Archivio Attivo Arte Contemporanea
http://www.caldarelli.it

COSMOGONIE
il grande mistero dell’universo esplorato da
Paolo Barlusconi
progetto culturale interdisciplinare a cura di Michele Caldarelli

storia | opere | note biografiche | indice | saggi interdisciplinari | home
programmi e date degli incontri interdisciplinari

UN TRITTICO “ALATO”

Salgari, Marinetti e D’Annunzio “aviatori”.

di: Luigi Picchi

 

«Chi mi darà ali di colomba,/per volare e trovare riposo?», Dio cammina «sulle ali del vento». Non è un poeta pagano o orientale: è la Bibbia, più precisamente sono versi dei salmi[1]. Questo a riprova che l’uomo da sempre ha desiderato volare e soprattutto che nel volo ha visto una via di fuga, una dimensione di evasione, riscatto e libertà. Proprio attorno all’idea di volo come libertà, s’incentrerà il mio discorso. Purtroppo il volo solo all’inizio presenta caratteri epici e romantici da impresa eroica; in seguito, con lo stabilizzarsi del fenomeno aviatorio, anche il volo è diventato un’abitudine “terrestre”, una consuetudine, spesso pure di massa. Infatti la prima volta che ho volato (si trattava di un volo di linea), ero emozionato e coinvolto; l’ultima volta, invece, che ho preso un aereo, durante il decollo, non mi sono accorto di niente perché ero già sprofondato nel sonno, annientato da uno dei miei soliti abbiocchi di persona annoiata dal gran casino che è il mondo. Solo il volo su aerei privati, tipo i nostri idrovolanti dell’aeroclub lariano, possono conservare ancora qualcosa di avventuroso e dannunziano: lì sì che avverti i vuoti d’aria, i colpi di vento e la struttura vibra elastica e nervosa, mentre il vuoto si fa sentire sotto la carlinga. Io, poi, sono dell’idea che certe esperienze, sognate, immaginate e desiderate siano più intense e paradossalmente più autentiche di quando sono reali e vissute. La poesia è nel sogno e nell’immaginazione, non nell’evento vissuto, nella realtà che è lo spazio della prosa. Un temperamento lirico e immaginoso preferisce fantasticare: prima di volare scrivevo storielle aviatorie che piacquero anche ad una conoscente pilota, adesso, dopo diversi voli (da passeggero s’intende!) non sono più capace di scrivere di aviazione e volare è come andare in pullman o in treno. Scusate il mio scetticismo, ma io, da bravo schopenhaueriano, la penso come il Leopardi de Il Sabato del villaggio e Montale: “in attendere è gioia più compita”[2]. O come Hölderlin: solo quando sogna l’uomo è divino. Nella realtà, non si scappa, spesso è solo patetico. Anche Salgari sognava e tanto...fino a morirne[3]. D’Annunzio e Marinetti, uomini d’azione, hanno identificato e congiunto perfettamente arte e vita in un unico indissolubile binomio, in una stupefacente endiadi, ma a scapito di una durevole autenticità artistica. Nella vita hanno bruciato l’arte e viceversa. Il loro divorante vitalismo ha liberato i doviziosi fumi, gli incensi e le tossine della retorica. Ma procediamo con ordine. Il Novecento è iniziato in un clima euforico di entusiasmo per la scienza e per la tecnica. Il Ballo Excelsior, il musical della Belle Époque, celebrava il trionfo dell’uomo positivista: il progresso avrebbe portato benessere a tutti e l’umanità avrebbe raggiunto obiettivi coltivati da secoli. I romanzi di Verne e Wells vedevano come protagoniste le diverse invenzioni della tecnica, specie se future e ancora ipotetiche. Secondo un criterio di verisimiglianza questa letteratura fantascientifica o parafantascientifica, proponeva ciò che la scienza nei decenni a venire avrebbe reso disponibile. La letteratura fantascientifica si rivelava così letteratura d’anticipazione. Salgari, che mal digeriva la definizione di Verne italiano[4], nel 1903, scrive un romanzo “verniano” molto particolare, Le meraviglie del 2000[5] Premesso che il nostro romanziere non spiccava per invettiva avveniristica, come invece il collega francese, .Le meraviglie del 2000 si rivela un capolavoro della letteratura distopica[6]. Un altro elemento significativo è la scarsa propensione di Salgari a popolare di macchine straordinarie e innovative, quindi fantascientifiche, le proprie storie. Gli unici romanzi in cui figurano strumenti futuri e nuovi, nel nostro caso, macchine volanti, sono, oltre a Le meraviglie del 2000 (1907), I figli dell’aria (1904) e Il Re dell’aria (1907). Ciò non toglie che questa trilogia avveniristica non sia di per sé completa e significativa almeno alle finalità della nostra ricognizione. Ma vediamo in concreto le vicende dei tre romanzi. Le meraviglie del 2000 è la storia di due americani, il ricco e annoiato James Brandock e lo scienziato Toby Holker che con un’iniezione di uno speciale siero ricavato da un antico fiore egiziano rinvenuto in una piramide, “il Fiore della Resurrezione”[7], entrano in una sorta di profondo letargo di centodieci anni dal 1893 al 2003, quando si risvegliano in un’America decisamente trasformata e all’avanguardia dal punto di vista tecnologico. E qui Salgari si rivela profetico, indovinando diverse invenzioni o situazioni che poi si sono effettivamente realizzate: la radiosveglia, il giornale parlato cioè il radiogiornale, il giornale visivo cioè la televisione, il cibo in pillole, il self-service automatico, lo snack bar, il fast food, la sovrappopolazione, la posta pneumatica, fabbriche e officine robotizzate, la minaccia cinese, la desalinizzazione dell’acqua di mare, i massacri di balene e foche, le estinzioni di specie animali, l’energia alternativa ricavata sfruttando le correnti marine mediante turbine galleggianti, treni veloci ad aria compressa, turismo esotico, equilibrio bellico da guerra fredda a causa dell’elevata pericolosità degli ordigni militari capaci di annientare intere città. Tra le invenzioni ovviamente non poteva mancare l’aereo. Il progresso, però, non fa felice l’uomo. Anzi. Salgari è spaventato e preoccupato. I suoi personaggi, mentre visitano questo nuovo mondo, maturano un crescente sconcerto. Alla fine, alterati dall’atmosfera troppo elettrica del futuro (l’elettricità dispersa e sprigionata dalle macchine), innervositi dalla fretta, dai ritmi troppo frenetici della vita moderna, i due visitatori impazziscono e vengono internati[8]. In questo scenario negativo bisogna dunque tenere presente che le macchine volanti di Salgari sono strumenti meravigliosi dal punto di vista tecnico, ma nulla di più, anzi sono più una minaccia che una risorsa. Mentre Marinetti esalta fino all’idolatria la macchina, sognando un annullamento quasi mistico dell’uomo in essa, una fagocitazione dell’uomo, una sua trasfigurazione meccanica e metallica, anticipando in ciò il cyborg; mentre D’Annunzio si trova perfettamente a suo agio nella carlinga e vedrà nell’aereo o meglio nel “velivolo”, come lo chiama lui, un’espansione, una dilatazione titanistica del superuomo pilota, una proiezione narcisistica dell’uomo lanciato in cielo dall’antico e superbo sogno eroico di Icaro, Salgari, dopo un iniziale entusiasmo, diffida della macchina e preferisce l’eroismo tradizionale e cavalleresco in cui è l’uomo che direttamente lotta, sfida gli ostacoli e magari si schianta, ma senza o con poche mediazioni meccaniche. La tecnologia sarebbe dunque uno snaturare e un avvilire l’indole eroica. Salgari privilegia la forza naturale dell’eroe, non le innovazioni tecnologiche, alla fine volgari e nocivi accessori e amplificatori della forza umana. Salgari è quindi ancora lo scrittore romantico che vagheggia un codice d’onore antico, alieno dai cinismi e dai pragmatismi moderni fondati sull’efficienza dei mezzi. Questo è tragicamente attuale: sono le superpotenze economico-tecnologiche e militari a vincere le guerre, non le stirpi guerriere. Ora leggiamo la descrizione del Condor, l’aeromobile o macchina volante: «era davvero stupefacente e, quello che è più, d’una semplicità straordinaria. Non si componeva che di una piattaforma di metallo che pareva più leggero dell’alluminio, con quattro ali e due eliche collocate le une lateralmente alle altre, tutte di tela, con stecche d’acciaio e una piccola macchina che le faceva agire. Il gas, come si vede, non vi entrava per nulla; la meccanica aveva trionfato sui palloni dirigibili del secolo precedente»[9]; «si alzava e si abbassava e girava e rigirava come fosse un vero uccello. Altri consimili ne volavano in gran numero sopra i tetti dei palazzi, gareggiando in velocità, per la maggior parte montati da signore che ridevano allegramente, e da fanciulli schiamazzanti.».[10] «Qualche volta succedono degli scontri; le ali si spezzano, le eliche si lacerano e allora guai a chi cade: eppure chi ci bada? [...] Sono incidenti che non commuovono nessuno».[11] C’è pure la versione pubblica del Condor, l’omnibus: «Un’enorme macchina aerea, fornita di sei paia d’ali immense e di eliche smisurate, con una piattaforma di venti metri di lunghezza, carica di persone, s’avanzava con velocità vertiginosa, tenendosi a cento metri dal suolo».[12] Ne I figli dell’aria, romanzo del 1904 si racconta di due amici militari russi, Fedoro e Rokoff, che trovandosi in Cina per affari e accusati ingiustamente di omicidio, dopo aver provato la crudele durezza delle carceri cinesi, sono condannati a morte, ma miracolosamente liberati dal comandante di una prodigiosa macchina volante chiamata “Sparviero”. Il “Capitano”, questo il nome del misterioso aeroammiraglio, è una sorta di Capitan Nemo dell’aria che, con il suo gigantesco mostro alato meccanico, porterà in giro per la Cina i suoi ospiti in una serie di rocambolesche avventure. Il Re dell’aria del 1907 ne è la continuazione: Boris, ufficiale russo fuggito da un penitenziario siberiano, vittima assieme al fratello Wassili di un complotto ordito dal cugino, il barone Teriosky, viene aiutato dall’equipaggio dello “Sparviero”, l’aeronave del “Capitano”, il “Re dell’aria” appunto, al cui fianco combattono Rokoff e Fedoro, gli eroi del precedente romanzo in una guerra personale e privata contro il sinistro barone e il suo iniquo impero commerciale marittimo costituito da una potentissima flotta, una guerra tecnologica al termine della quale a Trinitad «la macchina volante, diventata ormai pericolosa dopo l’affondamento dei transatlantici e dell’incrociatore russo, fu fatta saltare, onde evitare probabili sorprese e terribili accoglienze anche in America»[13]. Significativo il fatto che al termine della “saga”, l’aeromobile venga distrutto, quasi ad esorcizzare e neutralizzare le potenzialità negative della tecnica. E’ chiaro ancora una volta che Salgari non si trova a suo agio con i ritrovati della tecnologia[14]. E ora vediamo quanto lo “Sparviero” sia parente del “Condor”: «Lo “Sparviero” era realmente un apparecchio meraviglioso, di una perfezione sbalorditiva, che aveva risolto l’arduo problema della navigazione aerea. Non era già un aerostato, poiché il gas non vi aveva nulla a che fare, bensì una vera macchina volante, che fendeva arditamente l’aria colla sicurezza di un condor della Cordigliera americana o di un’aquila europea. Consisteva in un fuso, non più lungo di dieci metri, con una circonferenza di cinque nella parte centrale, costruito di duralluminio, dove era collocato uno strano motore, che non era azionato né dal carbone, né dal petrolio, né da alcun olio o essenza minerale, poiché non aveva alcuna ciminiera, né propagava alcun odore[15]. Ai suoi fianchi, mosse da un motore misterioso, che funzionava senza produrre il più lieve rumore, agivano due immense ali, simili a quelle dei pipistrelli, con armature costruite in una speciale lega d’acciaio e di rivestimenti in tessuto di estrema resistenza. Un po’ al di sotto del fuso che serviva da ponte e anche da abitazione, si estendevano a destra e a sinistra tre piani orizzontali, posti l’uno sotto l’altro, lunghi ciascuno una decina di metri, alti quasi un metro e vuoti nel mezzo e che dovevano, presumibilmente, servire per mantenere l’intero apparecchio sollevato. Sulla punta prodiera del fuso, un’elica immensa girava vertiginosamente, e pareva che dovesse aiutare il movimento delle ali, mentre a poppa si scorgevano due piccole ali che dovevano servire unicamente per dare la direzione dell’aereo-treno»[16]. Animali volatili rapaci o mezzi di trasporto già istituzionalizzati come navi o treni costituiscono il modello, l’archetipo ed il termine di paragone per queste prime macchina aviatorie. La natura è ancora maestra e la tecnologia la imita e la mima. La fantasia fatica a immaginare apparecchi veramente aerodinamici, ma riconduce sempre a parametri terrestri e zoomorfici le sue invenzioni. Sono macchine goffe, pesanti e solo apparentemente semplici; in realtà complicate e improponibili. Si capisce che Salgari, non solo dal punto di vista ingegneristico, ma soprattutto psicologico, aveva un certo imbarazzo a gestire le macchine. Questo limite, a mio avviso, è invece una virtù: fa di Salgari un vero celebratore dell’azione umana che squalifica il prodotto tecnologico. Sarà la mistica modernista ad esaltare il connubio uomo e macchina. Salgari è (per fortuna) all’antica e l’alleanza uomo e macchina è superficiale e breve. Nelle storie salgariane la macchina è ancora subordinata all’eroe, è docile strumento nelle sue mani, è una mera agevolazione e non è ancora in grado di modificare antropologicamente l’azione dell’uomo; il successivo sviluppo tecnologico porterà ad un ribaltamento del rapporto uomo-macchina: ormai abbiamo sperimentato, a nostre spese, che è la macchina a condizionare e a modificare l’uomo. Parlare, invece, dell’aviazione secondo l’evangelo futurista è subito fatto: il Futurismo idolatra la macchina. La macchina è il nuovo dio e in essa l’uomo si trasfigura. L’aviazione, allora ai primi passi, è vista come una benedizione: il trionfo della velocità e l’emancipazione icarica e prometeica dai vincoli terrestri. L’uomo volando si divinizza. Il manifesto del Futurismo è del 1909[17] e tutto l’entusiasmo del programma poetico è già nel romanzo Mafarka il futurista[18]: «Voi dovete credere nella potenza assoluta e definitiva della volontà, che bisogna coltivare, intensificare, seguendo una disciplina crudele, fino al momento in cui essa sprizzi dai nostri centri nervosi e si slanci oltre i limiti dei nostri muscoli con una forza e una velocità inconcepibili. La nostra volontà deve uscire da noi, per impossessarsi della materia e modificarla a nostro capriccio. Così noi possiamo plasmare tutto ciò che ci circonda e rinnovare senza fine la faccia del mondo...»[19]. Titanismo, volontarismo superomistico, “delirio lirico” della materia e profezia dell’aviazione: Gazurmah, il figlio di Mafarka, è, novello Icaro, dotato di ali ed è prigioniero di una gabbia, chiara metafora dei limiti della condizione terrestre; la fuga è imminente: «Il corpo formidabile di Gazurmah sussultò subito violentemente, e le sue ali possenti scattarono, infrangendo le pareti della gabbia... Come un cavallo da guerra scuote le frecce che gli si cacciano nella groppa, come una falso storpio getta lungi da sé le grucce, quando esce dalla città...così il più bello degli uccelli della terra si liberò dalle sbarre che lo improgionavano»[20]. E più avanti: «E allora le grandi ali aranciate tuonarono, come i battenti di un tempio, nel grande emiciclo delle scogliere»[21]. E’ la liberazione! Anche D’Annunzio, figlio del Decadentismo, come Marinetti, canta nel Ditirambo IV, quello dedicato a Icaro, il riscatto dalla terra nel volo liberatore:«Veloce volai/oltre passai»[22]; «Mi sembrava inesausto/il valor mio ché l’animo agitava le morte penne, l’animo immortale/e non il braccio breve»[23]. Tutta l’aviazione del primo Novecento vive romanticamente irraggiata da questa mistica icarica e nietzschiana che vede nel volo una sorta di ascetica taumaturgia contro le bassezze della condizione umana. L’uomo diventa angelo. Nella prefazione[24] a L’Aeropoema del Golfo della Spezia (Mondadori 1935) Marinetti detta una sorta di manifesto dell’aeropoesia. Si tratta praticamente di introdurre la visione aviatoria nella percezione poetica della vita e della realtà in modo da «Dare di minuto in minuto una sintesi del mondo», «Distruggere il tempo mediante blocchi di parole fuse», «Non usare immagini terrestri Legare invece tutte le sensazioni visive uditive e tattili alla figure geometriche» e «Dare il senso del tutto dipende da me tutto porto con me nessuno mi comanda»[25], insomma «Evitare mediante una elastica ma solida leggerezza di alluminio la enfatica e gonfia rettorica aviatoria vanto dei poeti passatisti sedentari che hanno il brillo della paura sul naso all’insù»[26]. L’aviazione sembra dunque il vertice dell’esperienze estetiche futuriste. Vediamo a titolo di esempio un breve passaggio dell’Aeropoema spezzino:

 

Vorrei godermi tutto il cielo senza pilotare le gambe penzoloni

fuori dalla  carlinga con la coda sicura

Per me s’innalza un’ultima volta in rosea candela quel biplano forbiciato dalle granate

 

[...]

 

Intanto collaudati nuovi motori aerei nelle cabine d’alta quota tutti

su nella crepitante altalena d’una sempre più fresca corona

di rose dentate e triangoli di folgori a 8000 metri d’aria rarefatta.

 

Il Futurismo contempla dunque la totale identificazione dell’uomo con l’apparecchio, lo spazio aereo e il paesaggio. D’Annunzio ristabilisce invece l’equilibrio tra il ruolo umano di protagonista e l’azione novatrice e ardita della macchina, ma nella sua prospettiva è l’uomo il padrone e l’artefice. La forza della macchina è quella del pilota che imprime al velivolo l’energia di un disegno ardito. Oltre alle imprese aviatorie del Vate, la più alta e completa espressione di questa concezione del volo è il suo ultimo romanzo Forse che sì forse che no (1910)[27]. La genesi di questo libro è interessante e sintomatica di una vocazione centrale nell’esperienza esistenziale ed artistica dello scrittore abruzzese[28]. Dopo aver modificato più volte l’iniziale progetto narrativo, D’Annunzio confeziona una storia di eroismo aviatorio e di complicata passione amorosa. L’aviatore Paolo Tarsis corteggia Isabella Inghirami, una giovane vedova, la quale, è già innamorata incestuosamente del fratello minore Aldo. Intanto Vana, sorella di Isabella, è contemporaneamente innamorata di Paolo e del suo amico Giulio Cambiaso che ben presto morirà in un incidente durante un torneo aviatorio. Intanto mentre la relazione tra il Tarsis e la Inghirami diventa più intensa, Aldo e Vana si struggono di gelosia e meditano vendetta. Dopo aver confessato a Paolo il proprio amore e aver denunciato il legame incestuoso della sorella, Vana suicidandosi fa precipitare la situazione: Isabella impazzisce e viene ricoverata, mentre Paolo decide di reagire e quindi ritorna all’aviazione, intenzionato più che mai a tentare un’impresa eroica che renda onore al compagno d’ali defunto. Partito dalla costa del Lazio con il proprio aereo, l’Ardea, Paolo è pronto a perire in mare, ma alla fine riesce ad atterrare fortunosamente in Sardegna: «E il cuore gli tremò perché v’era rinata la volontà di vivere, la volontà di vivere per vincere. [...] Era la terra. Era la terra! E il suo amore del fratello e il suo dolore e il suo ardore furono il sole dietro a sé, sopra a sé, furono una presenza raggiante, una immortalità incitatrice. Era la vita. Era la vita! [...] E il tempo passava; e la raggiera irta rombava in ritmo; e l’astro dell’elica trivellava il cielo. Era la vittoria. Era la vittoria!»[29]. Ora, anche se D’Annunzio dimostra di aver assimilato il messaggio futurista e di essere aggiornato al riguardo, l’esperienza aviatoria non viene celebrata da lui futuristicamente in una dimensione meramente meccanica e tecnologica (nonostante Marinetti non trascuri il paesaggio naturalistico), ma emerge da un mondo orfico e ctonio di richiami paesaggistici e archeologici legati al mondo etrusco, la civiltà degli ipogei e delle necropoli sotterranee quasi a simboleggiare il torbido della passione che unisce e divide Paolo Tarsis e i figli Inghirami. D’Annunzio collega il moderno all’antico e non rinuncia a mettere in campo la sua solita erudizione classicistica, sempre carica di pathos. Le rondini[30]e gli insetti con il loro volo naturale costituiscono dei richiami subliminari e delle prefigurazioni del volo meccanico. D’Annunzio sembra quindi gareggiare con i futuristi ed emulare e rileggere a modo suo il Futurismo con il quale condivide già spontaneamente alcuni aspetti: il nazionalismo, il militarismo, la sfida decadentistica antiborghese, il culto per le macchine (aerei, automobili, navi e motoscafi), il gusto moderno per la sperimentazione e l’innovazione[31]. Innanzi tutto D’Annunzio rifiuta le aberrazioni espressive dei futuristi che sconvolgono la sintassi e le regole di scrittura: il Vate non rinuncia al suo stile elegante e sofisticato. Forse che sì forse che no è il tipico romanzo dannunziano aggiornato, però, sotto alcuni aspetti: l’eroe è un borghese, tipo pratico, disinvolto e moderno, perfettamente integrato in una società sempre più borghese e mondana. I nuovi ritrovati della tecnica (automobili, aerei, telefoni), la vita sociale di massa (i raduni sportivi, le gare), una mentalità pragmatica hanno un ruolo determinante e non ornamentale nella vicenda. Il ventaglio dei personaggi messi in campo è più articolato. Tutte queste caratteristiche faranno dell’ultimo romanzo di D’Annunzio l’archetipo dei romanzi sentimental-erotico-mondani alla Guido da Verona, alla Pitigrilli o alla Liala[32]. Così dopo averci condotto nel languido e morboso labirinto erotico complicato dalla gelosa e ricattatoria possessività di Isabella, di Vana (nomen omen!) e di Aldo, il volo è liberazione, riscatto e ossigena l’animo angustiato da un eros sterile e contorto. Alla passione di un amore soffocante si contrappongono il cameratismo e la fratellanza eroica e guerriera dei due amici aviatori, la simbiosi con l’aereo e la sfida contro i limiti e il loro superamento. E’ la solita insofferenza misogina di D’Annunzio che lo riconduce all’autarchica e titanistica ascesi della lotta: «E il superstite, portando sulla cima del suo coraggio l’immortalità del dolore, salì di là dalla vittoria»[33]. Quindi in conclusione possiamo dire che sia Salgari, sia Marinetti sia D’Annunzio incarnano il culto per l’aviazione che giustamente (la passione è più che motivata e necessaria) caratterizza il primo Novecento anche se con modalità diverse: ai due estremi mettiamo, da una parte, Salgari con il suo sostanziale scetticismo e il suo pessimismo conservatore[34], dall’altra Marinetti con il suo totalizzante entusiasmo modernolatrico che rischia di alienare e spersonalizzare l’uomo in un’identificazione mistica con la macchina e i suoi effetti; al centro, come punto d’equilibrio, D’Annunzio con il suo irrinunciabile e narcisistico antropocentrismo che fa della macchina una docile espansione e proiezione dell’eroe. Oggi, penso che possiamo riconoscere in Salgari un involontario profeta dei destini apocalittici dell’umano progresso. Sia l’esperienza individuale sia l’esperienza collettiva, che è la storia, ci insegnano che, se il Progresso è inevitabile, necessario e conveniente, risulta, però, altresì pericoloso e ambiguo e comunque insufficiente a consolare l’uomo che ama volare non solo col corpo, ma anche e soprattutto con il pensiero, l’immaginazione e lo spirito oltre le barriere fisiche verso le dimensioni della trascendenza e della metafisica.



[1] Rispettivamente i salmi 54/55 e 103/104.

[2] E’ un verso, l’ultimo, della lirica Gloria del disteso mezzogiorno  negli Ossi di seppia.

[3] Salgari si uccise, sventrandosi con un rasoio, in un bosco vicino a casa, alla periferia di Torino, il 25 aprile 1911. Le ragioni del suo suicidio sono le difficoltà finanziarie (doveva mantenere una famiglia con quattro figli!), il ricovero in manicomio della moglie nevrastenica (non è l’unico scrittore ad avere una moglie pazza: anche Pirandello ed Hesse), l’esaurimento nervoso legato agli eccessi del proprio lavoro di scrittore (Salgari era un “forzato della penna”: per contratto doveva sfornare quattro romanzi all’anno). Non è da escludersi una certa propensione al suicidio, forse genetica, se si considera che sia il padre sia due figli si sono suicidati. Ma a tutto ciò è da aggiungersi la profonda frustrazione, la congenita e romantica insoddisfazione per una vita ingrata, indegna e inferiore all’incontenibile ansia di assoluto e pienezza, libertà e ribellione che caratterizza gli eroi salgariani, uomini d’azione non privi di momenti critici amletici e spleenetici e proiezione del più vero io del loro inventore.

[4] Come tutte le semplificazioni, i luoghi comuni, questa schematizzazione è banale. Salgari indubbiamente ha letto Verne e avendolo letto ne trae ispirazione, ma non come un epigono: ci sono analogie nei titoli di alcuni romanzi, ma lo stile, il taglio e la forma mentis sono profondamente diversi. Salgari ha una scrittura più veloce, scattante, nervosa, sembra anticipare Hemingway, mentre Verne ha descrizioni pedanti; Salgari è più cauto nei suoi entusiasmi verso il progresso, è scettico e talora pessimista, Verne lo sarà solo nell’ultima sua produzione. Gianfranco De Turris ha colto molto bene la differenza tra i due, entrambi scrittori di successo per ragazzi: lo spirito positivista del primo e il pathos romantico del secondo. I personaggi dello scrittore veronese sono sanguigni ed inquieti, veri romantici o decadenti, quelli di Verne sono dei positivisti. Salgari sarebbe più avvicinabile, sempre secondo De Turris, ad Howard: stesso spirito d’avventura, stessa ribellione selvaggia, stessa «immaginazione evasiva».

[5] Un precedente verniano avrebbe potuto essere il romanzo Parigi nel XX secolo. Scritto nel 1863, ma pubblicato solo nel 1994, presenta una visione apocalittica del futuro tecnologico. Parigi è una metropoli alienante e spietata, raggelata da un sistema di vita materialistico ed efficientistico. Le analogie tra questo romanzo postumo di Verne e quello di Salgari in questione sono sorprendenti.

[6] La distopia è il contrario di utopia, quindi la letteratura distopica è quella che contesta le società perfette e non crede nella loro realizzazione e, se si realizzano, non ritiene siano giuste e sane, bensì dispotiche e alienanti.

[7] Interessante questa contaminazione di “scientifico” e magico. La protofantascienza decadente amava inserire elementi magico-mitologici o archeologici, unendo così l’antico al futuribile.

[8] Così il finale secco del romanzo: «Io ora mi domando se aumentando la tensione elettrica, l’umanità intera, in un tempo più o meno lontano, non finirà ad impazzire. Ecco un grande problema che dovrebbe preoccupare le menti dei nostri scienziati». Cfr. Emilio Salgari, Le meraviglie del 2000, Edizioni scolastiche Simone, 1996, p. 196.

[9] Emilio Salgari, Le meraviglie del 2000, Edizioni scolastiche Simone, 1996, p. 54

[10] Ibidem.

[11] Op. cit. p.56. Si noti il cinismo della futura umanità, inaridita da un pragmatismo esasperato. In questo romamzo Salgari fa stridere il suo intrinseco romanticismo con il positivismo totalizzante di un’ipotetica società futura, ma questo utilitarismo disumano è già presente e operante nei contemporanei dello scrittore: quello che sarà è la conseguenza di quello che si è. La natura del progresso è violenta e spietata.

[12] Op. cit. p. 71.

[13] Emilio Salgari, Il Re dell’aria, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1969, p. 158.

[14] Profetico pessimismo dello scrittore veronese!

[15] Il motore perfetto!

[16] Op. cit. pag. 37.

[17] Schematicamente questi i punti del celebre manifesto futurista, pubblicato l’11 febbraio del 1909 su Le Figaro parigino: celebrazione del pericolo, dell’energia e della temerità, della ribellione e del movimento, la bellezza della velocità, glorificazione della guerra, il disprezzo della donna, il culto della vita moderna. 

[18] Il romanzo è del 1909 come si legge in copertina, del 1910 se ci si basa sul frontespizio.

[19] Filippo Tommaso Marinetti, Mafarka il futurista, Oscar Mondadori, 2003, p. 163

[20] Op. cit. pag. 218.

[21] Op. cit. pag. 219.

[22] Gabriele D’Annunzio, Alcyone, Mondadori 1982, p. 618.

[23] Op. cit. p. 620.

[24] Prefazione che Marinetti intitola Decollaggio.

[25] Filippo Tommaso Marinetti, L’Aeropoema del golfo della Spezia in Zig Zag. Il romanzo futurista, a cura di Alessandro Masi, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 571

[26] Op. cit. 572

[27] Il titolo deriva da un motto del palazzo ducale di Mantova e indica incertezza, esitazione, ambiguità, il carattere psicologico, appunto, delle vicende amorose del romanzo.

[28] Erano dieci anni che D’Annunzio non pubblicava un romanzo. Forse che sì e forse che no fu l’ultimo, il più amato, oggetto di un’attenta revisione. D’Annunzio come il suo eroe Paolo Tarsis si recò veramente nel Palazzo ducale di Mantova, s’annotò la frase ambigua e presenziò al primo raduno aviatorio di Brescia del maggio 1907 (cent'anni fa, dunque!).

[29] Gabriele D’Annunzio, Forse che sì forse che no, Mondadori 1992, p. 389.

[30] Anche un pittore futurista come Giacomo Balla ha dipinto futuristicamente il volo di una rondine.

[31] Marinetti e D’Annunzio si sono influenzati reciprocamente. Dopo tutto sono gli esponenti più significativi e autorevoli del decadentismo italiano ed europeo, eredi entrambi della lezione simbolista francese e della poesia di Carducci, Pascoli e Whitman.

[32] Si veda l’analisi che Federico Roncoroni conduce nell’introduzione al romanzo da lui curato per la Mondadori (1992).

[33] Op. cit. p. 141.

[34] In ciò può ricordare posizioni di Leopardi, degli Scapigliati o di Verga.

 

Note biografiche relative all’autore

 

storia | opere | note biografiche | indice | saggi interdisciplinari | home
programmi e date degli incontri interdisciplinari


Il Copyright © relativo ai testi e alle immagini appartiene ai relativi autori per informazioni scrivete a
cosmogonie@caldarelli.it