Questo bianco
mi solleva
Intervista ad Angelo Savelli di Michele Caldarelli
D. A proposito della sua
esperienza artistica, volendo avviare il discorso a partire da una
analisi formale delle sue opere, può spiegare il perché
del "bianco" totale ed esclusivo che usa?
R. Quella del "bianco" non è stata una esperienza iniziata
solo con il mio arrivo a New York, si è maturata nel tempo
e con naturalezza, senza che me ne accorgessi. Ancora in Italia, ricordo
che nel 1944~45 a Firenze sono entrato in una chiesa che, a differenza
di tutte le chiese barocche di Roma, era di una semplicità
che io non avevo mai visto e, in più, era dipinta di bianco,
grigiastro ma caldo, con delle cornici dorate. Questa prima esperienza
visiva del "bianco" mi è rimasta impressa e, rientrato a Roma,
il bianco si è presentato nei paesaggi che andavo dipingendo.
In essi il cielo appariva spesso con delle chiazze di bianco ma non
inteso come variazione di colore; non si trattava di nuvole che in
fondo non si sa se siano bianche o azzurrine, ma di "spazi" dipinti
di bianco. Questo "bianco" si rifletteva anche nel paesaggio alternando
a vegetazione e tutto il resto. Ma la cosa più importante è
che allora, essendo un astratto-figurativo, ho dipinto delle crocifissioni
e il "bianco" è emerso ancora con più naturalezza per
lo spirito del soggetto. Ho ritratto la Maddalena e il Cristo completamente
bianchi, o quasi. Il "bianco" esprimeva l'amore della Maddalena verso
il Cristo che non era più amore terreno ma amore dello spirito.
D. Dal suo primo incontro
col "bianco" come si è maturata la predilezione per questo
non colore, assenza, transitus spirituale, fino a farne protagonista
assoluto delle sue opere e inoltre possiamo leggere il suo "bianco"
come riflesso, specchio?
R. Sì, il bianco riflette qualsiasi colore, si tinge; nei
riguardi dello spazio invece, non si possono attribuire legami giacché
lo specchio è illusione dello spazio. Inizialmente il "bianco"
era legato al soggetto trattato, complementare a questo, in seguito
è diventato supporto a se stesso, forza, senza essere legato
a null'altro che alla propria energia. Prima il "bianco" era anche
correlato agli altri colori e perciò colore esso stesso, successivamente,
assolto dal rapporto cromatico è diventato uno "spazio" legato
all'idea dell'infinito, libero da relazioni, il "bianco" non esiste.
Il "bianco" delle mie opere, poi, non è nato da una spinta
culturale, dall'avere conosciuto prima e attraverso la storia chi,
come e perché avesse dipinto il primo quadro totalmente bianco.
Il quadro bianco di Malevich l'ho conosciuto solo in seguito, la logica
della storia è entrata nei miei pensieri più tardi,
nel 1956-1957. Naturalmente so che la storia ci tramanda la cultura
e la ricchezza del sapere ma è anche vero che se si esaurisce
nella citazione non significa e non dà nulla; bisogna aggiungere
qualcosa alla storia per farla esistere e continuare. Le prime cose
le facevo non con coscienza costruttiva ma col senso di questo "bianco"
e usavo ancora non uno ma parecchi colori anche per la grafica. Proprio
lavorando alle stampe, nel 1955 , ne ottenni una totalmente bianca
che ancora possiedo. Successivo fu l'abbandono del telaio dei colori
e della esperienza ben matura dell'espressionismo astratto americano.
Il "bianco" mi è apparso ancora senza che lo cercassi, lui
si è presentato a me. Mi ricordo che in Pennsylvania ho visto
un lago di prima mattina. L'acqua evaporava, e acqua e vapore si univano
in un unico bianco-grigio, non esisteva più separazione. Rifacendomi
a questa visione ho dipinto il mio primo quadro bianco e non pensavo
affatto a Malevich. Poi il bianco non mi ha più lasciato e
i colori piano piano sono svaniti dalla mia tavolozza e questo "bianco"
mi solleva e mi dà sempre più felicità nell'adoperarlo.
D. In modo "bianco" lei
si è riferito anche al supporto del1a tela, eliminando il telaio,
la sua ortogonalità e ogni suo riferimento di proporzionamento
classico a questa.
R. Sì, ho eliminato il telaio e la classicità della
forma; il "quadrato". Ho elaborato forme geometriche irregolari dando
continuità al primo quadro bianco realizzato, quello di Malevich.
D. In molte sue opere sono
presenti materiali eterogenei. Le corde, ad esempio, hanno un valore,
oltre che formale, anche simbolico riferibile alla loro struttura
avvolta a spirale? E il bianco?
R. Credo che queste corde costituiscono il ricordo della mia infanzia,
quando stavo sempre in riva al mare. Il mio paese di origine è
situato sulla costa scogliosa del Tirreno, di fronte allo Stromboli.
Ma se inconsapevolmente mi sono riferito al ricordo, la mia intenzione,
nell'inserire le corde nello spazio compositivo, è stata quella
di accompagnare l'occhio, in ritmo ellittico, dalla base all'alto
dell'opera e viceversa. Coinvolgendo in questo moto anche le campiture
poste alla destra e alla sinistra, questa linea tracciata dalla corda
costituisce un accento dello spazio dividendolo e unendolo nello stesso
tempo. In questi dipinti, cui ci riferiamo, lo spazio non era ancora
inteso in senso totale ma era ancora legato a delle azioni. La corda,
quasi sempre obliqua, entra ed esce dalla superficie della tela coinvolgendo,
nel suo movimento, anche lo spazio interno con quello esterno. Ma
non ho mai assegnato valori simbolici alle mie opere, perché
secondo me il simbolo non esiste in senso assoluto. Ogni cultura possiede
i propri e, nel campo dell'espressione artistica, trovo che siamo
limitativi. Lo stesso "bianco", ad esempio, ha significati contrastanti
per i vari popoli. Se, nella rappresentazione classica, alle immagini
si attribuiva un carattere simbolico, trovo che queste risultino più
affascinanti laddove il simbolo resta inassegnabile come nell' Amor
sacro e Amor profano di Tiziano. Qui non è decidibile se
profano sia il corpo nudo e sacro quello vestito o viceversa e l'interesse
per questo dipinto continua.
D. Ma se lei afferma di
non coinvolgere il simbolico, come giustifica il senso del "mitico"
che viene suggerito dai titoli che assegna a/le sue opere?
R. La prima volta che ho adoperato la corda è stato nel
realizzare Dante's Inferno, nel 1964, collocandola all'interno
di strutture scatolate verticali, percorrendone la scanalatura, a
vista, dal basso verso l'alto. Sono partito dall'idea di far sorgere
delle colonne da una piattaforma posta in una vasca d'acqua; non premeditavo
il soggetto del titolo. Quando ho terminato l'opera, con tutte le
sue 25 colonne, vivevo in Pennsylvania ma avevo uno studio a New York.
Un giorno, Barnett Newman con la moglie sono venuti a farmi visita,
hanno visto il lavoro e parlandone mi hanno chiesto che titolo volessi
dargli ma mi trovarono impreparato. Nel crearla avevo pensato unicamente
a studiare l'effetto delle strutture riflesse nell'acqua. Lui mi suggerì
di intitolarla Dante's Inferno al che risposi che mi pareva
pretenzioso paragonarla a un libro così potente. Newman mi
rispose, meravigliato, che non dovevo preoccuparmi di tale pensiero
dato che lui stesso aveva realizzato opere del tutto essenziali intitolate
La Passione di Cristo senza che poi, tra l'altro, vi apparisse
alcuna passione e, tantomeno, il Cristo. Il tema mi parve allora formidabile
e, pensando a tutti i personaggi che Dante ha collocato all'Inferno,
mi è balenato anche il desiderio, quando viaggerò verso
l'altra dimensione, di andare proprio lì perché credo
che anche Dante vi sia finito e potrò anche parlare a Virgilio,
Socrate, Platone, Pitagora, ed altri luminari. Così ho anche
dato un nome ad ogni colonna ma solo per distinguerle una dall'altra.
Ce ne sono di piccole e di grandi fino a quattro metri circa, sono
di alluminio e la corda è fusa in metallo. Certo può
essere che, inconsapevolmente, io abbia inteso evocare con i nomi
il senso del "mistico" o del "meditativo" che mi è consueto
nella pratica Yoga che esercito ormai da tantissimi anni, ma resta
pur sempre estraneo all'intenzione artistica.
D. Per lei vanno dunque
di pari passo l'approccio formale alla non comproprietà e l'elusione
del simbolico.
R. Sì, in seguito all'uscita del telaio, ho eliminato le
variazioni fra i vari tipi di bianco e ne ho usato uno solo, quello
di titanio, il più intenso. Poi, essendomi limitato a questo
solo bianco ho sentito la necessità di operare ulteriormente
e mi sono dedicato alla scultura cominciando con Dante's Inferno.
Quando la scultura non mi è bastata più, ho concentrato
la mia attenzione sugli spazi fisici e al come farli vivere. Ne ho
creato uno, ad esempio, con dei tronchi alla galleria Hutchinson in
Green Street a New York. Con circa 84 tronchi dipinti di bianco, disposti
non secondo la prospettiva classica ma con una prospettiva insolita
che disorientava l'occhio. Non esisteva punto di fuga e in fondo avevo
collocato un albero "sacro", come tutta la natura è sacra,
che costituiva il clou dell'opera.
D. Nell'albero, mi permetta
il simbolo, "legno di vita", può collocarsi ancora l'idea del
"luogo del passaggio" ?
R. Sì, in quel periodo vivevo in Pennsylvania in una grande
farm con tanto spazio, un tipo di cascina che si trova diffusa là,
molto bella come architettura. La visione degli alberi, spogli d'inverno
e poi gloriosi nel verde mi ha lasciato una profonda impressione.
Di qui mi è venuto il desiderio di usare dei tronchi per creare
una natura mai vista. Anche se la neve imbianca la natura, lascia
sempre delle parti affioranti col proprio colore e una natura completamente
avvolta nel bianco, come l'ho voluta io, non è mai esistita
se non nella mia installazione. In seguito ho utilizzato molti altri
materiali, compresa la plastica, fin da11954, e, specialmente nelle
ultime opere, il plexiglas bianco latte.
D. Come il latte del mare
primordiale della tradizione indiana? Se mi permette un'ultima benevola
provocazione.
R. Volendo, ma ribadisco che come ogni metafora o simbolo, non
fa parte del mio vocabolario artistico anche se ho scritto una poesia
sulle mammelle che di latte nutrono il mondo. Anche nell'uso dell'ovale,
che ho recentemente reintrodotto non ho voluto alludere all'uovo cosmico
che ha generato l'universo così come, nella elaborazione formale,
voglio sempre sfuggire ad ogni riferimento dallo spazio cartesiano
e alla configurazione armonica. Tutto ciò che accade nella
superficie del quadro o nella illusione prospettica ha valore simbolico
e quindi limita la creazione artistica.
D. Eludendo ogni metafora
o simbolo, evitando i rimandi che questi comportano, è dunque
possibile far coincidere tautologicamente spirito della materia e
materia dello spirito in quanto lei crea?
R. Sì e io credo che, come ad esempio nello stringere la
mano a qualcuno si percepisce la sua "forza", anche nei confronti
delle cose, di tutta la materia in generale si instauri un rapporto
di profondo contatto anche solo nel toccare visivo. Mi affascina anche
l'idea del "punto" inesistente donde ogni cosa trae origine (l'increato
nda). Non esiste natura nell'universo che non sia costituita
di immaterialità e il punto è da dove scaturisce il
cosmo intero.
(Intervista pubblicata su "L'Arca",
Milano, nov. 1989, n.32)