti di rimanere
saldo sull'orlo di una voragine senza fondo. Fin qui ho riesumato
dei frammenti del tuo passato, del quale mi reputo una assidua e attenta
testimone, ma il mio interesse non è storicistico, fine a se
stesso. La divagazione mi è servita per introdurre l'operazione
attuale, che ci vede ancora insieme, nella quale ritrovo inevitabili
schegge del passato, ma anche una sorridente pacatezza, che evidentemente
fa parte di un processo, immagino quanto laborioso, legato all'ultimo
periodo di voluta astinenza. Qualcosa che solo chi ha superato
gli affanni del vivere e del fare può trovare nel riconoscersi
nelle vene del mondo, oltre la ricomposizione armoniosa del proprio
essere artista.
Il sogno che non si alimenta di sogno, svanisce.
Certo, poco è cambiato il tuo rapporto tra percezione erappresentazione
che è la volontà di restare attaccato alla coda del
sogno anche quando gli occhi si sono completamente aperti sul nuovo
giorno già fatto. Come sempre, ma il tuo cercare di fare tutto
prima che la scintilla si spenga, oppure evitare che la folgorazione
perda di intensità, che prima era un modo ansioso di porti
in rapporto alle tue caducità errabonde, ora è una vera
e propria strategia posta in essere per evitare distrazioni
interne ed esterne. É un intrecciarsi di trucchi ben
studiati per autodifesa nel corso del processo creativo, che ti conducono
direttamente all'opera-sentenza
Saper capire quanto ci può essere
di straordinario nei momenti ordinari.
Non voglio però lasciarmi impantanare in eccessivi psicologismi,
che possono solo essere superficiali, oltre che inutili. E nemmeno
derogare dal mio assunto di abusare dell'esercitazione critica, che
trovo essere una forma prevaricante e narcisistica, nei casi migliori,
di specchiamento nelle altrui invenzioni poetiche. Mi basta rendere
conto del fatto che sono stata dentro questa tua ultima mostra,
lasciandomi coinvolgere dalla soavità delle forme e
dalla leggiadria dei colori. Uso volutamente una terminologia
desueta e fortemente sospetta (la critica ha avversato per molti anni
la cosiddetta bella pittura…), che mi serve per dare conto
con semplicità della trance ipnotica derivatami da questi personaggi
definiti probabili, fortemente evocativi in virtù di
un impianto scenico che è un mondo brulicante di spazi e oggetti
misteriosi, come I veli dei sogni che a tratti si aprono in squarci
fascinosi, per poi chiudersi e svanire.
Chi conserva una testa da bambino, conserva
la testa.
Ritratti (o autoritratti) maschili-femminili da giardini delle
delizie di una millenaria letteratura favolistica tramandata da echi
e rimandi di cui si è persa traccia. Personaggi che, una volta
evocati, reclamano il loro diritto ad esistere. Tutti si sono messi
in posa sulla poltrona del pittore, lasciandosi investigare ben oltre
la loro parvenza: la donna-fiore dal cuore scoperto e le mani
fluttuanti nell'aria; l'angelo-indio che si sostiene aereo
puntando il dito per terra (oppure tiene il mondo sulla punta del
dito, chi può saperlo…); il nudo-acrobata che sostiene
il mondo, ma è gracile e forse si tratta solo di un mappamondo
giocattolo; il domatore di fulmini che forse ne è colpito;
il padrone delle nuvole che forse ha paura della pioggia; il
minotauro timido… e altri ancora che affollano una galleria
fantastica attraversata da una quieta follia.
La sincerità è il più
grande ostacolo che l'arte deve superare.
E gli spazi, veri e propri campi di concentrazione della
memoria, che non ci chiariscono se sono destinazioni alla fine di
un viaggio della ricomposizione del sé, oppure riminiscenze
di sogni fetali. Perchè l'allegro svolazzare di cappelli, fiori,
piume, animali e bastoni (per non dimenticare del gilet derivato
da Depero) crea una atmosfera intrigante, come se la girandola si
svolgesse in un etere astratto oppure in un acquario reale. Tutta
l'installazione è un brulicare fantastico di memorie labirintiche,
proiezioni di proiezioni, coloratissime ombre cinesi evocate da sapienti
pennelli che hanno saputo diventare emanazioni dirette dei flussi
emozionali.
Una cosa deve assolutamente evitare un artista:
impadronirsi della malinconia altrui.
Sono le mille e mille storie…(che pure era il titolo di
un'altra tua bellissima installazione di molti anni fa) che mi hai
già raccontato altre volte con l'ostinazione di chi ha capito
che il futuro e l'irreparabile si fanno da soli, in quanto hanno radici
profonde nelle stratificazioni di tutti I nostri passati, personali
e universali. E in quell'impasto insondabile tra sogni r realtà,
che hanno confini nobili, ma passano sempre attraverso di noi. Per
questo credo appropriata la mia definizione iniziale di psicodelizie
della memoria, attribuita al tuo percorso poetico che ti ha portato
a volte a scegliere I sentieri più scoscesi e solitari, lungo
I quali cercare di vedere il non visibile e in questo modo riempire
l'infinita capienza del vuoto. Ora, uscito in piena luce e essendoti
trovato ad un incrocio con molte direzioni, hai scelto con coraggiosa
naturalezza l'unica che ti è congeniale: verso il cielo libero
della poesia.
Romana Loda
Brescia, Ottobre 2001
*Lettera estratta dal libro di Romana Loda:
IL MARE CHE NON NAVIGAMMO
di prossima pubblicazione per le Edizioni Multimedia.