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Roberto Sanesi
Il primo giorno
di primavera

undicesivo volume della
Collezione di scritture
extra ordinarie
"Fuoricollana"
curata da:
Massimo Scrignòli
Book Editore
Castel Maggiore
(Bologna) 2000
74 pp. 13x19 cm.
ISBN 88-7232-374-6

La fame dell'immagine:
ricordo di Roberto Sanesi di Vincenzo Guarracino

Si potrebbe cominciare dall'ultimo testo, dalla poesia che sigilla e conclude un'avventura creativa con pochi eguali nella cultura italiana d'oggi, dalla lirica tesa e luminosa che chiude "Il primo giorno di primavera" uscita da Book Editore (Castel Maggiore, Bologna 2000) all'inizio del suo ultimo autunno. "Se allora fosse il fiore il fallimento,/questa, diremmo, è la bellezza del mondo/la sua esperienza visibile". Questo perché in essa sembra convergere uno dei temi portanti di tutta la sua ricerca, condensata nell'emblema del "fiore", simbolo di bellezza insieme effimera ed eterna, sogno di verità e al tempo stesso scienza meravigliata delle cose, coniugato per giunta ad una sorta di amara premonizione della fine. ("Il fallimento"). Ma forse è meglio riandare a una lirica non recente, "A nord dei trentanni" (risalente alla raccolta "Rapporto informativo" del '66 e contenuta ne "L'incendio di Milano e altre poesie" 1995, che contiene un'esauriente antologia della sua produzione), una lirica che fa quasi da spartiacque tra due epoche e si propone come una lucida dichiarazione di poetica. In essa, sulla scena di un passaggio nordico e marino, mosso e rannuvolato quanto basta per identificarlo come gallese e gaelico, il poeta sente le sue parole crepitanti e fragili come vetri, sente le ombre del suo corpo, del giardino, delle cose, perfino dei pensieri, come presenze significative, dalla cui forza la sua mente è agita e sorpresa in un gioco senza fine, in un processo di interazioni e di scambi: "una fatica d'intelletto e sogni", davvero, la poesia, la nuova poesia di Sanesi, che si allontana sempre più decisamente dalle atmosfere mediterranee e lombarde della nostra poesia (di allora) ma anche da certi sperimentalismi fine a se stessi dei suoi anni. Una "pratica" (per usare il titolo di una lirica della raccolta "La cosa scritta" del '77) che come dichiara di disprezzare 2l'endecasillabo facile" così rifugge da ogni suggestività e da ogni facile sentimentalismo ("la persona chiusa in queste frasi/d'affetto e di poesia"), per affidarsi al gioco duro e insieme leggero di una rappresentazione e "recitazione" (ecco un altro titolo luminoso, "Recitazione obbligata", dell'81) delle realtà nella sua caleidoscopica irrapresentabilità e mutevolezza. Di questa "re-citazione", Sanesi è stato il poeta: di una incessante (e dolorosa, anche se temperata da amabile ironia) rievocazione della forza occulta delle cose, del fascino ambiguo di una realtà interferita dai linguaggi e fantasmi più diversi, sulla cui scena (un'altra parola chiave e capitale!) l'io si attesta come "ombra", spoglia claunesca vuota di ogni referenzialità autobiografica, ironica figura della leggerezza, quasi "omino di fumo" di palazzeschiana memoria. E' dentro queste coordinate (poesia come "pratica continua", come tecnica, come "téchne", come recitazione di un io "ombra") che va letta tutta l'esperienza di Sanesi, coinvolgendo in tale definizione (espressione che Roberto avrebbe, ahimè deplorato) così l'aspetto versuale come quello visuale della sua creatività. Sì, perché in lui era solo questione di registri: tra il dasein, tra l'"essere" (l'aveva eletto a protagonista di una lirica di "Téchne", 1984), e la sua traduzione in parole e immagini per tanti libri (almeno 12 , a partire da "Il feroce equilibrio" del '57, fino al recentissimo "Il primo giorno di primavera", senza contare traduzioni e "imitazioni" dai suoi amatissimi Thomas, Eliot, Blake, Milton e Shakespeare) e tante tavole visive (esposte in alcune della maggiori gallerie e musei di tutto il mondo, a partire dagli anni '60), si era innescata una sorta di furioso corpo-a-corpo, un "vortice" di sensi e segni, alla ricerca di un'impossibile conciliazione, di un'immagine definitiva, di una definita e definitiva "bellezza", che non può nascere, pena il "fallimento", se non dalla consapevolezza del carattere illusorio di ogni apparenza, di ogni "ombra", coniugata alla necessità di incarnarla in una parola. "Fino a intuire che il vento è necessario/per consentire l'immagine, malgrado/il suo continuo sospingersi oltre, sapendo/che il dove non ha centro, che il fumo lo dilata/ma nulla impedisce il pensiero, la fame dell'immagine/estesa in ogni punto, e i risultati/potrai vederli alla fine, al mattino", concludeva nel poemetto "L'incendio di Milano", eponimo della raccolta, consegnandoci una figura del suo "genio" (perché non usarla la parola?), la fame dell'immagine, come il segreto della sua mobile, inquieta intelligenza della vita e delle cose, capace di coinvolgerci ancora (domani ancora più di oggi e di ieri) nel suo infinibile "progetto".

"Oh come è stata simile all'inverno/la mia assenza da te che sei il piacere/dell'anno che si fugge...", è Shakespeare del sonetto 97; è Sanesi che all'antico poeta ha prestato voce e nuova linfa. Oggi, questa antica traduzione (è nei "Venticinque sonetti" pubblicati nel 1985, oltre ad essere fissata in una mirabile tabula piota del '92) appare quanto mai significativa, come una singolare parabola profetica di tutta l'opera di Roberto, approdata nel suo ultimo autunno di vita alla raccolta "Il primo giorno di primavera": come dire a una poesia che (si) pensa in un itinerario di ricerca di un "altrove" capace di irradiare e restaurare energia di vita e di amore, una poesia dell'inverno in assenza e in attesa di un'imprendibile "primavera", della parola cioè di una parusìa di bellezza dall'arida congerie dei segnali di un'inamabile vita. Ogni poeta, ogni grande poeta, patisce l'amara intimità di un inverno che attende la sua primavera. Sanesi, nell'inverno, nel suo inverno, ha fissato un'attesa interminabile in un canto che è insieme elegia ed inno di una "misura finita, infinita" di armonia, intravista e amata come un "fiore", simbolo di effimero ed eterno, sogno di verità e insieme scienza meravigliata delle cose. E' questa esperienza di ricerca che Sanesi ha condotto in discreta solitudine, attraverso libri (almeno 12, a partire da "Il feroce equilibrio" del '57) e immagini (le tavole "visibili" esposte in gallerie e musei di tutto il mondo a partire dai primi anni '60), con felici scorribande in linguaggi e generi diversi, dalla poesia "lineare" a quella visiva, della traduzione dal francese (sì, anche dal francese: come non ricordare l'antologia "La poesia surrealista francese " di B. Péret, tradotta assieme a A. Schwarz nel '59?) e dall'inglese alla saggistica letteraria e artistica: "una pratica continua", per usare il titolo di una lirica della raccolta "La cosa scritta" del '77, l'impegno coerente di uno che coscientemente afferma che "è solo scrivendo, comunque, che si scrive" (ne "La polvere e il giaguaro", 1972, p.100), trovando giustificazione e fondamento alla sua decisione in uno sguardo attento a cogliere dei fenomeni il loro aspetto "altro", ciò che sta oltre e dietro la loro visibilità, e determinato al tempo stesso a fare emergere la sua etica interrogazione del reale attraverso una parola vivida ed esatta. E' proprio questo aspetto, l'impulso etico della scrittura, che è andato emergendo sempre più negli anni, tanto da assumere nel poemetto "L'incendio di Milano" (eponimo della raccolta complessiva del '95) i toni di un fiero dissenso nei confronti di una realtà odiosamata, entro cui "nulla/di ciò che è stato fatto... assomiglia" più alle generose utopie dell'autore. Nello spazio della civitas, ridotta ormai a "luogo della solitudine pubblica", da cui sembra irrimediabilmente bandita ogni prospettiva di salvezza ("la sua parola/era stata esiliata", deplora nelle davvero dantesche Terzine d'apertura del suo ultimo libro), al poeta non resta altra risorsa che ribadire la sua ferma renitenza morale ("Ebbene, mi rifiuto", proclama ancora nel testo eponimo dell'ultima raccolta) e al tempo stesso affidarsi alla franta "tonalità cerimoniale" di interpellanza delle cose, quella che sembra emergere finalmente nell'ultimo libro (ma già "Mercurio" del '94 lo lasciava presagire): un modo di porsi di fronte a figure ed occasioni con amabile consentimento alla loro creaturalità, alla "bellezza inenarrabile" della loro incompiutezza e consutilità, nella fiducia (ahi quanto illusoria) di poter restaurare con esse ancora un patto. Poeta "del secolo scorso", come amava ironicamente definirsi (e "poesie del secolo scorso" doveva essere addirittura il titolo dell'ultima fatica), Sanesi ci lascia la testimonianza di una fede nella capacità della parola di potere ancora nominare la realtà, "le cose come stanno" sicuri di ritrovarvi ancora un'anima, anche a dispetto della sordità e dell'indifferenza dei tanti. Vincenzo Guarracino


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