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Magna Mater
Le ossa della Gran Madre
Paragrafi per Benevelli

Forme obsolete, oblunghe, ovoidi: grumi di pietra poco più grandi di un pugno, che l'intelligenza della mano ha modellato imprimendo nella materia un disegno inscritto nella mente, il disegno di un "qualcosa" che con sinuosa energia risveglia un complesso nodo di pulsioni, un rapporto senza tempo con bisogni, desideri, timori, che nella storia di ognuno delineano un'immagine mitica essenziale. Materia e forma compongono così un messaggio di arcane risonanze, rinviando a un qualcosa di eterno eppure familiare, alla durata e insieme all'istantaneità: ad una figura, circonfusa di un'aureola sacrale e investita di un complesso nodo di private emozioni e sentimenti.
Grumi insomma di un sogno, che ha l'età del pensiero e si proietta all'esterno col linguaggio del simbolo: non allegorie, ma simboli. Il simbolo è un modo di guardare, una prospettiva aperta sul mondo, per cui tutto è filtrato soggettivamente attraverso una angolazione peculiare all'esperienza esistenziale, al "mito", dell'individuo, di ogni individuo; al contrario, l'allegoria è una costruzione intellettualistica, una "ristrutturazione" della realtà, per la quale si indica un omologo in qualcosa d'altro.
Cosa fa Benevelli con queste pietre-grumi? Le intitola senza esitazioni la Grande Madre: scava e plasma dei simboli; sbriciola l'allegoria. Queste pietre non sono come la Grande Madre, non rappresentano la Grande Madre: sono la Grande Madre.
In un passo bellissimo delle Metamorfosi, il poeta latino Ovidio racconta di Deucalione e Pirra, che, unici superstiti del gran diluvio, si rivolgono all'oracolo per conoscere il proprio futuro e i propri compiti: "Mota dea est sortemque dedit: Discedite tempio / et velate caput cinctasque resolvite vestes / ossaque post tergum magnae iactat parentis". ("Si commosse la dea e diede questo responso: Lasciate il tempio, velate il vostro capo, sciogliete le cinture delle vesti e gettate dietro le spalle le ossa della Grande Madre"). Cosa debba intendersi con ossa della Grande Madre, Ovidio lo spiega poco appresso: "la Grande Madre è la terra: le ossa credo che siano le pietre". ("Magna parens terra est: lapides in corpore terrae / ossa reor").
Ossa della Grande Madre, dunque, le pietre: dal loro lancio dietro le spalle, da parte dei due sopravvissuti alle acque del diluvio, sarebbero nati gli umani.
Come dire che le pietre sono la Grande Madre e gli uomini recano scritto nel proprio corpo, come un'infrangibile memoria biologica, il proprio destino: un destino di durata, un destino di conoscenza: portano in sé la Grande Madre, un modello paradigmatico essenziale, un archetipo.
C.G. Jung, che ha studiato i meccanismi profondi della coscienza, vede in questa figura della pietra l'immagine del Sé, di un Sé che si cerca e si individua negli anfratti più riposti dell'anima: la "totalità psichica dell'uomo", il suo stesso principio di individuazione.
Un simbolo antico, eterno, dunque. Nell'antica Roma, ad esempio, sul monte Palatino, veniva venerata una pietra nera, il celebre Lapis niger, dall'indecifrabile iscrizione bustrofedica, concernente forse misteriosi riti in onore della Magna Mater. Non diversamente, a Delfi, in Grecia, o a Eliopoli, in Egitto, le pietre venivano investite di un potere simbolico straordinario: a Delfi, una pietra costituiva addirittura l'omphalos, il centro stesso del mondo.
Ecco, è in questa scia che si colloca Benevelli, con una forza che va oltre l'immediata referenzialità dei titoli che assegna ai suoi "manufatti", dei suoi betili che parlano la lingua arcaica dei desideri e delle paure dell'inconscio di tutti di fronte al mistero della materia e della vita.
"Natura, dea madre del tutto, madre dai molti accorgimenti, celeste, augusta, divinità creatrice, signora/... di tutte le cose tu sei padre, madre, nutrice e allevatrice/... tutto è in te, poi che tu sola crei queste cose...".
C'è nell'antico inno orfico a Physis, alla Natura, un empito religioso, che si trasmette intatto con tutta la sua forza di persuasione all'oggi delle forme di Benevelli, al rigore senza enfasi e senza retorica delle sue superfici tese e levigate: come se le attraversasse il vento dell'inno; come se le scarnificasse un soffio di mistero; un brivido di eterno, modellandone i contorni in seducenti sinuosità di conchiglia, in nervose tensioni di seme, nella rotondità carezzevole di una perla o di un uovo.
"...Tu che volgi in eterno vortice impetuosa corrente, onniflua, circolare, che vivi in molte forme...".
Come un'eterna matrice (e matrice è un termine presente nella pratica plastica di Benevelli), la Natura dispiega le sue forme cariche di suggestione e di mistero: è il caldo abbraccio di un'amante; è l'umido segreto di una donna; è il germe e la gemma di una miracolosa fecondazione.
Seme, conchiglia, uovo, perla... Le pietre di Benevelli, i suoi marmi di fascinosa provenienza (il bianco di Carrara, di Paro e di Naxos, il rosa del Portogallo...) acquistano arcaiche risonanze nel loro incontro: nell'incontro con archetipi dell'inconscio collettivo, con simboli di trasformazione, inscritti nella sinuosità dei contorni, nella nitidezza di superfici geometricamente sensuali, che danno corpo a una nostalgia di armonia e di bellezza in un fluire calmo e armonico della materia. C'è il senso di una maturazione lenta, naturale, silenziosa, per cui la pietra si spoglia del suo peso, della gravità materica e spaziale che la fa essere pietra, per diventare il simbolo di una progressiva presa di coscienza, dell'affiorare di una linea che si fa canto. C'è l'invocazione di una fecondità, l'attesa di una forza produttiva, quale può inscriversi nelle spire ellittiche di una conchiglia, armoniosamente allusiva al mistero di una genitalità riscattata di ogni impudicizia o pruderie: quasi il brivido botticelliano che precede il miracolo luminoso di Afrodite.
C'è l'annuncio di una vita infinitamente più ricca, di uno stato di coscienza rigenerato, da cui il fare acquisti autorizzazione e autorità: nell'ovale rotondità della pietra c'è il senso di un calibrato mistero, di un qualcosa che annuncia un'illuminazione, una rivelazione.
C'è un sogno di perfezione e di bellezza, inscritto nel biancore latteo e lunare della perla: l'idea di un'energia primordiale, capace di ricondurre le pulsioni organiche dell'uomo, i suoi istinti, ad una misura superiore di purezza, di assoluta e ideale decantazione d'ogni difetto di essere.
"Natura, dea madre del tutto.../... di tutte le cose tu sei padre, madre, nutrice e allevatrice/... tutto è in te, poi che tu sola crei queste cose".
Dietro l'apparente bonomia in Benevelli senti l'unghia del leone, la sicurezza dell'artista consapevole del suo valore e della necessità del suo discorso: ci senti l'astuzia di una ragione vigile e tenace, la decisione e la capacità di dar corpo .ai propri fantasmi.
Di un simile habitus la riprova m'è venuta da una constatazione: dal verificare cioè il suo modo stesso di lavorare, l'itinerario che ha portato queste "Dee" a prender corpo da un'idea, attraverso un processo di decantazione, di scelte e di rifiuti, dal disegno al bozzetto al blocco di marmo, nei progressivi passaggi di approssimazione alla forma conclusa e conclusiva: un processo di decantazione, polverizzato e disperso nelle mille tracce che resistono e ingombrano, dappertutto, nel suo studio.
Una serie di "passaggi", dunque, ognuno apparentemente concluso e definitivo, ma per il profano: come dire che l'arte è un processo di "stazioni" progressive, un avvicinamento del desiderio "al suo desire", in ogni punto incarnando un "concetto" che è tutto soltanto nella mente dell'artista e cui la mano dà con sapienza la forma.
Come non vedere in questo processo un qualcosa di più essenziale e più profondo della semplice meccanicità dell'operare dello scultore in un caso specifico? Un qualcosa di essenziale e profondo che attiene più in generale alle ragioni stesse del fare artistico? Dietro il gesto semplice e innocente del progettare e plasmare uno scampolo di marmo si descrive, infatti, la strategia stessa del sogno: come lo scultore delle "Dee", il sogno rielabora un materiale inerte, i resti del giorno, senza alcun altro disegno se non la traccia di un desiderio misterioso e incollocabile, entro la cui economia nessuno può penetrare e che si deposita in immagini, intese nel loro senso più etimologico di forme del profondo, fatte di luce o di tenebra, ma sempre di evidenza unica e folgorante, tanto più unica e folgorante quanto più si riducono, si rimpiccioliscono microscopizzandosi.
Come dire che l'opera maggiore di Benevelli (i suoi grandi marmi, i suoi bronzi, le sue installazioni pubbliche...) e la vita diurna del sognante sono i presupposti, i punti di partenza di una messa a fuoco e di una reinvenzione delle cose e dei fondamenti del soggetto, i presupposti dell'invenzione artistica (nel caso, le "Dee") e del lavoro del sogno: che entrambe le prime (l'opera e la vita) assolvono rispetto alle Madri e al sogno la funzione, per usare una celebre metafora di Freud, di "imprenditrici" e "appaltatrici" di una realtà finalmente autentica ed essenziale nella sua pur enigmatica e preziosa bellezza.

Vincenzo Guarracino
aprile 1991



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