MARÍA ESTER JOAO
Por Jorge Lopez Anaya (Junio de 2006)
El problema de la luz es un tema muy antiguo en las artes visuales.
Leonardo da Vinci, en el siglo XV, anota: “La sombra es una carencia
de luz [provocada] por la resistencia de los cuerpos opacos que impiden
los rayos de luz”. “Siempre –continúa- están juntas sobre los cuerpos;
y la sombra tiene más poder que la luz […]. La sombra es el medio por
el cual los cuerpos revelan sus formas”.
En los comienzos de la década de los veinte del pasado siglo, el húngaro
László Moholy-Nagy realizó su Modulador de luz y de espacio, quizá uno
de los primeros ensayos en el arte de uso de luz real proyectada. En
la Argentina, en la década de los cuarenta, fecha muy temprana, Gyula
Kosice realizó esculturas madí con neón.
Otto Piene, un miembro del grupo Zéro de Alemania, hacia mediados de
los años cincuenta, intentó realizar pinturas en relieve que transformaba
la luz y las sombras para crear lo que denominaba “un teatro de imágenes”.
Luego llegaron al mundo de la luz Dan Flavin y Bruce Nauman, quienes
utilizaron en sus obras el neón. Hace apenas unas semanas, en el Museum
für Neue Kunst, Karlsruhe, Alemania, se inauguró la exposición Lichtkunst
aus Kunstlicht, que es un extenso recorrido a través de la historia
de la luz artificial en relación con el arte.
En otra vertiente, en línea con su época, María Ester Joao también trabaja
con la luz. Pero no existe en sus trabajos un talante similar al que
impulsó a los pioneros del siglo XX; nada remite a alguna crítica o
adhesión a mundo tecnológico o funcionalista característico de aquellas
experiencias. Asimismo, sus obras no pueden relacionarse con el misticismo
de la luz que el cristianismo compartió con el platonismo.
Su mundo lumínico, controlado, sutil, podría incluirse en el contexto
de lo que se ha llamado “pintura expandida”. Es una pintura con un solo
pigmento: el blanco, con superficies absolutamente blancas pero con
puntos, líneas en relieve, estructuras geométricas. La amplitud de la
“paleta” la producen las sombras proyectadas. Si se modifica la fuente
de luz cambia la obra; también el contemplador que permuta su punto
de vista muda la resolución formal de la pieza. En algunas obras, Joao
emplea grandes superficies de película de poliestireno caladas, con
estructuras muy diversas, con un crecimiento de las microformas originado
en reglas sistemáticas y precisas. Una fuente de luz artificial proyecta
las formas contra el muro; ahora son varias las “capas” que se ofrecen
a la percepción del espectador. Si el visitante se mueve, las vistas
son muchas más.
Joao ha realizado también instalaciones efímeras con sal sobre el piso.
Con un método fundado en el “rastrillado”, como el que utilizan los
jardineros japoneses que trabajan en el estilo Karensansui (paisaje
árido), la artista logra diseños de líneas rectas o curvas repetidas,
perfectamente paralelas. Otra vez es el espectador, con sus cambios
de puntos de vista, quien produce las diferencias formales que animan
la estructura despojada de toda anécdota.
Como señala María Ester Joao, en estas propuestas parece imposible “percibir
la realidad”. Por otra parte, coincidiendo con la afirmación de Leonardo
agrega: “la realidad sólo puede comprenderse a partir de las sombras”.
Son dos claves útiles para quien se aproxime a sus obras.
MARIA
ESTER JOAO: DIPINTI E PAVIMENTI DI SALE
Carlos M. Luis
El Nuevo Herald – Miami (2005)
Il Bianco su bianco di Malevich è stato il punto di arrivo di un
lungo processo di depurazione che ha avuto anteriormente come situazione
limite Il colpo di dadi di Mallarmé. Tra questi due estremi, sembra
che l’immaginazione occidentale si trovasse davanti ad un vicolo cieco
o una nuova sfida per continuare in altre direzioni. Sappiamo che, lungi
dall’abbandonare ogni sforzo creativo, tanto i poeti quanto i pittori
e compositori hanno saputo vedere negli spazi bianchi del poema di Mallarmé
e in quello più esteso di Malevich un nuovo linguaggio del quale velocemente
si sono appropriati. L’opera di María Ester Joao che si presenta alla
galleria Alejandra Von Hartz conferma questo fatto.
Cosa può dire un critico tradizionale di arte di fronte ad un'opera
come questa? Poco o niente. Ma succede che ''poco'' e ''niente'' sono
precisamente gli elementi che questa pittura maneggia intorno ad una
concezione delle cose che va oltre gli artisti menzionati. Mi viene
allora in mente che María Ester Joao, lungi dal continuare una linea
di sovrabbondanza d’immagini, tanto cara ai surrealisti per esempio,
sceglie una via di espressione che ha le sue radici in un pensiero ancorato
alle origini stesse di questo. Vale a dire che quando contempliamo le
sue opere la prima cosa che percepiamo dietro quella geometria frattale
è, né più né meno, il balbettare filosofico che abbiamo ricevuto dai
tempi in cui Pitagora discorreva di geometria ed in conseguenza della
musica. Pitagora vede nella geometria e nella sua struttura matematica
la base di un'armonia che consisteva, per lui, nella perfezione ultima
delle cose. Separarsi di quella era cadere in un eccesso; eccesso che
fu sempre respinto dal mondo greco, come ci dice la tradizione, nonostante
la sua parte dionisiaca segnalata da Nietszche. Il Cristianesimo, che
ereditò molto di ciò che i greci avevano insegnato, insistette nei suoi
primi tempi in quella semplicità primigenia la cui bellezza potrebbe
senz’altro consistere nell'equilibrio armonico della creazione.
María Ester Joao ricorre, dunque, agli elementi più semplici per costruire
la propria interpretazione delle cose. Ma non inganniamoci: già dall'antichità
un mistico medievale, Ricardo di San Victor, aveva notato che la nostra
semplicità non dovrebbe essere fredda. Ed è proprio quella la strada
che percorre la nostra pittrice scoprendo e lavorando con forme geometriche
che oggigiorno si chiamano ''frattali'', d’accordo con Benoit Mandelbrot.
Quella geometria non è esclusiva degli scienziati che l’hanno esplorata.
Già Víctor Vasarely, pittore che influì nella nostra pittrice, aveva
scorto le sue possibilità. Ma al contrario del maestro ungherese e degli
artisti MADI, per esempio, María Joao sceglie la via ascetica per realizzare
la sua opera con la maggiore economia di elementi possibili. Col risultato
che il suo Pavimento di sale possiede un carattere effimero come lo
possiedono anche i disegni nella sabbia dei navajo. Altre sue opere
sono confezionate con fili dipinti in acrilico bianco su telo che ci
ricordano la maniera con cui Gego faceva i suoi ''disegni senza carta
' a base di fili di ferro. Ma mentre Gego lasciava che lo sfondo di
quei disegni fosse la parete dove erano appesi, María Joao insiste nel
dargli uno sfondo bianco, accentuando ancor di più il loro carattere
silenzioso e, naturalmente, la loro purezza.
Quando raccontai all'artista le evocazioni musicali che la sua opera
provocava in me, mi rispose che tanto la musica barocca quanto la contemporanea
erano presenti nella sua creazione. Parlai allora di Morton Feldman
e del silenzio peculiare che possiede la sua opera. María mi confermò
che le interessava la musica di questo compositore e anche quella di
Eric Satie e di Anton Von Webern, le cui composizioni coltivavano una
brevità che ben potrebbero tradursi in quel bianco intenso che inonda
tutta la sua pittura. Il titolo di una delle composizioni di Feldman
è Why Patterns? che potremmo applicare anche ai suoi quadri. Perché
i disegni? La domanda si risponde in un insieme di pezzi che ''giocano''
permanentemente con una geometria che, in certi casi, si riflette mediante
giochi di luce sulla parete dove sono sistemati. Quel gioco ripetuto
di forme che crea i propri intrecci è quello che costituisce il fianco
più ''visibile'' dal punto di vista puramente retinale della sua opera.
L'altro, quello che è nascosto dietro gli spazi bianchi, esige un altro
sguardo, quello sguardo interno che per finire con gli inizi ebbero
un Mallarmé o un Malevich, per raggiungere la meravigliosa purezza delle
loro rispettive creazioni.
María
Ester Joao al Museo delle Belle Arti
di Jorge Glusberg
In Ambito Financiero, Buenos Aires (8 Luglio 2003)
Il 16 Luglio alle 19, María Ester Joao presenterà nel Museo delle Belle
Arti opere ed installazioni della sua serie Fili ed Aloni, dove un rastrellato
pavimento bianco di sale con circoli concentrici si dinamizza per l'azione
dei chiaroscuri di luce nell'opera. Sono forme che partono da una struttura
che cresce d’accordo con una logica geometrica armonica che segue spirali
organiche. Negli anni '40 sorge l'arte concreta, denominazione che recupera
il termine coniato nel 1930 da Theo Van Doesbuerg. Accanto a questi
tentativi non figurativi si sviluppa nell'Argentina una poesia non descrittiva,
una liberazione retorica che segue le impronte del creazionismo di Vicente
Huidobro: la poesia chiamata invenzionista. Gli artisti concreti, eminentemente
razionalisti, e nemici apparenti del sentimento e la fantasia, operano
con l'interazione di forme pure e la loro azione si sviluppa nello spazio
pittorico, cercando codici accessibili, un idioma visuale socializzatore
della nuova problematica. La pittura appare come configurazione cromatica
nel piano, così come la scultura apparirà come configurazione dello
spaziale.
È nel terreno dell’immaginario più che in quello del reale, dove si
colloca definitivamente la geometria che ben potremmo chiamare immaginaria.
È una forma di manifestazione visuale dello psichismo, ed in ogni linea,
ogni superficie o volume potremmo trovare il correlato di una figura
sentita dallo spirito di María Ester Joao, dal suo interno. L'astrazione
è per eccellenza la forma della geometria della rappresentazione spaziale.
La poesia della geometria permette di dire non il detto, vale a dire,
esprimere il non detto in un'altra maniera.
Nell'opera di Joao, il sale, legato originalmente all'alimentazione,
è un elemento con molteplici connotazioni. Si usò come moneta, da lì
il salario, e dopo si trasformò nell’oro bianco. Ma è stato anche simbolo
di purezza in diversi rituali religiosi. Joao delinea le forme delle
sue opere seguendo l'antica tecnica giapponese dei giardini secchi di
sabbia (karensansui), come si è appena dimostrato nella recente mostra
di Gauguin al Museo del Lussemburgo a Parigi. Vincolati al Buddismo
e la filosofia zen, contrappone il carattere effimero della sua installazione
che termina con la mostra al Museo, con la permanenza simbolizzata dal
sale come elemento immutabile. Nelle sue tele bianche, strutture astratte
che polemizzano con presupposti della modernità, si tornano meravigliosamente
comprensibili a partire dalla luce che genera forme differenti e configura
un nuovo universo visuale che trasforma l'atto di vedere in un discorso
sul divenire.
Coi cambiamenti di luce e di punto di vista davanti al movimento che
suggerisce la sua geometria, le immagini risaltano la serenità e la
purezza del bianco che si riferisce ad una metafora del silenzio. Joao
ricorre ad un repertorio di forme minime: riferisce punti e linee, e
costruisce una struttura quasi organica che sfida con pochi elementi
e la luce una serie di tessuti astratti che emergono e riappaiono per
obbligare lo spettatore a reinterpretare il "bianco su bianco"
di Malevitch ed associarlo ad una visione minimalista dell'arte geometrica
attuale.
In una marcata depurazione minimalista, le tele ed i fili si trasformano
in scrittura dinamica che ci ricordano l'affermazione di Pitagora "...
la geometria è musica visuale". Parlava di una musica universale
la cui forza determinava quello che l’uomo costruiva.
Tutto doveva rispondere a quelle leggi che derivavano da una solida
struttura geometrica. La magia o l'occultismo, le dottrine iniziatiche,
hanno un profondo legame con l'arte geometrica che tesse le reti che
organizzano la strutturazione delle opere. Charles Baudelaire assicurava
che i suoni, gli aromi ed i colori si corrispondevano.In una maniera
semplice e profonda il poeta aveva captato l'essenza basilare d’ogni
creazione che è operare in corrispondenza, lavorare ed investigare secondo
leggi segrete di una geometria ignorata, per generare il fenomeno artistico.
Il fatto artistico è la conseguenza di sviluppare quell'intuizione delle
corrispondenze, e lavorarla fino ad ottenere opere come sintesi armoniche.
Non si capisca male: con questo vogliamo soltanto affermare che c'è
un fenomeno ineffabile nell'arte (assieme all'aura di W. Benjamín),
una geometria non analizzabile, poetica.
Fili
ed halos *
di: Osvaldo Svanascini
Rivista Magenta, (agosto 2003)
Due giardini giapponesi di ciottoli rastrellati, il Rioan-ji e il Daisen-in,
ambedue del secolo XV, si trovano in Kioto, ed appartengono al Buddismo
zen.
Le sue simbologie, benché distinte, propongono un'apertura verso la
meditazione. Altri giardini zen, situati nella stessa città, dentro
lo stile secco (karesansui), generalmente di piccolo volume, fanno parte
del tempio, e furono creati tra i secoli XIV e XVII: Daitoku-ji, Ryuku-in,
Zuihno-in, Ryugen-in, Tenryu-ji, Tokai-an, Manzen-ji o Tofoku-ji le
cui rappresentazioni alludono al paradiso buddista, le cinque montagne
sacre, le quattro isole, gli otto oceani o l'immersione nel vuoto, tra
molte cose.
Questi antecedenti dei giardini zen sembrano aver suggerito la serie
"Fili ed Aloni" presentata da Joao nel Museo Nazionale delle
Belle Arti. Ma oltre qualsiasi antecedente, la sua proposta è, da diversi
punti di vista, inconsueta nel nostro ambiente.
Esiste in lei un atteggiamento di severa austerità, di rigorosa geometria
e, soprattutto, di efficace eliminazione del colore, caratteristica
che enfatizza il disegno e valuta l'effetto luminoso sul rilievo.
Gli acrilici con fili - che conoscevamo da esposizioni anteriori - si
formulano come un'investigazione lineare nello spazio, diventano ottici,
labirintici, provocano la sensazione di una crescita enigmatica. In
tutti i casi la paziente tecnica, il rigore, accentuano la loro attrazione.
Ma gli "halos", rilievi di sale sul pavimento della mostra,
costituiscono un raggiungimento differente, si avvicinano ad una premessa
abbastanza conosciuta dello zen: “l’effimero come concezione della vita"
(i rilievi di sale si disfanno alla fine della mostra). Anche la premessa
di "fare qualcosa di possibile in questa cosa impossibile che chiamiamo
vita", secondo quello che è alla base della cerimonia del tè.
Questi "aloni" sono una specie di mandala circolari, senza
principio né fine, che offrono prospettive virtuali, cariche di una
poesia così sottile che sembrerebbe che perfino la brezza si dovesse
astenere da dissipare, a dispetto della fragilità della materia.
Scritture per essere lette e ricordate oltre all'asceticismo della sua
proposta?
Joao ci ricorda che esiste una danza apollinea segreta, capace di assicurarci
una misurata e paziente riflessione: la misura di ciò che si è ricuperato.
* halos: parola greca che significa sale.
Paradossi
dello sguardo.
di: Ana María Batisttozzi.
Catalogo della mostra “El lugar de la luz”, C.C.Borges (2000)
Punte e linee, rette o curve che avanzano e retrocedono in alternanze
di piani e volumi in permanente mutazione. Le immagini bianche di Joao
emergono così, come un caleidoscopio di luce con infinite combinazioni
che spiegano quel paradosso proprio dell'atto di vedere che si manifesta
nell’aprirsi in due, come ha suggerito il filosofo Georges Didi Huberman.
(1)
È necessario abituarsi a quella modalità di scissione permanente che
sposta la visione di un piano diviso al suggerimento di un volume, e
da lì ad un altro centro d’attenzione. Bisogna anche prestare attenzione
a quell'altra istanza che non si esaurisce nel mero atto di vedere e
ci guarda da un altro posto: quello dei nostri vissuti, presenti e passati.
Una linea convertita in ombra svanirà e dopo tornerà ad articolare una
nuova configurazione. Ma quella configurazione e quell'ombra evocheranno
anche altre realtà; un oggetto ed un momento di felicità o estrema tensione.
“Ineluttabile modalità scissa dal visibile", afferma Didi Huberman,
citando un paragrafo di James Joyce, del capitolo che apre l'Ulisse.
Ineluttabile ed inevitabile perché l'eroe del gran racconto di Joyce
ha presenziato all'agonia di sua madre, e da lì in poi tutto ciò che
vedrà sarà setacciato da quella perdita. Così, qualunque cosa, per neutra
che sia la sua apparenza, diventerà ineluttabile connessione con lei
e da lì la perdita lo guarderà, lo perseguiterà, l'assedierà. È in quel
senso che un semplice piano ottico arriva a trasformarsi in un mare
di evocazioni.
Per quel motivo, benché in apparenza le configurazioni di María Ester
Joao rimettano solo ad organizzazioni visuali che si presentano in un
piano, c'è qualcosa in esse che non può limitarci soltanto a quello
che bisogna vedere, come se la mera visione potesse esaurire il senso
di queste immagini. C'è qualcosa che resiste quella laconica risposta
che offriva il minimalista Frank Stella: “quello che vedi è quello che
vedi" (what you see is what you see). Al contrario, nelle strutture
di Joao i punti e le linee che allacciano ed espellono forme descrivono
zone ambigue; imprecisioni che, come una scrittura poetica, scappano
alla cosa letterale. Si potrebbe dire che siccome non rinunciano al
suggerimento di una terza dimensione nel piano, propendono a coltivare
un terreno di finzione. In quel senso, queste immagini in apparenza
precise e moderne, questionano uno dei presupposti della modernità.
Si sa che la pittura moderna, nel suo impegno per abolire ogni finzione
nel piano, lavorò specialmente per quella letteralità. Di conseguenza,
questa pratica, storicamente devota ad un illusionismo che definì tanto
la sua essenza quanto la sua storia, finì ferita con una preoccupante
prognosi di recupero. (2)
Sarà per quel motivo allora che le pitture di María Ester Joao evitano
le certezze visuali? Saranno esse solcate da linee, fili, o soltanto
sarà una somma di punti uniti in ombre proiettate? Forse quell'ambiguità
che li invade è un modo di recuperare per la pittura un terreno di finzione;
terreno di apparenze dove forme elementari diventano configurazioni
complesse e vanno oltre il mero registro della sensazione.
Walter Benjamín le chiamerebbe immagini dialettiche. Vale a dire, immagini
che possono abbracciare allo stesso tempo il doppio senso della parola
senso. Che alludono da una parte alla visione ed il tatto, e dall’altra,
alle questioni di significato, che implica anche la nozione di equivoco
rinviato o posticipato. Benjamín parla anche d’immagini dialettiche
in relazione all'origine. Ma la nozione d’origine che sviluppa funziona
come una categoria storica che non si riferisce alla fonte prima, e
ancor meno a quello che è nato già, bensì a quello che emerge e declina
in permanente divenire. “L'origine è un vortice nel fiume del divenire
e trascina nel suo ritmo la materia di quello che sta apparendo. Non
si fa mai conoscere nell'esistenza evidente dei fatti e la sua ritmica
può percepirsi solo in una doppia ottica. Qualcosa che in se stessa
è sempre incompiuta, sempre aperta" (3), scrive il filosofo tedesco.
È curioso il collegamento che ha questa rappresentazione della nozione
d’origine di Benjamín con una delle opere di María Ester Joao. È un'immagine
del 1996, realizzata in acrilico e filo su olona che curiosamente si
chiama Genesi giorno I. E anche se per Benjamín l'origine non è precisamente
la genesi delle cose bensì il vortice che altera il corso normale di
un fiume, il fatto interessante di quest’immagine, in cui il filosofo
tedesco e l'artista coincidono, è che si tratta di un'alterazione del
divenire. Poderosa metafora del corso critico che è capace di alterare
la rotta tradizionale delle cose. È quello corso diverso, con suo rinnovato
potere di configurazione, quello che interessa a Benjamín. Specialmente
perché incarna l'idea di trasformazione storica. Una trasformazione
che fa risorgere corpi e forme smarrite: restituzioni che si fanno visibili
ma che rimarranno sempre aperte ed incompiute.
Quell'insieme che nasce, nel quale Benjamín non vede altro che ritmi
e conflitti, somiglia meravigliosamente alle strutture di Joao. Perché
non produce forme stabili o regolari, bensì forme in germe, che propongono
un movimento perpetuo e rimettono alla cosa spaziale ed alla cosa temporanea.
Ed in realtà non potrebbe essere diverso, poiché si tratta d’immagini
in crisi che corrispondono ad un'epoca di crisi e questionano il nostro
modo di vedere. Ma che inoltre hanno un allegato: siccome funzionano
come ponte tra due istanze, queste immagini dialettiche evocano l'esercizio
critico della memoria che affronta tanto quello che rimane come quello
che si è perso.
1 Georges Didi Huberman Quello che vediamo, quello che ci guarda, Buenos
Aires, Edizioni Manantial 1997, pag 14.
2 Op. cit. pag 31.
3 Walter Benjamín L'origine del dramma barocco tedesco, Madrid Taurus
1990, cit in Georges Didi Huberman op. cit. pag. 112
I
dipinti acromi di María Ester Joao.
Per J.M. Taverna Irigoyen
Rivista Magenta, Buenos Aires (settembre 2000)
Siamo fatti all'evocabile. Ci prende tutto quello che faccia riferimento
a qualcosa o l'insinui. La nostra immaginazione cerca sparatori: generalmente
accusa la sua orfanezza per strutturare per sé stessa un edificio nuovo.
Così di fronte ad opere tanto nude e contemporaneamente tanto rinnovatrici
come quelle di María Ester Joao, le argomentazioni cedono.
Pitture senza cromatismi, benché non per ciò senza colore, quelle di
questa artista che espone regolarmente da una decade, corrispondono
ad una presa di atteggiamento. Quella dell'anticonvenzione che alza
i suoi propri codici ed assume le sue proprie decifrazioni. Ma ugualmente,
quella del determinismo di fronte ad un piano finito e molte volte profanato
inutilmente per ricerche gratuiti, vacue di ogni intenzione liberatrice
dello sensoriale / sensitivo.
Joao, l'evidenzia la sua mostra “El lugar de la luz”, persegue un'organizzazione
visuale che non sta né dentro l'astrazione geometrica, né dentro l’ottico-concretto.
Le sue pitture acrome – nuove mandale del secolo XXI, ideogrammi di
una società futurológica, spazi per un'utopia dell'Universo Spirituale
- tendono piuttosto a sospendere lo sguardo in appena insinuate strade
di percezione. Fili su tessuto od olona, continuano a generare percorsi
/ figure di perfetta organizzazione. In ognuno di quelli paesaggi, il
bianco dell'acrilico lava la superficie e ricrea suggerimenti di tensioni
/ ritmi / energie concentrate / dinamiche spaziali / sviluppi di corpi
/ vincoli ed associazioni.
L’ haptico acquisisce un significato molto particolare in questo coperto
gioco di opposti che Joao riesce con le sue linee tese che si incrociano
e ritmano il piano con notevoli registri. Registri che l'autrice aggiudica
alla luce: forza e potenzia delle sue bianche elucubrazioni. Di quelle
allegorie alla purezza - Stella Polaris, Bianco Mobile, Bianco IV -
in cui l'allusione apre finestre all’ illusorio.
María
Ester Joao
di: Ana María Battistozzi
Catalogo del premio Costantini (1999)
Penso che l’opera di María Ester Joao potrebbe essere pensata come un
caleidoscopio che, nella sua lenta rotazione nel tempo, ha continuato
ad articolare distinte relazioni spaziali di forma e colore fino a produrre
uno stato di massima condensazione. Si potrebbe affermare che approdò
ad un punto in cui la graduale costruzione della sua pittura divenne,
all'improvviso, esplosione di luce, ed assunse stato di pura neutralità.
Non facilmente afferrabile, questo stato si manifesta sottilmente, come
la somma e la negazione dei colori e le linee che danno vita al piano.
Così emerge quella visione evanescente che popola i suoi tessuti e somiglia
alle visioni del deserto. Lì dove tutti gli elementi della percezione
- linee, piani, prospettive, relazioni statiche o dinamiche – si modificano
per gli eccessi della luce ed emergono lievi, spinti da un soave movimento
di tensioni.
È evidente che l'origine di questo spostamento risponde ad un'attenta
veglia riflessiva; un percorso concettuale che ha sottomesso ognuno
degli elementi della sua opera ad una prova d’efficacia e senso. Il
risultato, che sembra concludere in una sorte di sospensione della cosa
reale, si trasforma piuttosto in uno spazio per esplorare un altro tipo
di realtà; una costellazione di forme che spunta piena di tensioni col
presente, ma che nella sua vibrazione traduce aneliti d’ordine spirituale.
Proiettata in quel senso, l'opera di María Ester Joao sembra di far
parte di una scrittura maggiore; una crittografia che forse sarebbe
necessario decifrare in una rappresentazione di un altro ordine, che
si avvale dei suoi tratti lievi per accedere ad una lingua universale.
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