Archivio Attivo Arte Contemporanea http://www.caldarelli.it

 

ANGELO SAVELLI

a cura di:
Antonella Soldaini
testi di
Antonella Soldaini
Flaminio Gualdoni
Michele Caldarelli
Piero Dorazio
Gaia Battaglioli
Ed. Charta Milano
Centro per l'Arte Cont.
Luigi Pecci Prato 1995
ISBN 88-85191-11-8
116 pp.21x28 cm
86 ill. b/n e col.
lingua: ital/ingl.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

All'artista Angelo Savelli (Pizzo Calabro-Catanzaro 1911-Castello di Boldeniga Brescia 1995) il Museo Pecci di Prato ha dedicato nel 1995
(17 giugno-4 settembre) una grande mostra di dipinti, disegni, grafica e installazioni "nel desiderio di voler reinserire nella giusta prospettiva storica una personalità artistica per molti versi ancora da scoprire" come ha tenuto a sottolineare Antonella Soldaini, curatrice della mostra. Di fatti, come molti artisti italiani trasferitosi all'estero, sull'onda di quegli anni Cinquanta che furono di grande interscambio tra l'ambiente artistico italiano, romano in particolare, e quello statunitense, Savelli è rimasto quasi sconosciuto al grande pubblico italiano, eccetto che per la mostra realizzato al PAC di Milano nel 1984 e quella del 1990 alla Casa del Mantegna di Padova. Sarà il 1995 dunque un anno determinante per l'opera di Savelli con la grande mostra del Museo Pecci e la XLVI edizione della Biennale di Venezia che lo ha visto tra i protagonisti del Padiglione Italiano, conferendogli così il giusto riconoscimento. La scomparsa improvvisa di Savelli proprio nei giorni di preparazione dei due avvenimenti non gli permetterà di vedere completati questi progetti cui tanto teneva.
Attraverso i testi di Antonella Soldaini, Flaminio Gualdoni, Piero Dorazio, Gaia Battaglioli e Michele Caldarelli si riscopre Angelo Savelli, artista ma soprattutto uomo sincero, aperto, senza pregiudizi con una visione moderna della vita, con una vivacità di spirito che ha saputo trasmettere nelle sue opere o piuttosto "luoghi" da usare come una palestra mentale, per ritrovarsi e per riscoprire la propria forza.(R.M.C.)

"Questo bianco mi solleva"
Intervista ad Angelo Savelli di Michele Caldarelli

D. A proposito della sua esperienza artistica, volendo avviare il discorso a partire da una analisi formale delle sue opere, può spiegare il perché del "bianco" totale ed esclusivo che usa?
R. Quella del "bianco" non è stata una esperienza iniziata solo con il mio arrivo a New York, si è maturata nel tempo e con naturalezza, senza che me ne accorgessi. Ancora in Italia, ricordo che nel 1944~45 a Firenze sono entrato in una chiesa che, a differenza di tutte le chiese barocche di Roma, era di una semplicità che io non avevo mai visto e, in più, era dipinta di bianco, grigiastro ma caldo, con delle cornici dorate. Questa prima esperienza visiva del "bianco" mi è rimasta impressa e, rientrato a Roma, il bianco si è presentato nei paesaggi che andavo dipingendo. In essi il cielo appariva spesso con delle chiazze di bianco ma non inteso come variazione di colore; non si trattava di nuvole che in fondo non si sa se siano bianche o azzurrine, ma di "spazi" dipinti di bianco. Questo "bianco" si rifletteva anche nel paesaggio alternando a vegetazione e tutto il resto. Ma la cosa più importante è che allora, essendo un astratto-figurativo, ho dipinto delle crocifissioni e il "bianco" è emerso ancora con più naturalezza per lo spirito del soggetto. Ho ritratto la Maddalena e il Cristo completamente bianchi, o quasi. Il "bianco" esprimeva l'amore della Maddalena verso il Cristo che non era più amore terreno ma amore dello spirito.

D. Dal suo primo incontro col "bianco" come si è maturata la predilezione per questo non colore, assenza, transitus spirituale, fino a farne protagonista assoluto delle sue opere e inoltre possiamo leggere il suo "bianco" come riflesso, specchio?
R. Sì, il bianco riflette qualsiasi colore, si tinge; nei riguardi dello spazio invece, non si possono attribuire legami giacché lo specchio è illusione dello spazio. Inizialmente il "bianco" era legato al soggetto trattato, complementare a questo, in seguito è diventato supporto a se stesso, forza, senza essere legato a null'altro che alla propria energia. Prima il "bianco" era anche correlato agli altri colori e perciò colore esso stesso, successivamente, assolto dal rapporto cromatico è diventato uno "spazio" legato all'idea dell'infinito, libero da relazioni, il "bianco" non esiste. Il "bianco" delle mie opere, poi, non è nato da una spinta culturale, dall'avere conosciuto prima e attraverso la storia chi, come e perché avesse dipinto il primo quadro totalmente bianco. Il quadro bianco di Malevich l'ho conosciuto solo in seguito, la logica della storia è entrata nei miei pensieri più tardi, nel 1956-1957. Naturalmente so che la storia ci tramanda la cultura e la ricchezza del sapere ma è anche vero che se si esaurisce nella citazione non significa e non dà nulla; bisogna aggiungere qualcosa alla storia per farla esistere e continuare. Le prime cose le facevo non con coscienza costruttiva ma col senso di questo "bianco" e usavo ancora non uno ma parecchi colori anche per la grafica. Proprio lavorando alle stampe, nel 1955 , ne ottenni una totalmente bianca che ancora possiedo. Successivo fu l'abbandono del telaio dei colori e della esperienza ben matura dell'espressionismo astratto americano. Il "bianco" mi è apparso ancora senza che lo cercassi, lui si è presentato a me. Mi ricordo che in Pennsylvania ho visto un lago di prima mattina. L'acqua evaporava, e acqua e vapore si univano in un unico bianco-grigio, non esisteva più separazione. Rifacendomi a questa visione ho dipinto il mio primo quadro bianco e non pensavo affatto a Malevich. Poi il bianco non mi ha più lasciato e i colori piano piano sono svaniti dalla mia tavolozza e questo "bianco" mi solleva e mi dà sempre più felicità nell'adoperarlo.

D. In modo "bianco" lei si è riferito anche al supporto del1a tela, eliminando il telaio, la sua ortogonalità e ogni suo riferimento di proporzionamento classico a questa.
R. Sì, ho eliminato il telaio e la classicità della forma; il "quadrato". Ho elaborato forme geometriche irregolari dando continuità al primo quadro bianco realizzato, quello di Malevich.

D. In molte sue opere sono presenti materiali eterogenei. Le corde, ad esempio, hanno un valore, oltre che formale, anche simbolico riferibile alla loro struttura avvolta a spirale? E il bianco?
R. Credo che queste corde costituiscono il ricordo della mia infanzia, quando stavo sempre in riva al mare. Il mio paese di origine è situato sulla costa scogliosa del Tirreno, di fronte allo Stromboli. Ma se inconsapevolmente mi sono riferito al ricordo, la mia intenzione, nell'inserire le corde nello spazio compositivo, è stata quella di accompagnare l'occhio, in ritmo ellittico, dalla base all'alto dell'opera e viceversa. Coinvolgendo in questo moto anche le campiture poste alla destra e alla sinistra, questa linea tracciata dalla corda costituisce un accento dello spazio dividendolo e unendolo nello stesso tempo. In questi dipinti, cui ci riferiamo, lo spazio non era ancora inteso in senso totale ma era ancora legato a delle azioni. La corda, quasi sempre obliqua, entra ed esce dalla superficie della tela coinvolgendo, nel suo movimento, anche lo spazio interno con quello esterno. Ma non ho mai assegnato valori simbolici alle mie opere, perché secondo me il simbolo non esiste in senso assoluto. Ogni cultura possiede i propri e, nel campo dell'espressione artistica, trovo che siamo limitativi. Lo stesso "bianco", ad esempio, ha significati contrastanti per i vari popoli. Se, nella rappresentazione classica, alle immagini si attribuiva un carattere simbolico, trovo che queste risultino più affascinanti laddove il simbolo resta inassegnabile come nell' Amor sacro e Amor profano di Tiziano. Qui non è decidibile se profano sia il corpo nudo e sacro quello vestito o viceversa e l'interesse per questo dipinto continua.

D. Ma se lei afferma di non coinvolgere il simbolico, come giustifica il senso del "mitico" che viene suggerito dai titoli che assegna a/le sue opere?
R. La prima volta che ho adoperato la corda è stato nel realizzare Dante's Inferno, nel 1964, collocandola all'interno di strutture scatolate verticali, percorrendone la scanalatura, a vista, dal basso verso l'alto. Sono partito dall'idea di far sorgere delle colonne da una piattaforma posta in una vasca d'acqua; non premeditavo il soggetto del titolo. Quando ho terminato l'opera, con tutte le sue 25 colonne, vivevo in Pennsylvania ma avevo uno studio a New York. Un giorno, Barnett Newman con la moglie sono venuti a farmi visita, hanno visto il lavoro e parlandone mi hanno chiesto che titolo volessi dargli ma mi trovarono impreparato. Nel crearla avevo pensato unicamente a studiare l'effetto delle strutture riflesse nell'acqua. Lui mi suggerì di intitolarla Dante's Inferno al che risposi che mi pareva pretenzioso paragonarla a un libro così potente. Newman mi rispose, meravigliato, che non dovevo preoccuparmi di tale pensiero dato che lui stesso aveva realizzato opere del tutto essenziali intitolate La Passione di Cristo senza che poi, tra l'altro, vi apparisse alcuna passione e, tantomeno, il Cristo. Il tema mi parve allora formidabile e, pensando a tutti i personaggi che Dante ha collocato all'Inferno, mi è balenato anche il desiderio, quando viaggerò verso l'altra dimensione, di andare proprio lì perché credo che anche Dante vi sia finito e potrò anche parlare a Virgilio, Socrate, Platone, Pitagora, ed altri luminari. Così ho anche dato un nome ad ogni colonna ma solo per distinguerle una dall'altra. Ce ne sono di piccole e di grandi fino a quattro metri circa, sono di alluminio e la corda è fusa in metallo. Certo può essere che, inconsapevolmente, io abbia inteso evocare con i nomi il senso del "mistico" o del "meditativo" che mi è consueto nella pratica Yoga che esercito ormai da tantissimi anni, ma resta pur sempre estraneo all'intenzione artistica.

D. Per lei vanno dunque di pari passo l'approccio formale alla non comproprietà e l'elusione del simbolico.
R. Sì, in seguito all'uscita del telaio, ho eliminato le variazioni fra i vari tipi di bianco e ne ho usato uno solo, quello di titanio, il più intenso. Poi, essendomi limitato a questo solo bianco ho sentito la necessità di operare ulteriormente e mi sono dedicato alla scultura cominciando con Dante's Inferno. Quando la scultura non mi è bastata più, ho concentrato la mia attenzione sugli spazi fisici e al come farli vivere. Ne ho creato uno, ad esempio, con dei tronchi alla galleria Hutchinson in Green Street a New York. Con circa 84 tronchi dipinti di bianco, disposti non secondo la prospettiva classica ma con una prospettiva insolita che disorientava l'occhio. Non esisteva punto di fuga e in fondo avevo collocato un albero "sacro", come tutta la natura è sacra, che costituiva il clou dell'opera.

D. Nell'albero, mi permetta il simbolo, "legno di vita", può collocarsi ancora l'idea del "luogo del passaggio" ?
R. Sì, in quel periodo vivevo in Pennsylvania in una grande farm con tanto spazio, un tipo di cascina che si trova diffusa là, molto bella come architettura. La visione degli alberi, spogli d'inverno e poi gloriosi nel verde mi ha lasciato una profonda impressione. Di qui mi è venuto il desiderio di usare dei tronchi per creare una natura mai vista. Anche se la neve imbianca la natura, lascia sempre delle parti affioranti col proprio colore e una natura completamente avvolta nel bianco, come l'ho voluta io, non è mai esistita se non nella mia installazione. In seguito ho utilizzato molti altri materiali, compresa la plastica, fin da11954, e, specialmente nelle ultime opere, il plexiglas bianco latte.

D. Come il latte del mare primordiale della tradizione indiana? Se mi permette un'ultima benevola provocazione.
R. Volendo, ma ribadisco che come ogni metafora o simbolo, non fa parte del mio vocabolario artistico anche se ho scritto una poesia sulle mammelle che di latte nutrono il mondo. Anche nell'uso dell'ovale, che ho recentemente reintrodotto non ho voluto alludere all'uovo cosmico che ha generato l'universo così come, nella elaborazione formale, voglio sempre sfuggire ad ogni riferimento dallo spazio cartesiano e alla configurazione armonica. Tutto ciò che accade nella superficie del quadro o nella illusione prospettica ha valore simbolico e quindi limita la creazione artistica.

D. Eludendo ogni metafora o simbolo, evitando i rimandi che questi comportano, è dunque possibile far coincidere tautologicamente spirito della materia e materia dello spirito in quanto lei crea?
R. Sì e io credo che, come ad esempio nello stringere la mano a qualcuno si percepisce la sua "forza", anche nei confronti delle cose, di tutta la materia in generale si instauri un rapporto di profondo contatto anche solo nel toccare visivo. Mi affascina anche l'idea del "punto" inesistente donde ogni cosa trae origine (l'increato nda). Non esiste natura nell'universo che non sia costituita di immaterialità e il punto è da dove scaturisce il cosmo intero.

(Intervista pubblicata su "L'Arca", Milano, nov. 1989, n.32)


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