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Scrivere di Gianni Secomandi in occasione di questa sua prima importante retrospettiva (preceduta solo da quella dedicatagli dalla natale Vercurago ad un anno dalla scomparsa immatura) è per me occasione di ricordi, ma anche di riflessioni, e di rimpianti.
Di ricordi, innanzi tutto. E di ricordi remoti, che rimandano ai tardi anni '50, quando sia io sia il pittore stavamo muovendo i primi passi, ciascuno nel proprio campo. L'incontro tra noi avvenne nel 1958, nella saletta ove erano esposte, a cura del generoso, non dimenticato Pino Tocchetti, le opere concorrenti al "Premio Manlio Rho".
L'artista era impacciato, persino con un "critico" appena ventenne; ed anche, e forse di conseguenza, un po' misterioso. Le opere, ad olio, partecipavano dell'allora diffuso clima informale con personali qualità di strutturazione della superficie dipinta, già dialetticamente vivacizzata da accensioni luminose, organizzate in larghe stesure. Mi colpirono, come il loro autore. Ne scrissi anche, sul giornale locale che promuoveva il premio. Ed in seguito ci vedemmo più volte, a Como e altrove.
Conversazioni ed incontri sfociarono nella "presentazione" che nel 1961 Secomandi mi chiese per la sua prima mostra personale a Milano, nella Galleria Pater. Credo anzi si tratti del primo testo dedicato al pittore. Ed è per questo, penso, che gli organizzatori della presente retrospettiva hanno voluto il mio intervento. Che altrimenti si sarebbero dovuti rivolgere ad altri, che più assiduamente e puntualmente, sino alla fine, abbia seguito l'iter del pittore. E penso in primo luogo a Eligio Cesana, che dall'amichevole consuetudine con l'artista ha tratto stimolo per osservazioni finissime ed illuminanti: ultime, quelle redatte in questi stessi giorni sui "ritratti" con cui Secomandi ha concluso la sua attività. "Ritratti" di poeti, filosofi, narratori, dettati, precisa Cesana, "dall'urgenza, si direbbe dalla premonizione, di rivisitare gli autori di messaggi culturali e di espressioni poetiche, di cui Secomandi s'era nutrito giorno dopo giorno, fino ad assorbirli come parte viva del suo pensare, del suo sentire, del suo modo di esistere". Osservazioni che ho constatato essere fondate sull'effettivo modo di essere, e di fare arte, del pittore. Solo ora, tuttavia, con pienezza, di cui do qui testimonianza. Confesso infatti di non aver dato il giusto peso alle frequenti citazioni, appunto da poeti e narratori e filosofi, che comparivano nel retro delle opere, vergate dall'artista. Il sospetto -ma quanto ingiustificato era che Secomandi giustapponesse alle sue immagini i riferimenti a Pascal, Proust, Kafka, Gozzano, Sartre, Camus, Goethe, D'Annunzio, con un processo solo fino ad un certo punto motivato e conseguente. Mentre era la dichiarazione del punto di partenza; anzi di una condizione spirituale mantenuta viva durante l'intera realizzazione dell'immagine. E la reticenza della superficie dipinta relativamente a tali nessi era prova della loro profondità, del loro risolversi in personale, intima unità.
Qualcosa di simile, del resto, già era avvenuto per la lunga e nutrita serie di lavori in cui erano insieme coniugati interesse per l'astronomia e pittura, Con relazioni ancora una volta non di contiguità, ma di profonda interdipendenza. Le precise didascalie che Secomandi apponeva ai suoi quadri, Con analitiche descrizioni di effemeridi, coordinate astrali, angoli solari, eccetera, non Sono indice del desiderio di portare nell'arte la scienza, o viceversa. Sono piuttosto la traccia di una dimensione operativa non appiattita su astratte specificità, Con le conseguenti, e altrettanto astratte, separazioni. Secomandi viveva poeticamente l'osservazione degli spazi siderei. Essa non è stata mai, ha a suo tempo opportunamente sottolineato Gualtiero Schoenenberger, "il pretesto a spunti descrittivi Con una tematica un po' diversa dalle solite, ma costituisce l'avvio a un seguito di meditazioni, poi tradotte in immagini, sullo spazio, sui diversi spazi". Spazio definito e spazio infinito appaiono infatti sulle sue tele e tavole quale risultante di siffatto guardare e pensare e sentire.
Secomandi sapeva bene Come "la nozione d'infinito va riferita all'uomo e acquista senso se paragonata alla finitezza dell'uomo", per usare ancora le parole di Schoenenberger. Il che non vuol dire pessimistico, o mistico, annullamento dell'uomo nel cosmo, ma avvertenza della pluralità di dimensioni, e condizioni, dell'universo. Con esiti di potenziamento del fascino dell'immagine, realtà in bilico tra altre differenti realtà. Nel guardare entro e fuori di se l'artista non ha mai infatti declessato il dipingere a puro momento descrittivo, o di testimonianza. Il quadro, insomma, non è stato per lui qualcosa di superfluo. Ed invece momento privilegiato del suo modo di essere, che in esso trovava - o almeno cercava - la sintesi. Di qui la constatazione, che questa completa retrospettiva esalta, dell'ininterrotta connessione tra itinerario spirituale e vicenda espressiva, Con lo
scaturire dai presupposti diciamo così di "contenuto" di sempre rinnovate soluzioni di linguaggio.
Lo sperimentalismo che innerva l'intera storia artistica di Secomandi non è infatti mai autoriflessivo. Il suo linguaggio non è mai metalinguaggio. È sempre "motivato da" e "in funzione di". Così, come nelle prime fasi egli non cade - lo sottolineavo in quel vecchio testo del 1961 -nell'arcadia tardoinformale, con tutto il suo corredo di svigorito gestualismo e di estenuato materismo, analogamente nel momento "astrale" non è isterilito da un interrogarsi solo interno all'arte. Ed il ricorso ai materiali più diversi non è tautologico, ne, meno che meno, funzionale all'esaltazione del tecnologico o del primario.
Certo, Secomandi aveva la "capacità quasi medianica di rendere espressivi anche i materiali più riluttanti ad ogni temperamento sensibile o di interiorizzare i segni apparentemente più asettici" e quella altrettanto sorprendente "di trasformare un accumulo di dati selezionati dalla ragione in un tessuto vivo e vibrante" motivatamente riconosciuti da Cesana. Ma sempre con tempi lunghi trasferenti il guardare nell'approfondire, il pensare nel meditare. E con una sorta di sedimentazione del vissuto, che non è distacco, ma volontà di cogliere l'essenza, evidente anche in quelle opere che più parrebbero legate alla flagranza del contingente, nel fissare le tracce della passeggiata del fringuello o i movimenti dei vecchi nell'ospizio. Lavori straordinari per la capacità in essa dimostrata di dilatare il particolare senza perderne la concretezza, di renderlo significante di una condizione che è propria e degli altri.
Soggetto ed oggetto, infatti, sono tutt'uno nella dimensione contemplativa di Secomandi, come particolare ed universale, aspetti di un unicum che esiste, anche nelle parti, in quanto tale. Senza, tuttavia, approdi metafisici, estranei al pittore, che agisce concretamente nel determinato, che non è filosofo - ne ideologo - ma artista, con le implicazioni dell'etimo.
E se dovessi concludere con una raccomandazione queste riflessioni - fatte col senno di poi, su di un'opera ahimè irrimediabilmente conclusa -, mi appunterei proprio su tale determinatezza fabrile, il cui parziale disconoscimento ha anche a me impedito, dopo la iniziale consonanza, una più piena comprensione del lavoro di Secomandi.

Luciano Caramel
presentazione in catalogo per la mostra antologica di Gianni Secomandi
Villa Manzoni - Lecco - 1984

 

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