Archivio Attivo Arte Contemporanea
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Galleria d'Arte Il Salotto via Carloni 5/c - Como - archivio storico documentativo
SILVIA DE BEI
antologia critica
"Primi appunti nel metodo di Silvia De Bei" di Roberto
Sanesi Un incontro con
Silvia De Bei Rapidità e sinteticità espressiva caratterizzano apparentemente il porgersi di Silvia De Bei all'interlocutore, anche nel voler titolare questo volume "appunti"... anche se già sfogliando le foto delle opere destinate ad illustrarlo risultava evidente che non sarebbe stata sua intenzione pubblicare una raccolta di schizzi preparatori, quanto piuttosto di dipinti più che meditati e sedimentati sia nei contenuti che nell'accuratezza d'esecuzione... e allora? Perché "appunti"? E' stato il primo interrogativo. S.D.B. Con questo titolo desidero rifarmi a una osservazione di Gianfranco Ravasi così espressa durante uno dei suoi incontri fra allievi e maestri: "Rispetto alla più generica note francese o inglese, l'italiano, appunto, indica proprio questo, mettere a punto facendo convergere nell'essenzialità di un punto, la trama di molteplici traiettorie". M.C. I tuoi "appunti" vivono perciò di una visione sincronica della vita, fatta di eventi collocati in una dimensione che li supera e li contiene nell'istante assoluto. Non esiste una narrazione, uno svolgimento sequenziale, tutto "è" nell'attimo della creazione... tutta la tensione che ne scaturisce converge quindi virtualmente attraverso "infinite opere" in un'unità chiarificante. S.D.B. Si, è così che avviene e da sempre, credo, vivo la mia esperienza artistica... anche se nell'affermarlo mi rendo conto che, ancor più della astrazione pittorica, questo concetto, con cui la vorremmo spiegare risulta alla fine ancor più complicato della stessa e di non facile comprensione. M.C. Be'... anch'io lo credo anche perché, se un quadro è ben proporzionato, si lascia osservare volentieri da chiunque anche in assenza di considerazioni sulla teoria dell'arte. Ma, anche se complichiamo ulteriormente le cose credo si possa sottolineare come nel pensiero alchemico si possa individuare un concetto simile. In alchimia, difatti, nell'indicare il principio della trasformazione come natura, mezzo e fine di questa scienza stessa scopriamo una coincidenza assoluta di azione e sostanza come scopo operativo e di elevazione spirituale... di armonizzazione della corporeità con la sfera del pensiero e infine della spiritualità. In fondo la tela bianca che precede il dipinto, lo segue e precede quello successivo come la fase finale della trasformazione alchemica chiamata "dealbatio" (letteralmente sbiancamento) e che prelude al rinnovamento della trasformazione in un nuovo ciclo della stessa. S.D.B. Quando mi trovo davanti alla tela bianca provo sgomento e cerco conforto in una formula razionale... i miei quadri sono difatti tutti strutturati secondo la sezione aurea, "Divina Proporzione" come la chiamava Luca Pacioli, anche se alla armonizzazione geometrico-matematica delle forme precede una fase prettamente espressionista, fatta di gesti veloci quanto sommari nella partitura istintiva delle superfici. Solo in un secondo tempo intervengo ingabbiando queste forme nella sezione aurea che poi, a sua volta, viene dimenticata, celata. Ciò che conta, alla fine risulta essere solo il "lavoro" e in questo, posso convenire, trovo un parallelo col processo operativo di cui parlavi. Non si pensi comunque che, nel filtrare la visione oggettiva dei corpi, io voglia fare dell'astratto M.C. Mi pare però che nella rinuncia alla prospettiva tu esprima una negazione dell'interesse al corpo come fattore fisico piuttosto che simbolico, metaforico, mentale. S.D.B. Per me la prospettiva è una finzione, le linee, i segmenti definiscono lo spazio, gli oggetti, i piani, i colori la profondità, quindi la prospettiva a me non serve più, non occorrono punti di fuga né linea d'orizzonte che è nell'infinito. M.C. La profondità di colore dei tuoi dipinti, priva di riferimento prospettico, può forse ricordare nel principio espressivo la pittura medioevale nella sua ricerca di spiritualità. S.D.B. In un certo senso, si... M.C. Il corpo, in ogni caso, costituisce motivo di ispirazione e meditazione in tutta la tua pittura. Da dove nasce la tua attenzione per il corpo? S.D.B. Non posso scollarmi dalle mie origini, sono andata a Brera giovanissima e immediatamente inserita nel corso di nudo. Per anni ho ritratto figure umane copiando, così prevede il corso, prima le statue e poi i corpi in carne ed ossa di modelle, modelli... per anni sono andata avanti pensando al nudo e lavorando su questo come unico riferimento della pittura... ne ho realizzati veramente molti, anche di classici, maturando alla fine una attenzione sempre più specifica. La mia, per certi versi è una pittura dissacrante ed è nel colore che vive la sua coerenza lontano dalla realtà. Porto il nudo all'astrazione delineandone i soli valori formali di composizione e colore. Ecco perché i miei nudi sono rossi, blu, senza una attinenza alla realtà. M.C. Il corpo come immagine di meditazione ha delle valenze specifiche che, per le caratteristiche di simmetria possedute potremmo riferire anche alla rappresentazione del "mandala" nella cultura orientale. La nostra enantiodromia, il riflettersi della parte destra nella sinistra del corpo è un dato di fatto e se la nostra esperienza di questa si ribalta nello specchio, la fotografia e la pittura soltanto posseggono il potere di raddrizzarla. S.D.B. Verissimo e potrei aggiungere che la pratica artistica dell'incisione su lastra potrebbe ulteriormente ribaltare la situazione rovesciando per esempio un autoritratto eseguito osservandomi allo specchio. Per quanto riguarda il "mandala" poi, l'osservazione va estesa alla modalità di esecuzione. Bisogna eseguirlo con molta accuratezza e l'esecuzione può durare anche un mese. Lo eseguo col sistema delle velature, che ho imparato da Veronesi; ne sovrappongo moltissime e ogni velatura deve avere il tempo di asciugarsi. L'effetto è la profondità. M.C. Sovente i tuoi dipinti sono quadrati, perchè? S.D.B. La geometria mi ha sempre affascinato, per cui spesso nei miei quadri ritorna il triangolo, o ancora il quadrato, quasi sempre ruotato di un multiplo di angolo retto, senza alcuna connessione con la simmetria, evidente in "The ancient of Days" di William Blake, dove la divinità con il compasso geometrizza l'universo. Concetto che sottolineo con il mio paesaggio dal titolo "il compasso dell'ordinatore". M.C. Come sei arrivata al tuo attuale modo di dipingere? S.D.B. La mia è una pittura tesa fra astrazione ed espressione. Dalla fine degli anni '70 ad oggi ho decantato la mia pittura partendo da una forma espressionista per arrivare all'astrazione della figura... Cervello e intuito, intuito e cervello, agiscono talvolta in sinergia e talvolta in conflitto generando ora sofferenza, ora pacificazione dinamica. La lucidità dell'astratto è pace, la vitalità dell'espressionismo liberazione. A tutt'oggi non sono ancora arrivata ad una scelta definitiva e univoca. M.C. Quali sono i tuoi maestri che ricordi con maggiore intensità? S.D.B. Carpi, un patriarca, per la mia iniziazione all'arte, Funi, per il rigore classico, Valentini, per l'intelligente introduzione all'incisione, Veronesi, per l'eredità di un mestiere, Lazzaro per l'essenzialità nei valori formali. Primi appunti nel
metodo di Silvia De Bei "Calla Palustris": organismo in crescita, semplificato nelle sue masse di azzurri fondi, un po' opachi, degradando in tonalità di verdi, di grigi toccati da una luce notturna, lunare, ogni sua articolazione disegnata con una esattezza essenziale, matematica, alle soglie di una astrazione che si avverte necessaria non per superamento della materia, anzi per accentuazione della sua plasticità, per rilievo dei suoi snodi interni; e forse per trattenere, con effetto di stupore quasi "metafisico", l'emozione di un movimento altrimenti, forse, inquietante, disordinato. La densità dei volumi coincide con il colore, in blocchi che si articolano in una sorta di scansione tonale cui spesso fa da contrasto, segnalando le relazioni con lo spazio (il dentro-fuori, la prospettiva, il piano d'appoggio, perfino il vuoto: a volte ambiguamente), una certa rigidità marcata del segno compositivo. Ogni riferimento naturalistico resiste per costruzione, si espone in quanto metodo. E si capisce quanto possa avere influito, su questa pittura, la lezione di disciplina di Veronesi - per quanto si possa supporre un ricordo, mai imitativo, magari di Cézanne, delle intenzioni cubiste di accerchiare fenomenologicamente un oggetto, di mostrare la molteplicità formativa. Contro ogni apparenza, non c'è freddezza nella pittura di Silvia De Bei, c'è rigore dello sguardo. Uno sguardo che lavora per "riduzione", cercando non di "riprodurre" effetti, impressioni, ma la necessità del loro apparire. D'altra parte, Silvia De Bei dipinge dal vero, lo affronta con impeto, lo cerca con un disegno che è certo sapiente (di studio, di esperienza) ma non preoccupato, all'inizio, di dare forma. Anzi, per fasi successive, "impreciso" per immediatezza dell'impulso, fatto di tentativi, di approfondimenti, sensibilissimo ai dettagli segreti e però ancora informi, in modo che si direbbe espressionistico se già non si intravedesse una disposizione a comporre per blocchi. L'analisi è successiva, si rivela come processo di geometrizzazione. Dimenticato, messo fra parentesi per consentire allo sguardo la massima attenzione, il soggetto - un fiore, un paesaggio, un nudo femminile, una serie di forme decó da cappello, un mazzo di saggina, una lampada, un vaso - si oggettivizza esponendosi in quanto sistema e se assume un'apparenza innaturale è solo per mostrare le condizioni alle quali la natura diventa accessibile. Probabilmente è per questo che gli oggetti di natura, organismi vivi, e gli oggetti inanimati, tendono in certo senso ad assomigliarsi in questo congegno di formazione. Per quanto la pittura di Silvia De Bei rifugga da ogni tentazione metaforica, se in opere quali Sorgo colorato, o Amaca, Lingue di fuoco, Petalo, ecc. nella loro orizzontalità di forme solidificate, siamo spinti a intravedere indifferentemente paesaggi o corpi distesi, ciò dipende dal fatto che resiste in loro una allusività fortissima a un principio naturale. Ci sono due "appunti" (così sono definiti, con evidente distacco dal soggetto vero) che possono utilmente essere comparati per comprendere meglio ciò che intendo dire: uno è del tutto privo di titolazione, l'altro si espone, un po' a sorpresa a un primo sguardo, come Iris. In entrambi i casi il fondo è grigio, uniforme: uno spazio indifferenziato che possiamo presumere vuoto, oppure che sappiamo essere un pieno sul quale poggiano quattro forme solo perché anche l'ombra vi si precisa, ombra densa, netta, che prende a sua volta una forma, ma autonoma, non tale comunque da svelare in alcun modo cosa siano, esattamente, gli oggetti. Nel caso di Iris ci rassicura il titolo - non le forme, non il colore - e così lo spettatore è indotto a rintracciare che cosa distingua, nella identica geologizzazione dei corpi, nella durezza del segno che li delimita, un organismo vegetale così ricco di intensità lirica nell'immaginario di ognuno, da alcune forme enigmatiche, dotate di un peso, isolate su un piano, apparentemente destinate all'immobilità. Sappiamo (perché le abbiamo viste nello studio della pittrice, e a volte in modo più esplicito in altri quadri) che si tratta di forme per cappelli, di legno, e possiamo anche ammettere, riconoscendole, che portano in sé la memoria di un tempo, di un gusto - è per ragioni aggiuntive che le riammettiamo al contesto visibile. Ma il problema non è di verosimiglianza. Queste quattro forme riguardano lo spazio, lo marcano, vi segnano intervalli, indicano una prospettiva, sono immobili. Iris è una concatenazione di "nuclei" che intuiamo di sostanza viva a causa di un movimento di aggregazione che si sviluppa in direzioni diverse, elementi di un unico corpo in formazione - che sarà iris, che assumerà il suo colore appropriato, la sua forma riconoscibile, ma che al momento ci avverte solo della sua spinta interna: peso, densità, volume, si esprimono in forma di diagramma, secondo una logica costruttiva, non imitativa. Silvia De Bei tende a dipingere dei dati oggettivi, l'architettura delle forme, testardamente fedele a un modello vero, quasi indifferente alla sua apparenza immediata. Si interessa alla struttura, analizza in certo senso le cause, non gli effetti. Evitando l'illusionismo, tende a evitare ogni tipo di interferenza "simbolica". I suoi paesaggi sono corpi, i corpi paesaggi, e gli uni e gli altri un rigoroso schema di organizzazione degli elementi plastici. Con altrettanta convinzione, lo sguardo si attiene agli oggetti, non li nasconde, non li astrattizza. D'altra parte, se si ripercorrono tutti i passaggi che hanno condotto a queste soluzioni, si noterà una coerenza fermissima con le prove iniziali, di ordine figurativo, di ricerca tonale, di espressività contenuta, sobria. I suoi maestri erano stati Funi, Carpi, in un contesto di sperimentazione fortemente intriso di motivazioni etiche. E' forse per questo, malgrado le distanze prese dalle tentazioni "espressionistiche", o metaforiche che resiste nella sua pittura un'intenzionalità di rappresentazione di significati non estranei alle ragioni emotive, per quanto misteriose esse rimangano di fronte a qualsiasi oggettività. Che ne è infatti toccata. Totem, qualunque siano gli oggetti che lo compongono, finisce con l'apparire un emblema di forze femminili, una specie di stele polimastica contro una forma di luce che si direbbe alludere a quella di un diamante, con conseguenze interpretive notevoli. Ma è forse un'opera come Sospensione che più di altre esemplifica la persistenza di una visione analogica più complessa del prevedibile. Sospese appunto in uno spazio interrotto solo da due fasce di colore a contrasto con il fondo, due figure femminili date come sempre per blocchi, con risalto plastico, accentuano la loro valenza di simbolo per parziale metamorfosi vegetale. La testa, non solo la testa comunque, è composta di fiori come innestati al corpo, che è attraversato verticalmente da uno stelo la cui energia fiorisce non a caso in direzioni opposte. In Eremorus e nudo la relazione è la stessa, come accade anche altrove, e non è questione descrittiva. Queste efflorescenze in accordo con il corpo non può sfuggire che siano impostate alla maniera di un "mandala", schema di continuità dello spazio, segnale di un principio ciclico. Che in altre opere , per esempio Funamboli, ma anche Stele, o Rifrazione, funziona per sfaccettature, a specchio, lasciando al colore il compito di indicare gli snodi, le connessioni, i ritmi, e ogni allusione non più solo formale. Silvia De
Bei Culto della forma; mondo delle Idee. La linea platonica,
tracciata nel "Fedone", porta all'Iperuranio, cioè alla perfezione.
Sta lì il concetto della Bellezza, unito a quello della Verità.
Come non ricordarlo osservando questi dipinti di Silvia De Bei? Essi
sono posti sotto il segno appunto di Platone: "Dio geometrizza sempre".
In altre parole, ci si presentano come la ricerca di un'antica "misura
aurea". Quindi armonia, congruenza delle forme, equilibrio. Silvia
De Bei Cult of form; world of Ideas. The Platonic line, traced
in Phaedo, leads to Hyperuranus, to perfection. That is where the concept
of Beauty lies, linked to that of Truth. One cannot fail to recall this
as one studies these paintings by Silvia De Bei. They prove the axiom
of Plato: "God always geometrizes". In other words, they represent a
quest for an ancient "golden measure". Hence harmony, congruence of
forms, equilibrium. L’incontro
con Silvia De Bei L’opera di Silvia De Bei mi pone immediatamente la condizione di “scegliere” un procedimento di interpretazione analitica, credo a causa della stessa costituzione fisica di questa pittura. Sono quadri con un dato di solidità che dichiara il proprio peso, senza reticenze o pentimenti e ci fa assistere, quel dato, ad un gioco del dipingere senza trucchi, come se la materia avesse l’unica vocazione di rappresentare se stessa. Questi dipinti sono teoremi sulla pittura e sui suo farsi, l’artista infatti, dimostra di conoscere bene gli insegnamenti di quella linea analitica che ha caratterizzato molti studi della cosiddetta pittura fredda degli ultimi cent’anni. Un autentico patrimonio teorico lasciatoci da quegli artisti che nell’insieme della loro opera hanno voluto stigmatizzare una processualità scientifica dell’arte. Il procedere di questa pittura dichiara un’affinità formativa ma non coatta alle diverse teorie sul campo e sulla figurazione di matrice gestaltico/psicologico. La costruzione di ogni dipinto è realizzata con la regola progettuale dell’“intelletto consapevole’ della mente che guida una mano delegata esclusivamente al disegno del pensiero, alla costruzione fisica delle idee. Samovar è il titolo di un olio su tela di 70 x 120 cm dove lo spazio è stato misurato da una triangolazione progressiva che predispone a diverse percezioni, ora prismatiche, ora prospettiche, creando una multistabilità tra figura e fondo in cui sembrerebbero affiorare le molteplici, speculari forme di una figura riflessa, nata dalle conseguenze delle linee che si incontrano mentre si moitiplicano. Qui, in questo dipinto, le teorie della forma e della figurazione sono rappresentate in maniera quasi didascalica che rende accessibile a tutti la lettura di una configurazione condivisibile. In questi anni la nostra esperienza percettiva è chiamata a confrontarsi con le accelerazioni della comunicazione elettronica, il mondo “virtuale” è popolato di finestre grafiche che sono il dato attuale dell’evoluzione della geometria cellulare, di quel principio conoscitivo che misura lo spazio come luogo degli avvenimenti, delle comunicazioni, o, azioni comunicate. In questa direzione voglio dare il mio contributo riflessivo, sebbene condensato in una breve nota, al lavoro di Silvia De Bei, a quelle capacità che ha di comunicare una deframmentazione della figurabilità contemporanea. Quella deframmentazione che si può utilizzare in una vastità di applicazioni, come una regola o una lingua, sia che ci si debba esporre alla visione di una vetrata gotica o al bombardamento telematico di una navigazione internettiana. Una pittura coprente e perimetrata, condotta con “passo musivo” dove è possibile ritagliare lo spazio in frammenti destinati ineiuttabilmente ad accostarsi, coi limiti della misura consegnata, talvolta contraddetti quei limiti, dal colore brillante che esalta le forme più piccole per farle prevalere sulle più grandi come in “iris viola blu” In questo quadro l’artista riflette sul quadrato, che è il campo delle sue azioni, qui interviene in modo tautologico con un altro quadrato, verde, in movimento rotatorio di cinquanta gradi in senso antiorario, da destra verso sinistra, il che, dà un senso di lieve moto nel quale l’artista ci consegna una visione tremolante di fiori bicolori, freddi, congelati nell’austerità del perimetro che li contiene. Questa pittura è costruita come un sistema integrato di relazioni fra i segni. in un campo dato, l’artista disegna una misura nella quale depositare le forme di un ragionamento sulla pittura stessa, sul suo esistere feriale, non festivo. Così le “costruzioni” si rincorrono come frammenti che si uniscono nel tentativo non improbabile di essere figura, oggetto, rappresentazione. Distacco è il nome che porta un dittico composto da due tele di 60 cm x 120. Questo dipinto nasce dalla separazione dei due oggetti primari, le due tele intelaiate, non aderenti fra loro e distanti qualche centimetro. Ecco! Ancora la geometria, già nella procedura “pre/pittorica”, quando l’artista sceglie le misure del campo in cui, con modalità costruttiviste, travasa il suo progetto, la sua idea estetica - (come la intendono le nuove metodologie di ricerca scientifica sui fenomeni artistici)-. Ed ecco allora che, avvenuta questa relazione fra oggetti e soggetti il colore diviene luogo di interesse primario a cui affidare il compito cinetico del dinamismo delle forme, di quel movimento dato dalle differenze dei campi ritagliati che la pittrice utilizza per raffigurare figure plastiche come sculture di pongo colorato che sembrano avvicinarsi ad un incontro sullo stesso piano. Questa opera della De Bei è quindi ricca di complessità formali per aderire alle quali è però d’obbligo un profilo di ”nobiltà scientifica” senza il quale non si partecipa alla semolicità che contiene. Silvia
De Bei In sintesi un lungo "flash" da Carpi e Funi, a Lazzaro e Terruso, un'interruzione, una ripresa. Nel grande studio di Carpi, a Brera, con questa figura paternalistica piena di umanità e calore, il mio primo incontro giovanissima con l'arte: le grandi stufe, le modelle, viola per il freddo, e un compito unico, nudo, nudo per anni, disegnato e come premio il colore. Era la guerra. Poi la lunga assenza dall'arte. Il dopo è peggio di una guerra: la necessità di una sopravvivenza ha valori nuovi che urtano e spingono con violenza. Carpi mi dice, scandalizzato, in un incontro dopo la sua prigionia e la mia abiura, una frase che mi resterà nel cuore: "Ma come l'è che l'à fà a piturà pù"? Oggi sarebbe contento: l'amore per il colore, il punto, la linea non si annullano, non si elidono, non si distruggono, possono solo aver termine in un espressione. Mescolanza di colore e linea, in silenziosa struttura di leggi cromatriche e geometriche, mai prevaricanti sulla poetica. Intuizione imbrigliata in regole fisse, ma libera di negare il ripetitivo e di agire con fantasia. Non forme essenziali astratte, ma un dato di natura inserito in uno schema severo è l'assunto di questi miei "appunti".
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