Le sette
facce del cubo
di: Angela Madesani
Quello di Franco Ghezzi
è un mondo dove si entra con una certa fatica, da una porticina
stretta stretta. Parlare con lui è una sorta di viaggio, di cammino,
di passaggio continuo fra un argomento e un altro, fra un riferimento
e l'altro. Tutto segna la sua opera delicata e apparentemente, solo apparentemente,
semplice. Si tratta di un'avventura in cui si viene trasportati in un
mondo coloratissimo di segni, di rimandi, di simboli da scoprire attraverso
l'osservazione. Ghezzi si sente un designer, uno che per usare le sue
parole: "segna segni che incrociano il pensiero e si dispongono sul foglio,
e pare lo incidano, anzi lo penetrano, segni che devono essere capiti
nella loro semplice oggettualità". La sua missione è quella
di rendere essenziali i pensieri, di riassumere lo sguardo. E' un grande
osservatore, uno che si guarda intorno.
Così la fila di alberi striminziti che stanno poco distanti da
casa sua, in una ridente periferia bergamasca, con le colline dietro le
spalle, diventano il motivo ispiratore di una delle sue serie di lavori,
quello sugli alberi con le loro ramificazioni e radici.
Tutto parte dalla riga, elemento primario del suo alfabeto. La riga, punto
di partenza del quadrato, elemento geometrico per eccellenza, forma purissima,
perfetta, che torna sovente nel suo lavoro. La riga è inizio e
fine di ogni figura che vagola nello spazio di migliaia di fogli da disegno
bianchissimi, tutti eguali tra loro. Riposti poi in un ordine matematico
di difficile comprensione creato dalla mente prolifica di Franco Ghezzi,
autodidatta della pittura. Di fronte a quest'uomo di oltre settantacinque
anni innamorato del disegno, che per tutta la vita ha fatto un altro mestiere,
non si può liquidare tutto parlando di ottimo dilettantismo. Ghezzi
è un'altra cosa, per lui la pittura prima, il disegno poi sono
stati un momento fondamentale dell'esistenza, il sogno di una vita. Così
a poco più di vent'anni all'inizio degli anni Cinquanta in un'Italia
in piena ricostruzione, vessata dai mali di una guerra appena finita e
di venti anni di duro regime, Franco Ghezzi è uno di quei migliaia
di giovani a cui è affidata la ricostruzione.
Laureato all'Università Bocconi in Economia e Commercio nel 1949,
Ghezzi non riesce a pensare unicamente alla sua professione. Nei suoi
pensieri fa sempre capolino la voglia di prendere in mano il pennello
e la tavolozza dei colori. In lui l'arte non è soltanto un problema
di conoscenza della sua storia, anzi per molti versi quest'ultima è
una scoperta recente.
In lui è forte la volontà di fare, di operare, di creare
qualcosa. Così nascono i primi autoritratti, i paesaggi delle periferie
milanesi tristissime, che vede quando giunge la mattina da Bergamo per
studiare prima, per lavorare poi. Qualche anno dopo quando arriva a Milano
in automobile si ferma nelle zone di sosta dell'autostrada, da dove si
vedono i grandi palazzi in costruzione, cattedrali dell'incomunicabilità,
per fare degli schizzi, dei disegni, per prendere appunti visivi di quelle
serie affascinantissime di linee. Il richiamo, forse non così consapevole,
è a certa poetica di Sironi, a certe solitudini esistenziali espresse
da uno dei più importanti protagonisti della pittura italiana del
secolo scorso. Insomma non mi pare giusto parlare di Ghezzi come di un
"pittore della domenica". Vale la pena in tal senso cercare di ricostruire
la sua figura, il suo cammino. In tutto il suo lavoro, infatti, è
rintracciabile un filo rosso che dalle geometrie della città desolata
porta alle linee, alle righe della produzione degli ultimi dieci anni.
La sua parabola pittorica si potrebbe definire "architettonica", così
come architettonici sono i suoi disegni ricchi di particolari in cui il
senso della costruzione è precipuo per riuscire a cogliere il significato
dell'intera operazione.
Quello di Ghezzi è una sorta di pantheon del segno, gestito
attraverso una pratica più orientale che occidentale, che inizia
nel 1990. Ci troviamo di fronte a una costruzione dove le forme si alternano:
il planisfero, gli scarafaggi, i bidoni di petrolio, le conchiglie, i
seni e i coseni, i preservativi, gli angioli, gli alberi. Dieci anni di
lavoro duro, paziente, atteso in un piccolo studio inglobato nella casa.
Dalle finestre entra la luce della campagna sempre ispiratrice. In realtà
i soggetti su cui Ghezzi lavora sono casuali, non in senso deteriore del
termine, nel senso che sono nati dalla sua penna quasi per caso e che
poi si sono sviluppati con una certa determinazione. Il motore primo del
tutto è il segno. E il suo, parafrasando Barthes, ne è l'impero.
Una costruzione continua.
Elaborazione delicata e forte al tempo stesso. Ogni disegno è una
sorta di viaggio nell'ignoto dove non si sa dove si arriva e a cosa si
tende. Poi naturalmente il pensiero corre da se. Come fare a non collegare
la forma perfetta del planisfero alla terra, al mondo, alla vita dell'uomo.
Di fronte allo scarafaggio la possibilità di lettura sono molteplici,
e il primo pensiero è a Kafka, e dunque alla metamorfosi e al disagio
dell'esistenza, al disturbo quotidiano, all'incomprensione, alla incomunicabilità
che segna profondamente la nostra vita. Un ruolo importantissimo all'interno
del suo lavoro è occupato dalla memoria, soprattutto quella visiva
di un uomo che ha camminato per le campagne chilometri e chilometri tra
le risaie del Piemonte a caccia di beccaccini e "altrove pur che ci fosse
terra da pestare e spazio da inquadrare", come lui stesso dice. In tal
senso si muove e con gli occhi vispi registra ogni cosa. A questo punto
avviene il processo di rielaborazione di ciò che si è visto:
molte cose vengono scartate immediatamente, altre iniziano a girare nei
suoi pensieri per trovare posto riassunte sulla carta. I rami dei suoi
alberi si rifanno a quelli degli alberi che stanno sulla strada che da
casa sua porta a un convento. Per motivi di coltivazione questi alberi
vengono potati ogni anno in maniera abbastanza violenta. Così amputati,
impoveriti entrano nell'universo di Ghezzi. La sua è una operazione
di memorizzazione, di sintetizzazione e dunque di elaborazione della natura.
Lui che si sente un uomo della campagna a tutti gli effetti. Una sorta
di geometrizzazione del paesaggio che si è trovato di volta in
volta a guardare. Ghezzi è curioso. Colpisce guardandolo vedere
la sua testa in continua elaborazione e in totale astrazione dal resto
delle cose. In ogni sua opera è presente una componente di scrittura,
tanti disegni sono spiegati da una sorta di notazione più o meno
esoterica.
Si tratta di una didascalia a uso personale, un promemoria che Ghezzi
ci svela.
Come dicevo poc'anzi Ghezzi non è un uomo di profonda cultura artistica,
non ha studiato la storia dell'arte né a scuola, né da autodidatta
in maniera continuativa. Le sue in tal senso sono state scoperte e amori.
Così l'amore per Bice Lazzari, di cui compra un piccolo lavoro.
Il legame con la sua opera è chiarissimo, con i segni sottili di
certi lavori degli anni Sessanta soprattutto.
In un monologo-intervista Bice Lazzari dichiara alcune cose che potrebbero
benissimo appartenere alla biografia di Ghezzi.
" A Roma mi chiamavano 'nata ieri', invece una che si mette in testa di
ricominciare la vita a 50 anni bisogna che sia matta, come lo ero io.
E' questa la mia incoscienza, ho cominciato a vivere a cinquantanni quando
ho capito che il mio lavoro era dipingere e dovevo riprendere dai miei
primi 25 anni. Da quel momento ho continuato a lavorare a olio fino al
'59, quando mi sono avvelenata di tutti i colori che adoperavo, senza
risparmio naturalmente, con le mani dentro, perché dicevo che per
imparare il mestiere bisogna che le mani lo sentano (...). lo dico che
i segni sono parole, quindi se su questo spazio faccio tutti questi segni
è come se io scrivessi. E nello stesso tempo, questi segni, che
hanno una loro determinazione, creano altri spazi. Ecco quello che voglio
dire, ci sono parole, ma ci sono anche altri spazi che si sovrappongono
a uno spazio che li raccoglie tutti". (l)
La vicinanza con Ghezzi, con la sua scoperta di una volontà fortissima
che arriva in età matura al di là delle coerenze possibili
e delle convenzioni è chiara. Qui come c in Lazzari si tratta di
un bisogno prepotente di emergere, di uscire allo scoperto attraverso
la propria ricerca e il proprio lavoro.
E poi la scoperta di Klee. Va alla sua mostra di Palazzo Forti a Verona
nel 1992 e nasce una passione forte che, tuttavia, non è mai emulazione.
Ghezzi non potrebbe copiare da qualcun altro, masticare e digerire sì,
ma copiare no, proprio perché il suo universo fantastico e non
solo è troppo forte per poterlo adattare a quello di qualcun altro.
Ghezzi è affascinato dalle grandi costruzioni grafiche del pittore
svizzero. Il suo segno è elegante e nervoso al tempo stesso.
Da uno stralcio dei "Diari" pubblicato proprio in occasione di quella
mostra: "ho raggiunto l'isola, assai più lontano va il mio sguardo.
Ho vinto il mare in tempesta, senza placarlo. La bufera continua. Vacillerà
il mio monte più alto. E' ammutolito il canto di guerra delle onde.
Il mondo è un 'umida tomba, uno squallido deserto. Si esaurisce
la luce, oscurità è la fine di ogni cosa. Nel giorno si
rinnova la vita. Incomba pure la notte. Prima che ci ghermisca, combatteremo
virilmente. Proceda la vita!" (2)
Durante il viaggio veronese alla cerca di Klee, è anche un'altra
scoperta, quella delle formelle della porta di San Zeno, in una zona di
soglia fra la figurazione e l'astrazione che è anima del lavoro
di Ghezzi.
La voglia prepotente di conoscere, accompagnata da un entusiasmo infantile,
che talvolta si trasforma in gioco. Un gioco matematico è, ad esempio,
nel caso della serie degli alberi, la complessa costruzione numerologica
tutta basata sul sette. Anche qui la possibilità di lettura è
duplice, da un lato appunto un aspetto giocoso, dall'altro la complessa
storia del simbolo dove la scelta del sette non è certo casuale.
Sette come i giorni della settimana, come i pianeti, come i gradi di perfezione,
come i sette rami dell'albero cosmico e sacrificale dello sciamanismo.
Sette numero fasto e sacro nell'antica Grecia, caratterizzato dal culto
di Apollo, ma anche in Cina, nell'Islam, in Africa e non solo. Sette è
la chiave del Vangelo di San Giovanni.
Il sette ha una perfezione geometrica: nell'Ismaleismo per esempio dove
rappresenta il cubo che ha sette lati, le sei facce più la totalità,
e corrisponde al sabato. Come pensare quindi che proprio per Ghezzi, che
parte dalla riga e dal quadrato, tutto questo possa essere considerato
una casualità. In realtà nulla è casuale. La sua
è una complessa costruzione dove è possibile collegare ogni
elemento e trovare un perché a ogni cosa anche dove Ghezzi dichiara
di non avere spiegazioni da dare.
1) Il brano è tratto
da B. Lazzari, Monologo, un collage che ripropone, con alcune modificazioni,
un'intervista dell'ottobre 1981 di Fiorella La Lumia a Bice Lazzari, in:
R. Bossaglia, E. Pontiggia, Bice Lazzari due stagioni: 1957-'63 e 1966-
'73, Mantova, Casa del Mantenga, 1989.
2) Paul Klee in G. Cortenuova (a cura di), Paul Klee, Milano, Mazzotta,
1992
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